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Autore: Sapphire_    25/02/2024    0 recensioni
Quando Iris arriva alla festa in maschera di Giovedì Grasso, è convinta di star finalmente vivendo il suo momento da fiaba. Ha un vestito favoloso ed è sicura che, quella sera, riuscirà finalmente ad ammaliare Giacomo per cui ha una cotta da ormai mesi.
Peccato che niente vada come sperava.
Ed è in quel momento, quando ormai si arrende all'idea che nulla di quella serata ha le sembianze di una fiaba, che l'aiuto sopraggiunge inaspettato.
Di certo, non era in quel modo che si immaginava una fata madrina.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Chimes at Midnight







No, questo è il bagno delle ragazze.
Solo dopo un paio di secondi mi resi conto che non avevo parlato a voce alta.
Arrossii e feci un passo indietro – sbattei contro il lavandino, ma il dolore era nulla in confronto all’imbarazzo.
«Ma la ragazza è uscita da qui.» mi ritrovai a giustificarmi.
Il ragazzo lanciò appena un’occhiata alla porta prima di ripuntare quegli assurdi occhi rossi su di me – erano lenti a contatto, ovviamente.
Lo erano, vero?
«Sì, era con me.» si limitò a rispondere.
Non sapevo come replicare e tacqui, mentre con le mani mi aggrappavo al lavandino sentendo delle gocce d’acqua inumidirmi la pelle.
Mi persi a fissarlo e notai solo in quel momento la camicia bianca sporca di ditate di sangue. Aveva i primi bottoni slacciati e una collana argentata che si perdeva oltre il tessuto, una giacca nera poggiata sulle spalle e le maniche puntellate di rosso arrotolate. Si notava appena un tatuaggio, ma anch’esso come la collana si perdeva dentro la camicia, lasciata fuori dai pantaloni neri.
Il suo viso, invece, sembrava uscito da un libro. O da una copertina di moda.
Aveva i tratti cesellati, la pelle chiara che veniva risaltata dagli occhi rossi e dai folti capelli neri, mossi e abbastanza lunghi da sfiorargli il colletto della camicia.
«Hai intenzione di stare qui ancora per molto?»
Sobbalzai nuovamente e mi accorsi di essere tesa come una corda di violino. Aprii la bocca per rispondere ma non ero sicura di cosa volessi dire, perciò la richiusi.
Lui continuava a fissarmi senza alcuna espressione in volto e – non ho la minima idea del perché ­– mi venne di nuovo da piangere.
«Io…» mugugnai, prima di abbassare la sguardo e vedere nuovamente il vestito disastrato, cosa che mi fece piangere ancora di più.
In quell’istante avevo la vista appannata dalle lacrime e non vidi l’espressione che fece, ma in mezzo ai singhiozzi trattenuti udii un sospiro – seccato? Esasperato? Non riuscii a capirlo.
«Senti, non ho la minima idea di cosa ti sia successo e, detto in tutta onestà, non mi interessa nemmeno. Quindi, ecco, potresti andare a piangere da un’altra parte?»
Anche senza tutte quelle lacrime che mi chiudevano la gola, non avrei saputo che rispondergli. Perciò mi limitai ad alzare la testa, ad afferrare un fazzoletto dal dispenser di fianco e fissarlo mentre uno strano sentimento – un misto di rabbia, imbarazzo, tristezza e qualcos’altro di indefinibile – mi permetteva di riscuotermi.
«Tu…» iniziai, ma un singhiozzo mi interruppe brutalmente, ciononostante deglutii e mi sforzai di continuare «Tu sei proprio uno stronzo!»
Onestamente? Non ero mai stata una da insultare sconosciuti. Anzi, a dire il vero ero una di quelle che non riusciva nemmeno a replicare quando veniva trattata male da un commesso, uno sconosciuto in strada o qualsiasi altra persona. Ero quella che si immobilizzava, che si imbarazzava all’idea di cosa avrebbero potuto pensare gli altri se avessi risposto, che tratteneva le lacrime e che poi, una volta sola, tirava fuori le risposte perfette per le occasioni mancate.
Era un po’ una ricorrente nella mia vita: sforzandomi di creare l’immagine di una me pulita, ero così impegnata a ricoprirmi di sapone che tutto mi scivolava dalle dita – dalla vita.
Eppure, in quel momento non riuscii a fare un sorriso imbarazzato. Piangere, beh, lo stavo già facendo per altri motivi.
Il ragazzo prese quell’insulto come qualcuno già abituato a riceverne simili, ovvero scrollò le spalle disinteressato.
«Senti, Persefone
Di certo, tra tutte le cose che avrebbe potuto dirmi, non mi aspettavo quella.
Lo interruppi brutalmente.
«Come mi hai chiamato?»
Una lontana parte del mio cervello registrò il tono sepolcrale che mi era uscito, ma non quella presente in quel momento.
Per la prima volta da quando si era rivolto a me mostrò un’altra espressione oltre la solita indifferenza. Confusione.
«Persefone?» ripeté, per poi lasciar scivolare lo sguardo nuovamente sul mio vestito – arrossii, fin troppo consapevole del suo stato.
«Perché, ho frainteso?» lo chiese inclinando appena la testa.
Era di una bellezza assurda, quasi angelica, e il pensiero mi colpì come uno schiaffo mentre mi rendevo conto che era la prima persona in quella serata – no, anzi, la prima persona in generale ­­­– che capiva da chi fossi vestita senza che io glielo dovessi spiegare. Le mie coinquiline, mia madre, persino mio fratello mi avevano guardata (o meglio, avevano guardato la foto che avevo inviato) e avevano blaterato qualcosa a proposito di fata, ninfa, druida o qualsiasi altra cosa potesse ricollegarsi ai fiori.
«…no.» quasi sussurrai, ma nel silenzio del bagno fu comunque ben udibile. Feci un flebile sorriso.
«Sei l’unica persona che l’ha capito.» ammisi con gli occhi bassi, più amara di quanto volessi.
Lui taceva e quando alzai lo sguardo lo trovai nuovamente a fissarmi, questa volta con meno freddezza rispetto a prima.
Sospirò, e quella volta capii il suo sospiro. Era arreso.
Lo osservai mentre si avvicinava alla finestra, la apriva e, con un agile movimento facilitato dalla sua altezza, saltava sul davanzale a cavalcioni.
«Attento!» mi sfuggì prima che potessi farne a meno, ma lui mi ignorò e lo osservai accendersi la sigaretta con cui fino a quel momento aveva giocherellato distratto. Fece scattare lo zippo di metallo e osservai ipnotizzata la fiamma che si avvicinava alla sigaretta, per poi notare gli anelli sulle dita lunghe e pallide.
Rimasi in silenzio mentre lo osservavo ispirare, le labbra semiaperte che lasciavano uscire pigramente il fumo in piccole volute che si disperdevano nell’aria fredda proveniente dall’esterno. La luce bassa ammorbidiva i contrasti provocati dai capelli scuri e la camicia bianca e, se anche avessi voluto dire qualcosa, quello sconosciuto possedeva un certo tipo di bellezza che lasciava letteralmente senza fiato.
O forse a lasciarmi senza fiato erano solo gli spritz.
Sembra uscito da un quadro.
«Avanti, che è successo?»
Non mi accorsi di aver allargato gli occhi, né dello stupore dipinto in faccia, ma i suoi occhi rossi improvvisamente puntati su di me lo notarono eccome e, anche se lo dissimulò rapido, notai il sorrisino prima che alzasse gli occhi al cielo.
«Sei qui, in lacrime, con un vestito distrutto e macchiato di vino. Mi hai già disturbato e insultato, tanto vale sapere che è successo.»
La sua voce non faceva trasparire molta curiosità e una parte di me pensò che gli facessi un po’ di pena. Scossi mentalmente la testa: dopo averlo sentito candidamente ammettere che non gli interessava ciò che mi era successo, potevo dire che non mi sembrava una persona particolarmente premurosa.
Mi sono sempre considerata una persona chiacchierona, anche con gli sconosciuti – cosa che cozzava abbastanza con l’idea di black cat girl che avrei tanto voluto dare, fallendo miseramente quando la mia personalità da golden retriever emergeva – eppure sfogarmi con un completo sconosciuto sul teatrino imbarazzante di cui ero appena stata la protagonista non l’avrei definito proprio un tratto distintivo della mia personalità.
Tuttavia, sarà stata la sua indifferenza, la sua bellezza ammaliatrice, o semplicemente la me stessa che aveva bisogno di dire a voce alta quello che era appena successo. Fatto sta che mi ritrovai ad aprire la bocca senza volerlo.
«C’è un motivo preciso per cui sono voluta venire a questa festa, ed è perché ho una tremenda cotta per un mio compagno di corso che sapevo ci sarebbe stato.» iniziai così, a casaccio, o ‘in medias res’ come avrebbe detto la mia vecchia prof di latino. Mi sfuggì una risatina prima di continuare.
«Ho promesso tutti gli appunti di Micro e Macroeconomia per poter avere questi biglietti – sai cosa significa? Mi sono fatta il culo per averli perfetti e chiunque sano di mente li avrebbe venduti. Invece no! Io sono una sottona senza speranza, quindi quando quell’idiota di Alessio mi ha detto “o gli appunti o niente biglietti” io ho detto “ma certo”!»
Il mio tono era più isterico di quanto volessi e mi schiarii la gola, fingendo indifferenza mentre lo sconosciuto mi fissava espirando il fumo in maniera così lenta che per un paio di secondi mi persi nuovamente nei rivoli che scivolavano dalle sue labbra.
«Volevo fare colpo su Giacomo, ovviamente, dato che non mi considera di striscio se non per quanto riguarda roba di università e, detto francamente, che palle! Cioè, sono una bella ragazza, ok, non sarò una modella, ma è palese che sono interessata a te, almeno quando propongo di andare a prendere uno spritz non invitare il resto della classe!» colma di frustrazione diedi un colpo al lavandino e l’anello che portavo al medio sinistro tintinnò.
«Insomma, mi sono impegnata un sacco in questo vestito – volevo qualcosa di originale, di romantico ma anche un po’ seducente, però non volevo che sembrasse che gliela tirassi addosso e quindi ho pensato “ma sì, un vestito lungo sarebbe perfetto!”.» tacqui e lanciai uno sguardo allo specchio «Un’idea proprio di merda.» continuai amareggiata e spostai di nuovo lo sguardo su di lui.
Tacqui un paio di istanti, cercando di capire se volesse intervenire o meno, ma lo sconosciuto continuava a fissarmi in silenzio e decisi di proseguire.
«Non avevo considerato la praticità della cosa, lo devo ammettere.» feci un cenno verso la porta, fuori dove il resto delle persone continuava a godersi il resto della serata «Insomma, siamo praticamente al buio, è un free-drink e la maggior parte di queste persone berrà fino a star male, dove volevo andare con questo vestito? Era praticamente scritto che qualcuno ci avrebbe inciampato – anzi, forse sono fortunata a non esserci inciampata io stessa.» terminai sarcastica.
Quella volta non trattenne il sorrisetto spontaneo che gli sorse sulle labbra e, anche se in maniera piuttosto insensata, vederlo ridere mi alleggerì un poco.
«E, infatti, indovina un po’? Una ragazza è inciampata sul mio vestito, strappandolo» lo dissi mentre con una mano mostravo il lungo squarcio che partiva dal basso e terminava poco più su del ginocchio «e mi ha rovesciato tutto il suo vino rosso addosso, e ora sembro solo ridicola.»
Scoppiai a ridere, ormai quasi divertita da quel mini-show a cui mi stavo lasciando andare mentre gesticolavo e mi muovevo per mettere in mostra lo spacco sul tessuto.
«E non è finita qui!» lo dissi alzando l’indice, la scarsa imitazione di una maestrina, e osservai il suo sguardo illuminarsi mentre poggiava un gomito su un ginocchio, sporgendosi in avanti.
«No, dai, e poi?» mi stuzzicò con un mezzo sorriso.
Non ero sicura che mi stesse prendendo in giro o meno, ma decisi di continuare lo stesso.
«Beh, ovviamente tutto questo non è successo mentre ero in mezzo a degli sconosciuti. No, assolutamente, piuttosto proprio davanti a…» mi interruppi, un sorriso sarcastico stampato in volto.
«Fammi indovinare, Giacomo.»
Continuavo a non saper dire se mi stesse prendendo in giro o meno, ma la cosa certa era che il suo tono era alquanto coinvolto.
«Esatto!» trillai e schioccai le dita «Ma questa non è la parte peggiore.» lo dissi mettendomi una mano sul petto e una alla fronte, in una posa esageratamente drammatica.
«Oddio, perché, può andare peggio di così?»
«Può sempre andare peggio, ricordatelo.» lo fissai terribilmente seria, prima di continuare con il mio teatrino a cui ormai avevo preso gusto.
«Perché, vedi, io non sono venuta da sola a questa festa, ma con una mia amica, Veronica.»
Nominarla mi fece venire in mente che le avevo detto di vederci in dieci minuti. Sotto lo sguardo attento del bel sconosciuto diedi una rapida occhiata al telefono: nessun messaggio.
Non sapevo come sentirmi a quel proposito, perciò decisi di continuare a parlare.
«Vedi, la mia amica è una gran figa. Non c’è proprio nulla da fare, è proprio bella senza il minimo sforzo. Potrebbe uscire anche con un sacco e farebbe comunque voltare qualcuno per strada – credo sia proprio l’aura che la circonda, sai?» il mio tono si era fatto improvvisamente pensieroso «Lei è una di quelle molto sicure di sé, hai presente? E io le voglio davvero tanto bene, però a volte la invidio così tanto che mi sento davvero una persona di merda.»
Dirlo ad alta voce era peggio di quanto pensassi, e il silenzio era fastidiosamente pesante.
Ma quando alzai lo sguardo, il suo sguardo così intenso era puntato su di me e non percepivo alcun giudizio nei suoi occhi. Mi fissava in attesa, la sigaretta che penzolava tra il medio e l’indice, una ciocca di capelli neri che gli cadeva sull’occhio destro, la bocca chiusa che formava una linea dritta.
Abbassai lo sguardo verso la collana che, data la posizione, penzolava dal suo collo. Era una croce al contrario che sembrava parte del costume.
Lui continuava a tacere. Non sembrava intenzionato a pronunciare alcuna frase consolatoria, insomma, qualcosa che chiunque avrebbe finito per propinare – qualcosa che io avrei potuto dire se mi fossi trovata al suo posto.
Continuava ad aspettare che io finissi.
Sospirai e abbassai lo sguardo verso la maschera che tenevo in mano. Improvvisamente quel bordeaux sembrò terribilmente premonitore.
«Quando Veronica ha deciso di andare a fumare e ho visto Giacomo ho pensato che fossi davvero fortunata. Io non fumo, sai, e sarebbe stato strano uscire fuori così, dal nulla, e dentro è difficile approcciare qualcuno con tutta quella musica.» continuavo a rigirarmi la mascherina tra le mani, improvvisamente spenta di tutte le energie precedenti.
«Sapevo che sarebbe successo, perché conosco quelli come Giacomo. Cascano sempre per le tipe come Veronica, e io sono stata davvero una stupida perché non ho mai detto a Veronica di lui – l’ho fatto perché lei sembra sempre così disinteressata e seccata quando parlo di questo genere di cose che…» mi interruppi, incerta di cosa dire.
Veronica non era la tipa a cui piaceva fare quel genere di chiacchiere, e andava bene, insomma non è obbligatorio. Però rendeva difficile intavolare quel genere di conversazione e nei momenti in cui avevo pensato di dirglielo, dopo poco avevo cambiato idea e lasciato perdere, pensando ‘la prossima volta lo farò’.
«Lui l’ha vista e ho notato come l’ha guardata. Era ammaliato da lei e io non esistevo più.»
La scena si ripeté nella mia mente a rallentatore e sentii nuovamente gli occhi inumidirsi.
«E lei di solito è una tipa così disinteressata ai ragazzi. Odia quando ci provano, ma gli ha sorriso, e io la conosco, lei non sorride mai in questi casi a patto che il ragazzo non le interessi.» enfatizzai quel ‘mai’ mentre le parole uscivano una dopo l’altra senza pause.
Dopo tutte quelle confessioni rialzai lo sguardo verso di lui e notai che aveva cambiato posizione senza che me ne accorgessi. Aveva sollevato la gamba, il gomito rimaneva poggiato su di essa mentre si reggeva la testa con una mano. L’altra reggeva la sigaretta ormai finita.
«Quindi, insomma, in questa bella serata sono riuscita a rovinare il mio vestito, a fare una figura di merda di fronte al ragazzo che mi piace e, per non farmi mancare nulla, ho visto il suddetto ragazzo rimanere folgorato dalla mia amica.»
Feci silenzio mentre riassaporavo le parole amare appena pronunciate. L’eco di una risata sguaiata provenne dalla finestra aperta e mi ridestò.
«Cavolo, detto così è davvero brutto.» mormorai con un mezzo sorriso che rifletteva la stessa amarezza.
«Già.» mi rispose lui.
Scoppiai a ridere a quella franchezza – una come me non sarebbe mai riuscita ad essere così schietta e non ero sicura fosse un lato del tutto positivo.
«Beh, grazie per avermi ascoltata. Ti ringrazio a nome della mia coinquilina che non si dovrà sorbire questo monologo.» ironizzai.
Non che le avrei raccontato tutto nei minimi dettagli come avevo appena fatto – forse mi sarei risparmiata alcuni particolari, tipo l’intero discorso su Veronica.
Lanciai uno sguardo verso lo specchio, il quale mi restituì l’immagine di una ragazza dallo sguardo sconsolato, il mascara colato dagli occhi nocciola ancora illuminati dall’ombretto brillante, il rossetto rosato quasi del tutto scomparso. Nel complesso ero pallida, se non per il naso e gli occhi arrossati.
«Credo che per me la serata sia finita qui, è meglio che me ne torni a casa. Dovrei ancora avere una bottiglia di vino da qualche parte.» borbottai l’ultima parte, voltandomi verso la porta.
«Beh, grazie anc-»
«Aspetta.»
La sua voce mi interruppe brutalmente appena prima di vedere la sua mano che con un gesto improvviso quanto rapido richiudeva la porta, il rumore secco mascherato dalla musica. Trattenni il respiro senza volerlo, notando con la coda dell’occhio il braccio disteso alla mia sinistra, ma ripresi a respirare proprio nel momento in cui mi voltai, un secondo dopo.
Forse fu peggio.
Era stato così veloce che non mi ero accorta si fosse mosso. A quella distanza potevo notare perfettamente il cerchio attorno alla cornea che rivelava le lenti a contatto, così come potevo sentire il profumo di sigaretta misto a qualcos’altro che non riuscivo ben a identificare a causa del fumo. Era stranamente piacevole.
Mi fissava dal suo metro e tanta altezza e, nonostante non mi fossi mai sentita particolarmente bassa, mi sentii ancora più minuta.
«Cosa c’è?»
Non ero intenzionata a sussurrare, eppure la voce mi uscì in un filo.
Non parlò subito, lasciò vagare i propri occhi sul mio volto e per la prima volta nella mia vita capii cosa si intendeva quando, nelle centinaia di libri romance che leggevo, vedevo descrivere sguardi brucianti.
Perché, in quel momento, mi sembrava di bruciare sotto le sue cornee tinte di quel finto rosso.
Sorrise, ma non era un sorriso divertito, piuttosto rivelava un pizzico di malizia e di intenzioni che non riuscii a identificare.
Stavo per dirgli di allontanarsi quando lui abbassò il braccio, facendo un passo indietro.
«La tua serata non deve per forza finire qua.» lo disse con naturalezza e anche se non potevo guardarmi allo specchio, ero sicura che la mia espressione fosse di totale confusione.
«Vieni con me.» disse solo.
Non mi diede il tempo di fare domande.
Mi afferrò il braccio e mi resi conto di scottare solo quando la sua pelle gelida venne in contatto con la mia attraverso lo strato sottile della manica.
Sarò sincera: se fosse stato meno affascinante di quel che era non mi sarei lasciata condurre così tranquillamente tra le stanze buie di quell’antico palazzo veneziano, eppure il mio istinto di autoconservazione era andato a farsi benedire nel momento in cui quello sconosciuto aveva invaso la mia distanza personale e pensai che, anche se fosse stato un vero vampiro, forse come fine serata non sarebbe andata nemmeno troppo male considerando il suo inizio.
«Aspetta, dove stiamo andando?»
Questo non significava che non avrei fatto alcuna domanda.
«Shhh!» mi zittì e appena prima che potessi protestare mi trascinò dentro una stanza al buio per poi chiudere la porta a chiave.
Forse non avrei dovuto seguirlo senza domande, pensai vaga mentre il prospetto di un omicidio mi aleggiava in testa. Cosa avevo detto poco prima? ‘Può sempre andare peggio’, giusto.
«Vuoi uccidermi?» piagnucolai.
Una mezza risata fu la sua unica risposta prima di sentire il rumore di un interruttore e venire accecata dalle luci di quello che sembrava…
«Un altro bagno?» feci dubbiosa.
Era un bagno, ma era molto diverso da quello da cui eravamo appena usciti: era un bagno ‘vero’, come quelli che si trovano dentro le abitazioni. Era fatto in marmo rosa, aveva una vasca ampia, due lavandini sormontati da un grande specchio e un bancone ricolmo di un sacco di oggetti. Riconobbi make-up, una piastra per capelli, forbici, stole di fili di diverso colore e pezzi di stoffa.
«Non dovresti essere qui, ma considerando che mi hanno fatto lavorare gratis direi che potranno considerare questo il prezzo da pagare.» disse lo sconosciuto con una mezza smorfia seccata, lasciandomi il braccio.
Senza pensarci sfiorai con l’altra mano il punto in cui mi aveva toccata, guardandomi intorno in maniera confusa.
«Non capisco perché mi hai portata qui.»
Ed ero più che sincera, non avevo una mezza idea di cosa volesse fare e, considerando che l’effetto degli spritz ormai stava svanendo, iniziava a venirmi un po’ di ansia.
«Non ti ucciderò con delle forbici da cucito, tranquilla.» motteggiò lui, mentre si avvicinava al banco e afferrava le suddette forbici. Ci giocherellò con consumata abitudine mentre ripuntava i suoi soliti occhi scarlatti su di me.
«Sai, me la cavo con i vestiti.» disse improvvisamente e con aria casuale, per poi spostare lo sguardo dal mio volto e farlo scendere sul mio vestito. O quello che ne rimaneva.
«Inoltre, la tua idea non era male. Certo, non hai tenuto in considerazione alcuni dettagli, ma la base c’era, questo è l’importante.» continuò, per poi voltarsi e iniziare a frugare tra la pila di oggetti «E, in tutta onestà, mi fai un po’ pena.» ammise scrollando le spalle.
Non dovetti avere uno specchio di fronte a me per arrossire violentemente.
«Sei uno stronzo!»
«Sì, lo so, me l’hai già detto.» rispose lui, ma questa volta mi guardò e mi lanciò un sorriso ammiccante, per poi continuare a frugare.
Io tacqui, improvvisamente senza parole.
«Oh, eccolo qui!»
Lo disse mentre tirava fuori una bottiglietta con il tappo a punta, simile a quelle che vedevo dalla parrucchiera. Feci un passo indietro.
«Cos’è quella roba?»
Lui la fece ondeggiare in mia direzione.
«Sangue finto. Ti servirà per coprire quella macchia di vino.» lo disse avvicinandosi, in una mano le forbici e nell’altra la piccola bottiglia. Spalancai gli occhi.
«Cos’hai intenzione di fare?!» questa volta feci diversi passi verso la porta.
Lui sospirò.
«Aiutarti.» indicò il mio vestito «Sinceramente, ormai è un disastro. Ritornare alla festa in quelle condizioni sarebbe ridicolo – e non mi sarei fatto problemi a rimandarti indietro così, prima, ma come ti ho detto-»
«Ti ho fatto un po’ pena.» lo scimmiottai stringendo gli occhi.
Lui fece un mezzo sorriso, quello ammiccante di poco prima.
«Esatto. Ma è una cosa buona, se no non avrei deciso di volerti aiutare.» disse facendo spallucce «Te l’ho detto, me la cavo con i vestiti. Se mi lasci fare sono sicuro di fare un lavoro migliore di quello iniziale.»
Ed era così sicuro di sé mentre pronunciava quelle parole, che per un attimo non ebbi il minimo dubbio. Una parte di me però mi spinse a parlare.
«Cos’hai intenzione di fare?»
Lui sospirò, sembrava seccato dalle mie continue domande, ma si arrese a rispondermi.
«Come ti ho detto, l’idea iniziale non era male, ma ti sei concentrata sulla figura di Persefone prima di andare nell’Ade.» sottolineò il ‘prima’ con particolare enfasi «Per sistemare quel casino l’obiettivo è puntare sulla versione di Persefone dopo la scesa nell’Ade, quindi creare un look più sexy e provocatorio.» questa volta accentuò il ‘dopo’.
Improvvisamente capii cosa intendesse.
Guardai per l’ennesima volta il mio vestito, in silenzio.
«Pensi davvero di riuscire a sistemarlo?» sussurrai.
Non rispose subito e, in attesa, alzai lo sguardo verso di lui, trovandolo che mi fissava.
«Ti fidi di me?»
«No.» risposi di getto.
Lui rise – la prima vera risata che gli sentii fare e osservai la fila di denti bianchi mentre si passava una mano tra i capelli, ma la levò subito, come infastidito dal contatto.
«Fai bene. Ma per questa volta credo che sia la tua unica opzione.»
Non ha tutti i torti. Questo vestito non può andare peggio di così, così come questa serata.
Feci un lungo e profondo respiro.
«Va bene.» capitolai, dopo alcuni secondi «Cosa devo fare?»
Lui mi guardò come se non avesse avuto il minimo dubbio sulla mia risposta e mi lanciò un sorriso ammiccante.
«Prima di tutto, è il caso di tagliare il superfluo.» disse mentre apriva e richiudeva ripetutamente le forbici «Vieni qui, non è il caso di stare di fianco alla porta.»
Mi avvicinai, ancora dubbiosa, ma poi guardai il telefono.
Ancora nessuna notifica.
Una fitta sorda al petto mi fece più male di quanto volessi – possibile che Veronica non si fosse accorta che mancassi da ben più di dieci minuti ormai?
«Avanti, taglia quello che devi tagliare.» dissi più secca di quanto volessi essere.
Se lui notò il mio tono o il mio sguardo al telefono, non fece commenti. Piuttosto, si inginocchiò di fronte a me – e fu difficile non trattenere il respiro mentre lo vedevo lì, ai miei piedi, la testa al livello del mio bacino sollevata verso di me e gli occhi che mi lanciavano un’ultima occhiata carica di un qualcosa che non riuscii a comprendere prima di afferrare il tessuto del mio vestito.
Aspettativa? Malizia? Conforto? Quegli occhi rossi non rivelavano chiaramente le proprie intenzioni.
Ma in quella posizione ricordava la statua di un angelo, bianca e marmorea, e se mi avesse chiesto qualsiasi cosa non ero sicura che sarei riuscita a dire di no.
È legale essere così belli?, pensai appena prima di sentire le sue dita gelide sfiorare la porzione di pelle sopra il ginocchio. Rabbrividii e sperai che non se ne accorgesse.
A quel punto trattenni davvero il respiro.
Il primo zac fu quasi doloroso e mi fece male il cuore vedere le forbici che si infilavano nel tessuto con estrema scioltezza, ma poi il rumore ritmico si fece rilassante e senza accorgermene mi persi a osservarlo tagliare la gonna appena sopra il ginocchio, seguendo l’altezza dello spacco che si era creato con lo strappo. Era straordinariamente dritto nonostante lo stesse facendo a occhio, notai.
Il suo tocco ghiacciato all’improvviso era diventato confortante ed era ipnotico guardare le sue dita misurare la quantità di tessuto con fare esperto, le sue labbra che mormoravano qualcosa tra sé e sé appena prima di tagliare ancora un po’.
Terminò dopo pochi minuti e si sollevò con un gesto fluido, per poi allontanarsi e darmi una migliore occhiata generale.
«Fai una giravolta.» mi ordinò «Lentamente.»
Mi sentii un po’ ridicola mentre giravo a piccoli passi intorno a me stessa, lasciando scivolare lo sguardo sulle mattonelle rosate.
Quando ritornai di fronte a lui, sorrideva.
«Direi che la lunghezza è perfetta.»
Abbassai lo sguardo, osservano il risultato: la sottoveste era stata tagliata per arrivare a coprirmi fino a metà coscia, mentre lo strato superiore era appena più lungo. Il taglio era straordinariamente netto e pulito e pensai che io non sarei riuscita nemmeno a tagliare un foglio di carta poggiata su un tavolo in quella maniera.
«Morirò di freddo quando uscirò fuori.» considerai.
«Questo è sicuro.»
Mi rispose dopo aver poggiato le forbici e aver preso in mano il sangue finto.
Dovetti aver fatto un’espressione di orrore dato che lui mi guardò inarcando un sopracciglio.
«Tranquilla, non ho intenzione di replicare Carrie.» mi prese in giro. Lo guardai confusa.
«Chi?»
La sua espressione sconvolta era terribilmente esilarante e non risi solo perché mi lanciò un’occhiata omicida.
«Non so se sono ancora disposto ad aiutarti dopo questa affermazione.»
Arrossii.
«Non è colpa mia se non la conosco!» mugugnai.
«Il fatto stesso di non conoscere Carrie è una colpa.» replicò lui sventolando la bottiglia, ma il suo tono accondiscendente nascondeva una punta di ironia che sciolse il mio imbarazzo «Avanti, fila dentro la vasca.» ordinò poi.
«Cosa?»
Alzò per l’ennesima volta gli occhi al cielo.
«Fila. Dentro. La. Vasca.» scandì, porgendomi una mano per aiutarmi. Il mio sguardo incerto si spostò dal suo volto alla sua mano tesa.
Questa volta non feci domande, dato che intuii il motivo di quella richiesta. Non ero sicura che il sangue finto fosse facile da togliere via dal marmo.
La sua mano era fredda e solida mentre mi aiutava a scavalcare il bordo e cercai di non perdere l’equilibrio poggiandomi sul muro gelido fatto di mattonelle. I tacchi che indossavo non erano troppo alti, ma il fondo della vasca non era del tutto piano.
La parte del mio cervello convinta che lui sarebbe rimasto fuori dalla vasca rimase scioccata quando lo vide seguirmi. Ma lui rimase lì, vicino a me eppure lontano abbastanza da poter guardare il suo viso senza alzare troppo la testa.
Il silenzio disturbato dall’eco della musica alle mie orecchie sembrò teso mentre vedevo le sue dita sfiorare con delicatezza il corpetto macchiato di vino. La verità era che ero io a essere tesa, e non ero sicura di dovermi sentire così.
Sollevai lo sguardo e lo fissai.
«Cosa stai facendo?» suonai più accusatrice di quanto volessi – era strano come mi tirasse fuori questa strana aggressività.
Lui però si limitò a sorridere.
«Cerco di capire dove mettere il sangue finto.»
Il suo tono era ricolmo di innocenza e lo guardai dubbiosa. Era chiaro che quella innocenza fosse solo una facciata, eppure non capivo che reali intenzioni avesse. Voleva solo aiutarmi? Se così era, perché aveva quel modo ammiccante di guardare e parlare?
Scossi mentalmente la testa – no, a dire il vero mi sembrava il classico tipo provocatorio che lo è senza nemmeno provarci. Forse era scritto nel DNA delle persone terribilmente belle l’abilità di flirtare senza volerlo.
Stavo per voltarmi a osservare il nostro riflesso sullo specchio appeso alla parete, ma lui mi anticipò.
«Ok, come prima cosa direi di occuparci del corpetto. Il mio obiettivo è quello di farlo sembrare una ferita al cuore, quindi stai immobile che l’alternativa è fare un casino e peggiorare questo disastro.» lo disse alzando appena gli occhi al cielo.
«L’hai fatto altre volte?»
Lui mi lanciò un sorriso candido.
«No, ma non sarà difficile.»
«Cosa?!»
Poggiò l’indice sulle mie labbra prima di sorridere divertito.
«Rilassati, scherzavo.» motteggiò «Ammetto che, l’ultima volta, avevo un manichino su cui lavorare e non una persona viva e vegeta, ma se stai ferma non sarà molto diverso.»
Non ero sicura se dovessi sentirmi offesa o meno, ma decisi comunque di lanciargli un’occhiata truce che ignorò con un altro sorriso splendente.
«Immobile, sono stato chiaro?»
Attese il mio cenno prima di aprire la bottiglia, il tappo che finiva tra i denti candidi e l’espressione sorniona che si tendeva in una concentrata. Resistetti alla tentazione di guardare in basso, verso il corpetto, dove con la coda dell’occhio notavo le sue mani muoversi. Il suo tocco era attutito dal tessuto e sperai che non sentisse il battito accelerato del mio cuore – non volevo che sentisse la mia ansia, anche se penso che la intuisse dal mio respiro irregolare che sembrava assordante nel bagno. Ma, anche quella volta, la sua calma e naturalezza nel compiere quei movimenti di precisione ebbe un effetto calmante.
Quand’era stata l’ultima volta che ero stata a contatto così ravvicinato con un ragazzo? Dovetti fare un attimo mente locale prima di ricordarmi l’ottobre precedente quando, in seguito a un aperitivo protrattosi troppo a lungo (storia ricorrente nella città lagunare), ero finita tra le braccia di uno studente di Storia e Filosofia, il quale il giorno dopo si era protratto in una conversazione sul femminismo come nuova forma di controllo di quegli poveri uomini vittima di un sistema fatto per avvantaggiare noi donne. Ero scappata a gambe levate senza guardarmi più indietro, ovviamente.
«A che pensi?»
A quella volta in cui avrei dovuto chiudere le gambe invece di darlo a uno con il cervello di un microcefalo.
«Che potrei essere in compagnia di un potenziale assassino e non averne la minima idea.»
Sentii uno sbuffo divertito.
«Perché usare il sangue finto, allora?»
Mi morsi un labbro, pensierosa.
«Per depistare le tracce?»
Lo sentii fermarsi, ma non osai muovermi. Fu lui a sollevarsi dalla posizione in cui si era chinato, ritornando a vincermi di parecchi centimetri, e la sua espressione presentava la stessa indifferenza che mi aveva riservato all’inizio.
«Troppo lavoro. Se dovessi uccidere qualcuno, di certo prima non mi perderei a sistemargli il costume di Carnevale.»
«Magari hai un fetish.» puntualizzai.
«O magari sono davvero un vampiro e sto aspettando il momento giusto per affondare i miei denti sul tuo collo.»
Non ero sicura che fosse giusto pensare seriamente alla sua bocca sul mio collo, non in quel frangente almeno.
«Mi dispiace, ma non sono più vergine.» ironizzai cercando di scacciare quell’idea dalla mia testa.
Non rispose subito, piuttosto lasciò scivolare lo sguardo sul mio volto, per poi continuare verso il mio petto e poi ancora più giù, fino a giungere ai miei piedi.
«Non avevo molti dubbi.» rispose solo.
Mi morsi l’interno della guancia, trattenendo il desiderio di fare una frecciatina, e lo osservai mentre si chinava nuovamente, questa volta in corrispondenza della gonna, dove agitò il sangue finto replicando schizzi di sangue sul tessuto.
«Dovrebbe essere a posto.» concluse, sollevandosi e uscendo dalla vasca. Mi porse nuovamente una mano per aiutarmi, che questa volta accettai senza indecisione.
Mi voltai verso lo specchio e, se qualche istante prima avevo qualche dubbio sul potenziale risultato, dovetti ammettere che quel tipo sapeva davvero cosa stesse facendo: la chiazza di vino era completamente nascosta, sostituita da una macchia vermiglia in corrispondenza del cuore, come se qualcuno mi avesse pugnalato, e il sangue finto gocciolava sul resto del corpetto evidenziando la sagoma del melograno. Alcune gocce mi macchiavano il decolté e il collo e pensai come non mi fossi affatto accorta della cosa. Gli schizzi proseguivano sulla gonna, punti di diverse dimensioni che si mischiavano ai fiori in una macabra fantasia.
Era bellissimo, e mi sentivo bellissima, eppure…
«C’è qualcosa che non va.»
Lo sconosciuto anticipò i miei pensieri.
«Cosa?»
Lui mi girò intorno prima di rispondermi, lo sguardo critico che si puntò sulle maniche trasparenti del vestito.
«Quelle cose.» lo disse quasi disgustato, indicando le suddette maniche. E aveva ragione: se nell’idea di una candida Persefone che avevo in precedenza parevano adatte, in quel nuovo stile stonavano terribilmente.
Istintivamente mi strofinai le braccia.
«Cosa pensi di fare?»
Non mi ero nemmeno accorta di essermi automaticamente affidata a lui.
Lui sembrò ponderare le opzioni nella sua testa, spostando rapido lo sguardo dalle maniche al vestito e viceversa, prima di girarsi e afferrare le forbici.
«Semplice. Le tagliamo.»
Non protestai. Sapevo già che aveva ragione e lui doveva averlo intuito in qualche modo, perché accennò un sorriso beffardo.
«Vieni qui.»
Non ero sicura di dover essere così accondiscendente – Veronica, al mio posto, lo avrebbe guardato impassibile e avrebbe risposto qualcosa tipo “non sono il tuo cane”. E forse avrebbe avuto ragione.
Ma io non ero lei e farsi trattare come un manichino mi dava una strana sensazione di euforia.
Il suo respiro mi fa solletico, pensai mentre lui era chinato su di me, le mani poggiate sulla spalla destra alla ricerca di qualcosa che non sapevo. Alcune ciocche nere mi sfiorarono la guancia e il contatto fu strano, quasi spiacevole.
Si allontanò prima che potessi pensarci ancora.
«Ok, è fattibile..» mugugnò sovrappensiero, continuando a saggiare il tessuto con le mani «Prima ti ho detto di stare immobile, vero?»
Annuii.
«Ecco, ora dovrai essere una statua, sono stato chiaro? Sarebbe problematico se ti infilzassi con le forbici.» lo disse come se stesse parlando di essere punti da un ago da cucito.
«Come un manichino.» commentai.
Lui mi lanciò un’occhiata imperscrutabile e poi sorrise – lo stesso sorriso luccicante che aveva un ché di fasullo.
«Esatto, cara Persefone.»
Il suo tono suonò provocatorio alle mie orecchie, ma non mi diede tempo di rispondere e avvicinò le forbici alla spalla, motivo per il quale rimasi di nuovo immobile.
Quella distanza era ancora più limitata rispetto alla precedente. Per quanto avesse le mani ancora gelide e il suo tocco mi scatenasse brividi che nascondevo con relativo successo, il suo corpo era una presenza calda e, come avevo notato prima, stranamente confortante. Il suono delle forbici mi solleticava l’orecchio e sussultai quando parlò a quella scarsa distanza.
«Solleva il braccio.»
Feci come mi era stato ordinato e sperai con tutto il cuore di non aver sudato troppo, perché l’ultima cosa che avrei voluto era sentirlo fare commenti su odori vari ed eventuali. Non mi sembrava il tipo da tacere per educazione, piuttosto uno che si sarebbe divertito a farmi morire dall’imbarazzo.
Fortunatamente per me, l’operazione si concluse senza alcun genere di commento. Eseguì le stesse azioni sull’altro braccio e terminò prima del previsto.
Questa volta, quando mi osservò a debita distanza per contemplare il risultato, il suo sorriso pareva realmente soddisfatto.
«Ora ci siamo.»
Ed aveva ragione.
Senza le maniche, sembrava un altro vestito. Più sensuale. Io mi sentivo più sensuale.
Del vestito lungo e candido di prima rimaneva poco e niente: l’aveva trasformato in un miniabito che di innocente aveva poco o niente, ma non era solo per la gonna improvvisamente corta, o il sangue che mi faceva sembrare una fanciulla accoltellata al cuore. Era qualcosa che più la guardavo, più mi sfuggiva.
Il mio trucco, però, rimaneva un disastro.
«Vorrei che potessi fare la stessa magia alla mia faccia.» non volevo usare un tono così desolato e mi affrettai ad abbozzare un sorriso «Il vestito però è meraviglioso, sei davvero bravo.»
Lui però non mi rispose. La sua espressione si era fatta di nuovo indifferente mentre mi fissava. Ma questa volta non guardava il vestito, piuttosto i suoi occhi rossi erano fissi sui miei, alla ricerca di qualcosa che non capivo.
«È la tua serata fortunata.» lo osservai poggiare le forbici e frugare nuovamente sul bancone e tirare fuori una trousse di trucchi «Ammetto che non è la mia specialità, ma la base c’è, basterà sistemare qualche dettaglio.»
«Sinceramente, non so più se dovrei stupirmi o meno.» sospirai.
Ed era la verità, perché quello sconosciuto aveva più abilità di quanto desse ad intendere e mi lasciava davvero senza parole.
Mi lanciò l’ennesimo sorriso scintillante.
«E non hai visto ancora tutte le mie abilità.» replicò beffardo e insinuante in un modo che mi fece arrossire.
Dalla trousse aveva tirato fuori un eyeliner e una matita nera, del mascara e un rossetto dal colore che non riuscivo a indovinare. Notai con un attimo di ritardo un altro dettaglio.
«Sono di Chanel?» il mio tono dovette divertirlo perché soffocò una risata, ma non rispose.
«Chiudi gli occhi.» mi ordinò invece e io lo feci immediatamente – non posi nemmeno una domanda nella cieca fedeltà in cui mi ritrovavo immersa.
Forse dovrei essere più diffidente, pensai mentre lo sentivo avvicinarsi. Non che ora come ora farebbe molta differenza.
Anche se non potevo vederlo, lo sentivo vicino a me. Ero poggiata di schiena al bancone di marmo di fianco a uno dei lavandini, e aspettavo che facesse la sua magia come aveva fatto poco prima sul mio vestito.
Di certo non mi aspettavo le sue mani sui fianchi e l’essere sollevata con tremenda facilità.
Aprii gli occhi di scatto proprio nel momento in cui mi poggiava sul piano di marmo, gelido a contatto con le mie gambe nude, e trovarmi la sua testa finalmente al mio stesso livello mi prese talmente alla sprovvista che mi allontanai di scatto. Ringraziai i suoi riflessi, tuttavia, dato che mise la mano sulla mia nuca appena prima dell’urto con le mattonelle.
Trattenni appena un’esclamazione di sorpresa.
«Avresti potuto farti molto male, lo sai?» lo disse con un sorriso beffardo, come se il suo obiettivo fosse stato proprio ottenere quella mia reazione e si stesse divertendo ad osservare la sua stessa creazione.
«Sei un idiota!» lo dissi spingendolo via ma lui fu più rapido e mi afferrò il polso, mentre il suo sorriso rimaneva immacolato.
«Un idiota che ti sta aiutando.» puntualizzò.
Mi limitai a sbuffare solo perché non sapevo come rispondergli.
«Avanti, chiudi gli occhi.» mi ripeté e questa volta mi trattenni a fissarlo per qualche secondo.
«Non osare fare nulla di strano.»
«Tipo cosa?» lo disse spostando il suo sguardo dal mio per puntarlo sulle labbra – ed ero certa che l’avesse fatto apposta.
«Sbrigati.» glissai sulla sua domanda e chiusi gli occhi, decisa a non dargliela vinta, e lo udii trattenere una breve risata prima di percepire le sue mani gelide sul mio viso incandescente.
Il suo tocco era delicato e sicuro, come se fosse abituato a truccare una ragazza e una parte di me si chiese quante altre volte gli fosse capitata una situazione del genere.
Il tocco morbido di un pennello da cipria mi solleticò il naso e trattenni uno starnuto, per poi sentire l’umido del pennello dell’eyeliner su cui si soffermò per un paio di minuti.
«Apri gli occhi.»
Mi persi a osservare la sua espressione concentrata mentre continuavo a rimanere immobile, le sue mani che aggiungevano un leggero strato di mascara ai miei occhi.
Si allontanò di poco per osservare meglio il mio viso.
Lo osservai poi annuire convinto per poi afferrare lo stick che rivelò un bordeaux dai toni pieni e profondi, uguale alla maschera che ancora stringevo tra le mani.
«Non è un po’ troppo scuro?» commentai incerta «I colori scuri non mi stanno molto bene.»
«Che stronzata.» fu la sua unica risposta.
Le sue dita gelide mi sfiorarono nuovamente il viso, questa volta poggiandosi sul mio mento e sollevandolo leggermente.
«Socchiudi le labbra.» mormorò concentrato – abbastanza concentrato da non notare il rossore sulle mie guance, pregai dentro di me.
La consistenza del rossetto era morbida mentre veniva picchiettato con delicatezza sulle mie labbra socchiuse, e spostai lo sguardo oltre lo sconosciuto, cercando di non fissare ancora i suoi occhi rossi che seguivano con attenzione il tratto della propria mano, le sue ciglia chiare che incorniciavano lo sguardo intenso.
Quando si allontanò da me sentii un leggero brivido di freddo risalirmi lungo la schiena, fino al collo, e mi conficcai le unghie sul palmo per impedirmi di tremare.
«Direi che così è perfetto.»
Non attese una mia risposta e fu con una strana naturalezza che mi afferrò nuovamente per i fianchi per poi poggiarmi a terra proprio mentre d’istinto poggiavo le mani sulle sue spalle. Eppure, lui non mi lasciò andare immediatamente: mi afferrò per una mano, gelide come prima, e mi fece fare una piroetta che seguii prima ancora di pensare cosa mi volesse far fare.
«Perfetta.»
E forse fu il suo tono, forse fu il mio riflesso allo specchio che mi ricordava una persona completamente diversa rispetto a quella che era entrata dalla porta poco tempo prima, forse fu il suo sguardo tanto caldo quanto le sue mani erano fredde – o forse, più semplicemente, era un mix di tutte quelle cose che mi pensare ‘sì, ha proprio ragione’.
Del concept iniziale era rimasto solo l’idea principale – perché Persefone era sempre lì, nei fiori color pastello e nel melograno, nel tenue rosa del tessuto, ma non era più la delicata dea a cui avevo pensato inizialmente.
Era la regina insanguinata dell’Ade e sposa del dio degli Inferi.
Ero così concentrata sul mio riflesso che mi accorsi in ritardo dello sconosciuto che, di fianco a me, sfilava con un gesto rapido il fermacapelli permettendo ai miei capelli mossi di scivolarmi addosso in una cascata che giungeva fino a metà schiena.
«Hai dei capelli davvero belli, sarebbe un peccato tenerli legati.» si giustificò al mio sguardo sorpreso.
Tacqui per un paio di secondi prima di voltarmi verso di lui che, con un leggero sorriso spiegato sul volto, mi osservava senza dire niente.
«Non so come ringraziarti.» ed era vero, perché aveva appena salvato quella che, senza di lui, sarebbe stata una serata da dimenticare «Non so come avrei fatto senza di te.»
«Probabilmente saresti tornata a casa a bere quella bottiglia di vino.»
Lo disse abbagliandomi con uno di quei sorrisi ammiccanti che mi avevano fatto arrossire più di una volta, e nemmeno in quel caso riuscii a fare a meno di sentire il calore risalirmi sulle guance.
«Probabilmente hai ragione.» ammisi con meno amarezza di quanto mi aspettassi.
Lui mi guardò in silenzio e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma come aprì la bocca per farlo la suoneria di un telefono irruppe nel silenzio creatosi tra di noi.
Lo osservai tirare fuori il cellulare dalla tasca, una smorfia gli distorse il volto al leggere il nome sullo schermo che però non riuscii a scorgere dalla mia posizione. Sbuffò e rispose.
«Che c’è?»
Nonostante ci fosse silenzio, non riuscii comunque a capire le parole che provenivano dall’altro capo del telefono a causa della musica che si mischiava ad esse, distinsi solo una voce femminile dal tono alquanto concitato. Lui sembrava annoiato mentre ascoltava e dopo aver ricevuto una sua occhiata mi venne spontaneo spostare lo sguardo e fare finta di non star ascoltando. Presi il telefono e notai solo in quel momento il messaggio di Veronica. Risaliva ad appena cinque minuti prima.
Tutto bene? Hai bisogno di aiuto?’.
Tentennai appena prima di risponderle.
Sì, tranquilla, stavo sistemando il vestito’, omisi che non avevo fatto proprio tutto da sola, e aggiunsi ‘Arrivo tra poco, dove sei?’.
La risposto arrivò dopo pochi secondi.
Al bar, sono con Giacomo.’.
La vista mi si annebbiò per un istante e quasi non mi resi conto di aver stretto la mano a pugno, o perlomeno non me ne accorsi finché la mano gelida dello sconosciuto sfiorò la mia per attirare la mia attenzione.
Sollevai la testa di scatto e lui mi guardava con una vaga aria interrogativa in viso, il telefono sempre poggiato all’orecchio.
«Ho capito, non c’è bisogno di ripeterlo venti volte.» disse alzando gli occhi al cielo «Adesso arrivo e lo sistemo io, ma sappi che non lo farò senza nulla in cambio.» aggiunse con il medesimo tono ammiccante che aveva riservato anche a me. Per un attimo mi chiesi che cosa avrebbe richiesto in cambio per qualsiasi cosa dovesse fare – fu abbastanza da distrarmi dal messaggio di Veronica che mi aveva dato più fastidio di quanto volessi pensare in quel momento.
Chiuse la chiamata mentre ancora si udiva la voce della ragazza dall’altra parte del telefono.
«Emh, non penso avesse finito di parlare.» non tentai nemmeno di nascondere di essermene accorta.
Lui scrollò le spalle indifferente e si diresse verso la porta, poggiando una mano gelida alla base della mia schiena per indirizzarmi nella stessa direzione. Ne ero così consapevole che quasi non udii la sua risposta.
«Capirai, non sta mai zitta.»
La porta si aprì e il corridoio buio ci accolse con la sua musica più intensa. Mi lasciai condurre tra le stanze come poco prima, questa volta meno timorosa, la sua mano che mi sfiorava appena mentre mi accompagnava nell’oscurità a cui mi abituai in fretta e arrivammo alle scale in fretta. Nel frattempo, le coppie erano aumentate e cercai di non fissare nessuna di esse, in leggero imbarazzo.
Al piano di sotto c’era ancora più gente di prima e la musica appariva più alta, mentre l’alcol scorreva a fiumi.
Mi venne assurdamente spontaneo seguirlo tra la folla anche quando smise di condurmi, e una parte di me pensò a quanto fosse comodo muovermi tra la gente in quel vestito riadattato. Con la coda dell’occhio notai più di un paio di persone osservarmi e mi chiesi se guardassero l’abito o me.
Ero così immersa in quel pensiero che quasi non mi accorsi di come si fosse fermato. Mi bloccai appena prima di andargli addosso. Si chinò su di me prima che potessi capire che stesse facendo.
«Dov’è la tua amica?» mi chiese a bruciapelo, la bocca vicina al mio orecchio per sorpassare il volume della musica sparata a palla. Le luci colorate illuminavano i suoi occhi rossi che in quell’oscurità sembravano più scuri.
«Al bar.»
Lo osservai guardarsi intorno.
«Ok, è da quella parte.» indicò verso la sua sinistra.
«Lo so.» risposi di getto.
Mi lanciò una breve occhiata ricca di qualcosa che non riuscii a capire.
«Ti conviene andare, la tua amica ti starà aspettando.» questa volta alzò la voce per farsi sentire e una parte di me si chiese perché non si fosse chinato nuovamente.
Aprii la bocca per rispondere – per dirgli cosa? Non lo sapevo nemmeno io, solo non ero sicura di volere che se ne andasse così.
Non so nemmeno il suo nome.
Questo pensiero mi colpì come uno schiaffo e spalancai gli occhi, stupita, e lui reagì con un vago accenno di confusione prima che si voltasse di scatto, come richiamato da qualcuno che però io non udii assordata dalla musica. Nella penombra notai solo la sua espressione spazientita e lo osservai alzare un braccio e fare un cenno a qualcuno che, dalla mia postazione, non riuscivo a vedere.
«Mi spiace ma devo andare, a quanto pare c’è un’emergenza.» lo disse con un tono misto tra fastidio e ironia, ma subito dopo mi sorrise – quel sorriso splendente ma allo stesso tempo beffardo «Spero che il resto della serata sia migliore di com’è iniziata.»
Mi sfiorò una ciocca di capelli, sistemandola al lato del viso con aria distratta, e fece un passo verso il resto della folla, pronto a immergersi nel marasma di gente che intorno a noi continuava a ridere e cantare a ritmo di musica.
Per un attimo non riuscii a muovermi. Rimanevo immobile mentre lo sconosciuto mi dava le spalle e sfruttava la propria altezza per farsi spazio tra le persone, i miei occhi sulla nuca e sulle spalle coperte dalla giacca nera.
Poi ricevetti una spinta e fu come svegliarmi dalla paralisi.
«Aspetta!»
Avevo urlato, eppure nessuno intorno a me ci fece caso, tutti troppo ubriachi evidentemente, ma lui mi sentì appena prima che fosse troppo distante e si voltò puntando uno sguardo interrogativo su di me.
Mi sentii improvvisamente in ansia e sentii un calore invadermi le guance e il collo, e ringraziai le luci stroboscopiche e la distanza che camuffarono il mio aspetto.
«Non mi hai detto il tuo nome.»
Questa volta non avevo alzato troppo la voce, ma sapevo che lui mi aveva sentito. Lo sapevo perché allargò gli occhi a quella frase, come se non avesse pensato a quel dettaglio, o forse stupito che io glielo avessi chiesto.
Sembrò pensarci un attimo, poi distese il viso in un sorriso sornione.
«Ma come, Persefone, non l’hai ancora capito?»
Lo guardai confusa e lui allargò il proprio sorriso.
«Sono la tua fata madrina.»
Fece solo un occhiolino prima di voltarsi e immergersi tra la gente.
Potevo seguirlo? Assolutamente sì.
Lo feci? Assolutamente no.
Lo lasciai dileguarsi in mezzo alla folla ubriaca e danzante, la sua testa che ben presto divenne una tra le tante. E in mezzo al frastuono della musica, avrei potuto giurare di udire il rintocco di un campanile che segnava la mezzanotte.
  
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