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Autore: LadyPalma    17/02/2024    3 recensioni
Questa storia partecipa alla challenge "Questioni di voci e stile – II edizione" indetta da RosmaryW sul forum Ferisce la penna.
“Non ti senti mai sola, madame Vector?”
“Oh, solo alcune volte, suppongo”.
“E, dimmi, potrei farti compagnia in quelle volte?”
Silenziosa, ho aperto la porta. La mia colpa: non ho fatto niente, l’ho lasciato entrare.

[Amycus Carrow/Septima Vector, raccolta di tre flash]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Amycus Carrow, Septima Vector
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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Omissioni


 

 

I.

 

Se me lo chiederanno dirò questo: Non sono a conoscenza di nulla, non ho visto mai niente. Non le torture, non le aule e i corridoi svuotarsi di giorno in giorno, non gli sguardi terrorizzati e i sorrisi sinistri.
E non ho neanche mai sentito. Non le grida in piena notte, non le minacce, non i pianti disperati e le risate cattive.
Ci conviene stare zitti, mantenere un basso profilo”. Al consiglio ripetuto di Horace, ho sempre sorriso intimamente. Quel codardo era abbastanza coraggioso da pronunciare ad alta voce quella che per me era una verità scontata: soltanto con le omissioni e gli atti mancati è possibile la salvezza. Se costretta non mi opporrò alle richieste di chi comanda adesso – ma se continuerò a essere invisibile nessuno mi chiederà mai niente, del resto.
Septima Vector non ha aiutato i Mangiamorte, potranno dire se il Signore Oscuro cadrà.
Septima Vector non ha aiutato la resistenza, potranno dire se il Signore Oscuro vincerà.
Non avrei mosso un dito, non ho mai pensato di farlo e, forse, non so neanche davvero come si fa: mi piace scivolare sulla superficie degli eventi riscrivendoli nella mia mente a mio piacimento, da lontano. L’ho sempre fatto, in famiglia, a Hogwarts, negli ambienti che ho provato ad abitare senza successo. È sempre stato semplice nascondersi alla luce del sole, sparire tra gli altri volti, fingere di essere una statua di sale e diventare muta come un numero.
È stato più difficile quest’anno, non tanto perché l’ordine attorno a me s’è all’improvviso infranto ma perché il caos è venuto a bussare alla mia porta.
Aveva gli occhi azzurri e li puntava fissi su di me come nessuno aveva mai fatto prima. Non ho mai pensato che il male potesse avere occhi così cristallini.
E io, nel silenzio ovattato delle mie stanze vuote, ho ceduto alla curiosità. Gli occhi azzurri li ho anche io, li ho anche io.
Non è successo niente, dirò questo, tenendo quegli occhi bassi, e mi crederanno, e ci crederò anche io. Intanto, resto immobile, a vagheggiare le conversazioni scomode e i formali interrogatori di un futuro ormai sempre più prossimo. 
Chiunque vincerà questa battaglia mi troverà nella mia aula di Aritmanzia a contare, come sempre.
Uno, due, tre, quattro.
Uno, due, tre.
Uno, due maggio 1998.
Quando me lo chiederanno io dirò questo: io non ho mai neanche parlato con Amycus Carrow.

 

(“Non ti senti mai sola, madame Vector?”
“Oh, solo alcune volte, suppongo”.
“E, dimmi, potrei farti compagnia in quelle volte?”
Silenziosa, ho aperto la porta. La mia colpa: non ho fatto niente, l’ho lasciato entrare.)



 

II.

 

Vivi come se nessuno dovesse mai chiederti il conto di niente. Per questo gridi invece di parlare il più delle volte, lanci maledizioni senza perdono come se fossero degli Accio allegria, e dove la magia non basta allora sgusciano fuori i residui Babbani – arrivano le mani, arrivano gli sputi.
Sei sempre stato caos, parte di un caos più grande. Accogli con gioia la nomina del tuo Signore a professore, un ruolo di potere come un altro, anche se in fondo neanche ti interessa comandare, perché fare crollare quella maledetta scuola dal suo interno ti esalta. Ciò che vuoi è semplicemente distruggere – Babbani, mezzosangue, ibridi, forse alla fine chiunque. E subito, prima di ripensarci, prima di–
Non sei mai riuscito a contare fino a tre prima di esplodere, o come suggeriva la tua dolce madre, nel tuo caso, Amycus, almeno fino a quattro. È che ci vuole calma ed equilibrio per contare, due qualità che tu non ha mai avuto.
Forse è per questo che il tuo sguardo si è posato sulla strega talmente priva di carattere da dare l’impressione di poter scomparire da un momento all’altro. L’hai trattenuta tu, ti piace pensare, ma soltanto per permettere a lei di trattenere te. 
Di avere una sfida. Distruggere l’ordine in persona, squarciare quel velo di imperturbabilità e di silenzio che proprio non puoi tollerare.
Di avere uno specchio. Alecto ti assomiglia, ma non ha gli occhi azzurri, non ha occhi così freddi e vuoti da vederci dentro le ascisse e le ordinate.
Di avere un’ancora di salvezza. Ché forse può spiegarti come si fa a restare a galla senza avere quella smania impossibile di dover fare a pezzi ogni cosa.
Uno, due, tre, quattro.
Uno, due, tre.
Uno, due maggio 1998.
Hai contato bene durante la battaglia, ora che sai come si fa, scegliendo con calcolo i nemici da fronteggiare e tentando poi una ragionata fuga. Il caos è esploso comunque, e quel caos sei ancora tu.

 

(“Vorrei facessi una cosa per me, Septimia”.
“Non voglio entrare in mezzo alla guerra, se è questo che chiedi”.
Nel letto sfatto, insospettabilmente con dolcezza, ti viene da ridere.
Anche tu vorresti imparare a non fare niente, ma ci vorrebbe troppo tempo.

“Insegnami a contare. E per il resto, quando arriverà il momento, ti chiedo solo omissioni”)



 

III.

 

La corte del Wizengamot gremita, di accusatori e di accusati, e Amycus che la fissa con quegli occhi che sembrano irriderla. Tutti i professori prima di lei hanno denunciato; Lumacorno ha suggerito che lei forse potesse conoscere meglio uno degli imputati.
“Madame Vector, ha qualcosa da dire su Amycus Carrow? È a conoscenza di qualcosa che la Corte dovrebbe sapere?”
A quella risposta si è preparata un anno intero, farla scivolare sulla lingua è semplice come contare. Septima prende un respiro e poi, semplicemente, omette. Come le ha chiesto lui stesso, del resto, come fa da tutta una vita.
“Non ho avuto modo di conoscere l’imputato. Non lo conosco”.
Dal banco degli accusati si leva una risata lunga e stonata, inframmezzata da una cantilena apparentemente priva di senso.
Uno, due, tre, quattro. Uno, due, tre, quattro”.

 

L’omissione di tutto il processo è che Amycus e Septimia si sono scoperti necessari l’uno all’altra come sanno essere soltanto gli opposti: il pari e il dispari, il concavo e il convesso. Per questo s’incontrano ancora, ad Azkaban, in un luogo al di là del bene e del male – perché la contraddizione fondamentale è un’altra: ordine e caos. E adesso ciascuno è tutte e due le cose insieme.
“Mi chiedevo se fossi rimasto… deluso”.
“Deluso?”
“Se forse ti aspettavi che dicessi qualcosa di diverso, che omettessi i tuoi crimini soltanto e–”
Amycus ride forte, proprio come in tribunale ma stavolta non conta, anche se quel conto ha finalmente un senso. Stava scandendo il ritmo del tempo prima di rivederla, ché lui lo sapeva si sarebbero rivisti.
“Non ti torturare, Septima. Non c’era altro modo per continuare… beh, per continuare noi”.
La donna spalanca gli occhi, non può farne a meno, e ancora una volta si ritrova addosso in risposta quelli uguali e speculari di lui. Noi. Non ci aveva pensato nemmeno una volta a quella possibilità, pensava seriamente di dirgli addio e poi tornare a prendere il suo posto immeritato sul carro dei vincitori. Ha bisogno di aria, all’improvviso quella prigione le appare davvero come una gabbia e le gira la testa. Inspira, espira. Unoduetrequattro. Oh, ma non può sparire stavolta, non vuole.
“Devo andare”.
Si alza in piedi e indugia, poi inevitabilmente cede, senza neanche saperlo – a una vita di disordine, a un segreto pericoloso, ad amare la violenza in persona. 

“Tornerò presto”.
“Questo lo so, mia cara”.

 

(Si trovano l’uno di fronte all’altra, come mille altre volte ormai, come sarà forse per sempre. Amycus tende le mani, bloccate dalle manette magiche, così è lei ad avvicinarsi – fino a sfiorarlo con i polpastrelli, fino a farsi accarezzare dal soffio della sua voce.
“Uno, due, tre, quattro”.
“Uno, due, tre–” e il bacio è l’unica omissione che resta.
Non sembrano più così rassicuranti i numeri adesso.
Le piacciono di più).









xx
NDA: È davvero da tanto tempo che il personaggio di Septima esiste nella mia testa, anche se all'inizio non l'avevo immaginata così, come non avevo immaginato di sviluppare in questo modo il rapporto con Amycus. Ma mentre scrivevo la versione idealista che mi ero formata di Septima è andata sgretolandosi per lasciare il posto a un personaggio più grigio, più indifferente e opportunista, più banale – ed è, del resto, la banalità del male che ho voluto rendere attraverso di lei, in rapporto a un Amycus che è invece il male nella versione più feroce. Da un punto di vista di riflessione morale, ho anche voluto unire il tema della banalità del male a quella del valore da attribuire alle omissioni.
Le indicazioni della challenge erano molteplici, per riassumere: tre flash con tre persone narranti differenti, la prima incentrata sul personaggio A della coppia, la seconda sul personaggio B e la terza su entrambi. I dialoghi presenti dovevano essere privi di verbi o aggettivi che li reggano, quindi autonomi.
   
 
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