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Autore: _sweet    25/02/2024    0 recensioni
E non era vero, non poteva esserlo. Perché ogni cosa era sbagliata; la bestia con gli artigli che graffiano il parquet della cameretta, i singhiozzi di Remus sempre più lievi, le dita di Hope che gli tiravano un lembo del pigiama, la lampadina a forma di Boccino d’Oro rotolata sotto l’armadio e il bagliore argenteo della luna riflesso dalle schegge di vetro della finestra. (...) Lyall deglutì saliva che gli parve sabbia. Che cosa era appena successo, esattamente? Un errore, doveva esserci un errore in tutto quel sangue sulle lenzuola, nelle lacrime che rotolavano dalle guance di sua moglie fino a bagnarle lo scollo della camicia da notte e nel nauseante odore di ferro che impregnava l’aria.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hope Howell, Lyall Lupin, Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Una reale irrealtà
 
 
Lyall alzò lo sguardo da quel maledetto rapporto sui Giganti e soffocò uno sbadiglio dietro il palmo della mano. No, non poteva permettersi di avere sonno. Doveva rimanere sveglio. Sveglio e concentrato. Anche se la grossa pendola dal vetro incrinato accanto alla scrivania segnava già un quarto a mezzanotte e in ufficio non restava che Roger a fargli compagnia, gli occhiali dalle lenti rotonde a un millimetro dalla pergamena di un vecchio Censimento delle Fate del Sud e il gilè a scacchi sbottonato sulla pancia sporgente. Soltanto un mese prima, non si sarebbe fatto nessuno scrupolo ad agguantare uno a caso dei sempre troppi stagisti freschi di Hogwarts che affollavano i corridoi del Ministero e costringerlo a verificare l’effettiva presenza di un nuovo clan di Giganti a spasso per l’Irlanda. Sì, in condizioni normali lo avrebbe chiesto a Billy e lui e i suoi capelli rossi impiastricciati di gel sarebbero stati felicissimi di accontentarlo. E invece eccolo lì, seduto da ore nell’ ufficio mezzo vuoto nel disperato tentativo di capire se le confuse informazioni giunte il pomeriggio da Dublino fossero vere. Come minimo, l’indomani sarebbe perfino dovuto andare a controllare di persona. Be’, se non era quella la strada giusta per riconquistare Capo e promozione in un unico colpo, non sapeva proprio che altro doversi inventare.
Lyall strinse le labbra per scongiurare l’ennesimo sbadiglio. Merlino, se era stanco. Con un sospiro, allungò la mano verso la piuma e, nel mentre, sfiorò con le dita il bigliettino giallo limone che Hope gli aveva inviato qualche ora prima: Scommetto che neppure oggi ti farai vivo per cena. Se ti serve una mappa con cui ritrovare la strada di casa, fammelo sapere. Ti ricordo che, oltre a un lavoro, hai anche una famiglia.
In fondo al foglio, nella stessa scrittura tondeggiante della moglie, c’era un post-scriptum che prima non aveva notato: Grazie, Fulmine. Spero che la busta non sia troppo pesante per te.
Ah, non riusciva proprio a farle capire che ringraziare il gufo ogni volta che spediva una lettera era decisamente inutile.
Una goccia d’inchiostro scivolò dalla punta della piuma e prese ad allargarsi in una macchia nera sulla pergamena, cancellando l’ultimo paragrafo. «Maledizione!» sbuffò tra i denti, «quanto ancora ci metterà il Ministero a capire che deve darsi una mossa a comprare il nuovo modello Assorbiatramentum?»  
Roger, dalla scrivania di fronte, chiuse il libro con un colpo secco. «Credo sia un problema di fondi.» Stiracchiò le braccia, poi indicò con l’indice tozzo le pesanti tende di velluto alla finestra, «e comunque, il Ministro ha altro a cui pensare al momento.»
Già, adesso il problema principale era far tramontare il sole del Sahara che la Manutenzione Magica aveva installato agli inizi di febbraio e che, chissà come, invece di dileguarsi dietro la linea azzurrina del finto orizzonte, si intensificava così tanto nel corso della giornata che, alle quattro del pomeriggio, tutte le finestre del Ministero dovevano essere oscurate il più possibile. Proprio quel giorno, durante la pausa pranzo, si mormorava di un tizio, giù alle Passaporte, ricoverato al San Mungo per un’ustione alla schiena. Il poveretto era passato davanti a una finestra del corridoio, ma la tenda aveva uno strappo nel velluto. Qualcuno era anche stato pronto a giurare che la puzza di carne bruciata si era sentita per l’intero sesto livello.
Roger picchiettò due volte con la bacchetta sulla copertina scrostata del Censimento delle Fate del Sud. Quello si sollevò in aria con un tremolio e attraversò la stanza fino alla libreria, infilandosi al suo posto in una nuvoletta di polvere. «Avanti, Lupin, andiamocene a casa.» Schioccò le dita e il globo di luce azzurrina sopra la sua scrivania si spense con un leggero pop, «tanto, ormai, puoi dire addio al posto di Vicedirettore.»
Lyall aggrottò le sopracciglia «Ora esageri. Ho commesso uno sbaglio, va bene, ma niente che non si possa aggiustare. Certo, ci vorranno altri straordinari non retribuiti» ammise, indicando con un vago gesto della mano il rapporto sui Giganti sporco d’inchiostro, «ma credo di poter–»
«Ho sempre ammirato il tuo animo speranzoso.» Lo interruppe Roger, «fin da quando pensavi che sarei riuscito a prendere un M.A.G.O. in pozioni.»
«Be’, non è a te che scappò quel Molliccio in un asilo di periferia? Abbiamo dovuto richiedere l’intervento di ben quindici Obliviatori, se non ricordo male. Eppure, sei ancora qui.»
Roger si allacciò il mantello e scosse la testa. «Stai paragonando un Unicorno a un Ippogrifo, amico. Non vorrei dirtelo, ma hai fatto davvero una gran cazzata.» Schioccò le dita un’altra volta e anche la sfera luminosa sopra la scrivania di Lyall si spense, «quindi, tanto vale che torni a casa e finisci quella roba da apprendisti domani.»
Non aveva tutti i torti, in effetti. Era tardi e i suoi occhi bruciavano per la stanchezza a ogni battito di ciglia. Lyall appallottolò il bigliettino di Hope nella tasca della giacca, ripiegò con cura il Rapporto incompleto sui Giganti e seguì Roger fuori dall’ufficio.
A quell’ora della notte, il Ministero era quasi deserto e nella loro risalita verso l’Atrio incontrarono soltanto un gruppetto di Auror intenti a parlottare tra loro.
Roger canticchiava a bocca chiusa l’inno di Hogwarts, una spalla appoggiata alla parete dell’ascensore e i folti baffi grigi che sussultavano a ritmo di musica.
Paragonare un Unicorno a un Ippogrifo. Puoi dire addio al posto di Vicedirettore. Lyall sentiva le parole dell’amico ronzargli nelle orecchie. No, il Capo non poteva pensare di togliergli la promozione per quell’unico errore. Aveva sbagliato, ovvio, ma si era mostrato più che pentito e disposto a farsi perdonare, accettando mansioni ben al di sotto della sua abilità e senza aspettarsi niente in cambio. Forse aveva esagerato, con quel Greyback, ma lo aveva fatto solo perché era davvero convinto che stesse mentendo e, se avesse potuto rubare una Giratempo dall’Ufficio Misteri e tornare indietro di trenta giorni esatti, si sarebbe morso la lingua fino a farla sanguinare pur di non ritrovarsi in quell’assurda situazione.
«Roger, credi veramente che mi sia giocato la carriera come uno scemo?» Le parole gli erano sfuggite di bocca prima di rendersene conto.
L’amico ammutolì di colpo a metà del ritornello. «Vuoi il Bombarda o il Patronus?»
Lyall si passò la lingua sulle labbra, indeciso. Voleva la risposta sincera, e quasi sicuramente cattiva, o quella falsa e positiva? «Il Bombarda.»
Le grate si aprirono sull’Atrio con un cigolio metallico e Roger rivolse un cenno di saluto al mago di guardia. «Lupin, temo che per un po’ sarai costretto a mantenere… ecco, un basso profilo.» Si fermò davanti a uno dei punti adibiti alla Smaterializzazione, «sei stato avventato. Avventato e incauto a dire quelle cose.»
Lyall strinse i pugni nelle tasche dei pantaloni. «Dai, Roger! Era chiaro come il sole che stavamo prendendo uno Schiopodo. Quel…Greyback non è chi ha detto di essere. Anche tu hai ammesso di aver avuto dei dubbi. E se avessimo avuto ragione? Se là fuori ci fosse un mostro a piede libero?»
Roger si accarezzò i baffi. «Senti, lo sai meglio di me che non puoi metterti a urlare di aver catturato un Lupo Mannaro senza le prove. Mi dispiace, amico.»
Lyall sospirò. «Sì, hai ragione.» Piegò le labbra in quello che sperava essere un sorriso, «grazie. Sei l’unico in tutto il Quarto Livello a non sparlarmi alle spalle. Ieri ho sentito Donald dire che il matrimonio con una Babbana è stata la mia rovina.»
Roger agitò una mano come per allontanare il discorso. «Lascia perdere. Lunedì ricomincia il Campionato di Quidditch e allora tutti avranno cose più importanti di cui occuparsi. Ci vediamo domani, Lupin.»
«Buonanotte, Roger.»
Lyall lo osservò prendere un respiro profondo e girare su sé stesso in un vortice del mantello bordeaux.
Un elfo domestico s’inchinò passandogli accanto, la toga sdrucita con il logo del Ministero troppo grande e uno spazzolone alto il triplo di lui che gli levitava accanto. Dietro, un altro ripuliva con uno straccio bagnato i mattoni dei camini dalla cenere della metropolvere.
Lyall raggiunse il punto in cui Roger era scomparso pochi istanti prima, la mente già piena di Remus e Hope. Di casa.
Il pavimento di marmo del Ministero, lo sguardo arcigno del mago di guardia in fondo all’Atrio e la pelle raggrinzita degli elfi domestici gli si dissolsero davanti come fumo. Ora, vedeva soltanto la facciata di casa con l’edera che si arrampicava vicino al portone d’ingresso e la luce alla finestra della camera da letto. Lyall si guardò intorno nella strada deserta, più per abitudine che altro. Il suo vecchio insegnate ripeteva con fare ossessivo: Ricordate; controllare sempre che non ci siano Babbani nelle vicinanze, dopo essersi Materializzati. Un numero impressionante di maghi ha rischiato di farci scoprire, dimenticando un pizzico di accortezza.
Comunque, se i vicini lo avessero visto comparire davanti al cancello non sarebbero scappati dall’altra parte del paese spaventati. Era uno dei pochi quartieri magici di Londra, quello. Lo stomaco di Lyall si contorse in una stretta dolorosa; come avrebbe fatto a finire di pagare l’acquisto della nuova casa in quel posto senza una promozione? Aveva insistito lui per trasferirsi lì, ma era stato certo che presto avrebbe potuto contare su uno stipendio da Vicedirettore.
Attraversò il giardino e infilò la chiave nella toppa. Alla vista dei divani in pelle bianca il suo stomaco mandò una seconda fitta fastidiosa e il sapore del sandwich al prosciutto che aveva mangiato per cena gli risalì l’esofago; Hope amava quel salotto e anche il tappeto fitto di intricati disegni geometrici. Per non parlare delle scale a chiocciola e del lampadario di vetro colorato che l’Agenzia Immobiliare Magica aveva giurato provenire dalla bottega di un Magartigiano veneziano specializzato nella lavorazione del cristallo.
Lyall ingoiò a vuoto. Doveva trovare una soluzione. Non poteva dire alla sua famiglia che era stato bello abitare lì per un po’, ma adesso era ora di tornare nel loro vecchio appartamento di periferia perché lui si era rivelato un cretino.
Si tolse le scarpe senza slacciarle, infilò le ciabatte e salì le scale in punta di piedi. La porta della cameretta di Remus era socchiusa e una lama di luce aranciata rischiarava il buio del corridoio. Lyall si accostò allo stipite e sbirciò dentro; la lampadina a forma di Boccino d’Oro sul comodino disegnava una striscia sottile sulle guance piene di suo figlio, immerso nel sonno con una manina paffuta serrata attorno a Lumos, l’orsetto di peluche.
Lyall sorrise tra sé e raggiunse la fine del corridoio. Da fuori, aveva visto la luce accesa in camera da letto e salendo si era aspettato di trovare Hope sveglia, intenta a finire di leggere quel romanzo babbano dell’orrore che le piaceva tanto. Invece, Hope si era addormentata, appoggiata a una pila di cuscini e con il libro aperto sulle ginocchia. Quando Lyall le si avvicinò con l’intenzione di darle un bacio sulla bocca spalancata, lei si svegliò di soprassalto. «Mi hai fatto prendere un colpo!» Sbirciò l’ora sul display luminoso della sveglia e abbassò la voce, «ti sembra questa l’ora di rientrare?»
Lyall alzò i palmi in segno di resa. «Ma io volevo solo darti un bacio…»
Hope incrociò le braccia al petto e alzò gli occhi, ancora gonfi di sonno, al soffitto. «D’accordo, ma solo uno
Lyall non se lo fece ripetere un’altra volta e appoggiò le labbra sulle sue. Sapevano di dentifricio alla fragola, quello che era costretta a usare anche lei per convincere Remus a lavarsi i denti dopo cena.
«Se c’è qualcosa che non va, devi dirmelo. Chiaro?» Gli disse in un sussurro, a pochi centimetri dal suo viso, «diventi davvero insopportabile quando decidi di fare lo stupido eroe e tenerti tutto dentro.»
Lyall si sfilò la camicia e mise la maglia del pigiama. «Al Ministero siamo pieni di lavoro, tesoro. Tutto qui. Te lo giuro» aggiunse, dal momento che Hope aveva inarcato un sopracciglio nella sua espressione “ma non ci credo nemmeno morta”.
Lei scrollò le spalle, per nulla convinta. «Bene. Se ti decidi a parlarne, sai dove trovarmi.» Appoggiò un vecchio biglietto del treno come segnalibro alla pagina dove era arrivata a leggere e si sporse per spegnere l’abat-jour, «nel frattempo, continuerò a mandarti Fulmine con lettere minatore, sappilo. Ora vieni qui e abbracciami. Muoio di sonno.»
Lyall si strinse al fianco della moglie, le tempie che martellavano senza tregua. Lei si riaddormentò subito e un lieve russare iniziò a riempire la stanza. Lui, nonostante la stanchezza che sentiva fin nelle ossa, rimase ancora un po’ con gli occhi spalancati; una soluzione, gli serviva una soluzione al disastro che aveva combinato davanti al Capo e alla delusione che si sarebbe rivelato per Hope se avesse scoperto la ragione per cui era rimasto in ufficio così tanto nell’ultimo mese. Infine, scivolò nel sonno, immerso nel respiro pesante di lei, il pensiero rivolto alle colline dell’Irlanda spazzate dal vento che tra poche ore avrebbe dovuto setacciare alla ricerca del fantomatico nuovo clan di Giganti.
Aveva fatto in tempo a sognare l’immagine sfocata di una clava grande quanto il tronco di un albero che gli si abbatteva in mezzo alla fronte, quando Hope prese a scuoterlo con insistenza per una spalla. «Lyall, hai sentito?»
«Umpf?» Biascicò, la clava che roteava nel pugno di un uomo alto come una montagna.
«Svegliati! Ho sentito un rumore.»
Lyall girò la testa sul cuscino, dandole la schiena. «Sarà stato un qualche animale in giardino.»
Hope scostò le coperte e prese la vestaglia ripiegata sulla poltrona vicino al letto. «No, non era un animale.»
«Allora, vai tu a controllare che–»
Il resto delle parole venne soffocato da un tonfo sordo. Poi, un grido.
Remus.
Le palpebre di Lyall si sollevarono come mosse da un riflesso involontario. Cercò a tentoni le pantofole con i piedi e afferrò la bacchetta sul comodino. Il bicchiere d’acqua scivolò a terra e si infranse in un tripudio di cocci. «Hope, aspetta qui.»
Corse fuori dalla camera, senza voltarsi a controllare che gli avesse dato ascolto, all’improvviso sveglio e con i sensi all’erta.  Lui avrebbe riconosciuto il pianto di suo figlio tra quello di altri cento bambini e sapeva che quel grido non era normale. Non era come quando si svegliava da un incubo e continuava a singhiozzare anche dopo che la paura era passata, solo per andare a dormire nel lettone insieme ai genitori. No, c’era qualcosa di diverso. Qualcosa di sbagliato.
Lyall attraversò il corridoio e spalancò la porta della cameretta, la bacchetta levata.
Un Lupo Mannaro stava accucciato sul lettino di Remus, i canini affondati nella sua spalla e l’inconfondibile coda a ciuffo che si agitava frenetica per il piacere del sangue in gola.
Remus strillava, seminascosto dalla mole del Lupo, scalciando contro le sue zampe con i piedini nudi.
Hope urlò dietro Lyall e lui la allontanò con una spinta. «Vattene! Torna di là.»
«Signore, ma cosa è?! Oddio, fa’ qualcosa!»
L’animale si girò verso di loro e scoprì le zanne. Lyall strinse con maggior forza l’impugnatura della bacchetta. «Stupeficium!»
La mano era scossa da un tremito violento e il lampo di luce rossa mancò il bersaglio, finendo contro uno scaffale della libreria che esplose. Non poteva essere vero. Era un sogno, solo un incubo dovuto alla mancanza di sonno.
Agitato dall’incantesimo, il Lupo saltò giù dal letto, pronto ad attaccare. E non era vero, non poteva esserlo. Perché ogni cosa era sbagliata; la bestia con gli artigli che graffiano il parquet della cameretta, i singhiozzi di Remus sempre più lievi, le dita di Hope che gli tiravano un lembo del pigiama, la lampadina a forma di Boccino d’Oro rotolata sotto l’armadio e il bagliore argenteo della luna riflesso dalle schegge di vetro della finestra.
Lyall espirò forte e cercò di mantenere ferma la mano destra. La seconda volta, il fiotto di luce centrò in pieno il petto dell’animale che ululò di dolore e scavalcò il davanzale, scomparendo oltre il cornicione.
Hope gli passò sotto al braccio ancora sollevato e andò da Remus. Si fermò accanto al lettino, gli occhi sgranati e una mano premuta sulla bocca. «Lyall» singhiozzò, cercando lo sguardo del marito in piedi sulla porta. «Fa’ qualcosa. Una magia, una Pozione… ti prego. Io non posso aiutarlo. Pensaci tu, salvalo.»
Lyall deglutì saliva che gli parve sabbia. Che cosa era appena successo, esattamente? Un errore, doveva esserci un errore in tutto quel sangue sulle lenzuola, nelle lacrime che rotolavano dalle guance di sua moglie fino a bagnarle lo scollo della camicia da notte e nel nauseante odore di ferro che impregnava l’aria.
«C’è un incantesimo per… questo. Vero?» Hope singhiozzò più forte, in ginocchio sul pavimento e con le mani strette in grembo. Lo fissava con l’azzurro degli occhi reso acquoso dalle lacrime, in attesa.
Lyall si decise a fare un passo avanti e colmare la poca distanza che lo separava da lei. Ed era tutto così confuso, con quelle macchie semplicemente troppo scure sul cotone giallo delle coperte e il petto di Remus che si alzava sempre più veloce alla ricerca d’aria, che non poteva essere altro se non un incubo. Come faceva un bambino di quattro anni ad avere tutto quel sangue? E come poteva succedere che un Lupo Mannaro si trasformasse proprio in un quartiere così tranquillo, proprio sotto a quella finestra? Non poteva essere vero perché in quel caso… be’, in quel caso c’era solo una spiegazione possibile ed era che lui aveva capito la verità nonostante le risatine del resto dei colleghi e quel tizio interrogato un mese prima era davvero un mostro, come gli aveva urlato alle spalle.
Ma se era vera quella parte, era reale anche tutto il resto e non poteva, non poteva esserlo.
«Dobbiamo andare in ospedale.» Hope si rimise in piedi e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, «fai quella cosa che ti porta dove vuoi e andiamo nel tuo ospedale magico. Lì avranno… non lo so, punti di sutura speciali o delle m-medicine…»
«Hope, tesoro.» Iniziò, «non c’è niente da fare.»
Perché era quella, la verità. Se tutto fosse stato reale – e non lo era, non poteva esserlo – nessuno sarebbe riuscito a salvare il loro bambino che, poi, non era nemmeno più un bambino.
«Smettila.» Hope gli afferrò un braccio e lo strinse forte, «qualsiasi cosa fosse… quella cosa, Remus è ancora vivo. Capito?»
«Credimi, se c’è qualcuno che non capisce quella sei tu.»
Non capisci che è tutto falso e sbagliato, che nulla sta accadendo per davvero? Perché, se questa fosse la realtà, sarebbe tutta colpa mia e niente potrà più andare bene.
Hope aumentò ancora di più la stretta attorno al suo braccio. «Io capisco che nostro figlio sta male. E tu te ne stai lì, senza fare niente e a dire assurdità. Ti prego, andiamo in ospedale. Possono ancora salvarlo.»
Ed eccola lì, annidata negli occhi troppo grandi di sua moglie, la consapevolezza che, se non avesse fatto finta di crederci, in punti di sutura speciali e pozioni miracolose, le cose sarebbero finite ancora più velocemente. Avrebbe perso il suo amore, adesso che dovevano restare assieme per affrontare quello che lei non lo sapeva, non poteva saperlo, ma sarebbe successo. No, fare finta che fosse tutto vero e sperare in un miracolo era un prezzo più che equo per ripagare il resto di una vita al fianco di Hope.
«Va bene.» Infilò la bacchetta nell’elastico dei pantaloni e allungò le braccia verso il corpicino di Remus, disteso sul materasso con la carne della spalla lacerata da parte a parte. Lyall soffocò a stento un conato di vomito quando le dita gli si appiccicarono di sangue perché, forse, l’incubo era fin troppo reale e, dopotutto, lui lo poteva sentire, sentire per davvero, il peso caldo di suo figlio contro il petto. Si voltò verso Hope e la trovò già pronta, con la mano aperta e le palpebre serrate. Non era raccomandato trascinare un Babbano in una Smaterializzazione Congiunta, ma lei lo aveva già fatto prima, un Natale di tanti anni fa, quando erano ancora fidanzati e con un’ora di ritardo per il pranzo dai futuri suoceri di lui. In quell’occasione, Hope aveva vomitato la colazione sul tappetino davanti al portone d’ingresso che prometteva Buone Feste in tanti brillantini argentati.
«Sei sicura di voler venire anche tu?»
Hope annuì una volta e aumentò la presa sulla sua mano. Lyall respirò a fondo e cercò di non pensare a Greyback, a ciò che la sua stupidità aveva fatto e a quello che teneva tra le braccia. Ospedale San Mungo. Purge & Dowse Ltd, Londra.
 
Un istante dopo, atterrarono sull’asfalto del marciapiede con il vecchio magazzino abbandonato davanti a loro. I mattoni della facciata si sgretolavano in un rivolo di polvere rossa sulla strada e dietro alla vetrina c’era un unico manichino senza braccia in equilibrio su una gamba sola.
Lyall si girò a controllare Hope. Alla luce traballante dei lampioni, il suo viso aveva assunto una leggera tonalità verdastra. «Stai bene?»
Per tutta risposta, si strinse la vestaglia al corpo con un gesto brusco e mosse un passo barcollante verso la vetrina. Era facile per lei, dopotutto. Non poteva sapere l’incubo in cui erano precipitati e ignorava il fatto che, risvegliarsi al calduccio sotto al piumone con il profumo del caffè nelle narici, non sarebbe più stato lo stesso della scorsa mattina.
Lyall si affrettò a seguirla attraverso il vetro macchiato. Le poche persone sedute nella sala d’aspetto alzarono curiose lo sguardo su di loro, ma Lyall fece del suo meglio per ignorarle e raggiungere i ricci marroni che facevano capolino dalla prima pagina del Manuale Stregato dietro al bancone dell’accettazione.
«Ehm, buonasera?» Tentò, rivolto alla foto in bianco e nero di una ragazza che mostrava tutta fiera la boccetta di una nuova lozione per capelli la cui etichetta prometteva una piega semplicemente magica.
La proprietaria del giornale si affrettò a richiuderlo con un fruscio. «Oh, salve.» Stirò le labbra in una smorfia di circostanza, mostrando una fila di denti bianchissimi. «Come posso aiutarla, signore?»
«Si tratta di mio figlio.» Lyall si diede un’occhiata veloce alle spalle, prima di abbassare la voce e continuare. «Lui è…»
La strega piegò il capo di lato e aumentò l’estensione del sorriso come per incoraggiarlo. «Si? Mi dica pure, signore.»
«Lui è… ecco, stato morso da un Lupo Mannaro.» Le aveva sussurrate, quelle ultime due parole così impossibili e assurde, eppure gli sembrarono tanto assordanti da rimbombare tra le pareti della sala d’aspetto e graffiargli i timpani.
La strega allontanò il busto dal bancone, il sorriso incrinato e la permanente che sembrava essersi afflosciata all’improvviso. «Primo piano. Avverto subito chi è di guardia.»
Lyall si diresse lungo il corridoio sulla destra, seguito da Hope. Aveva le braccia che iniziavano a formicolare sotto il peso inerte di Remus e le dita continuavano a scivolare sul pigiamino bagnato di sangue. C’era un grande senso d’irrealtà nella luce fredda del corridoio, nelle sue ciabatte che slittavano sul pavimento tirato a lucido e in quella frase che aveva appena pronunciato in un mormorio agitato: morso da un Lupo Mannaro. Però, c’era anche uno spaventoso senso di realtà nell’ombra di Hope che gli correva accanto, nel respiro spezzato di Remus che non sentiva più da troppi secondi contro la pelle del collo e nelle fastidiose punture di spillo che gli pungevano la milza a intervalli regolari. Ma no, non poteva essere vero. O sì?
Stava correndo sul serio lungo quel corridoio infinito con qualcosa che era il suo bambino ma che, allo stesso tempo, non lo era più? Era forse un mostro senz’anima, come aveva apostrofato Greyback fuori dall’ufficio? O c’era ancora Remus, il suo Remus, dietro al veleno del Lupo che gli scorreva nelle vene? Era sempre lui, lo stesso bambino che gli dava un bacio appiccicoso sulla guancia quando tornava a casa dal lavoro, che aveva il terrore del buio e adorava la storia di Pepita, lo snaso che voleva diventare un Auror e salvare il mondo dagli stregoni cattivi?
Lyall e Hope si fermarono ansimanti all’ingresso del reparto che la ragazza all’accettazione aveva indicato. Davanti alla porta dal vetro smerigliato, due Guaritori li stavano aspettando, il logo del San Mungo in rilevo sui camici verde chiaro e l’espressione di chi avrebbe voluto essere da qualunque altra parte invece che lì.
«È lui?» chiese il più alto, andando loro incontro.
«Sì.» Boccheggiò Lyall, la milza che si contraeva a ogni respiro, «ha cinque anni. Il Lupo lo ha azzannato alla spalla, penso che–»
L’altro annuì, sistemandosi gli occhiali squadrati sul naso. «Ci pensiamo noi, signor…?»
«Lupin.»
Il secondo Medimago li raggiunse zoppicando, agitò la bacchetta e una barella comparve dal nulla. «Lo distenda pure lì, signor Lupin.»
Un singhiozzo fuggì dalle labbra di Hope. «Riuscirete a salvarlo, vero? Per favore, vi prego… salvatelo.»
I due Guaritori si lanciarono uno sguardo, poi il più anziano alzò il bastone e indicò il corpicino di Remus. «Questo è ciò che volete?»
Lyall se l’aspettava, una domanda del genere, ma sentì lo stesso come il pulsare di un livido da qualche parte, all’altezza del cuore. Se fosse corso lungo il corridoio con il bambino svenuto tra le braccia per colpa del morso di un’Acromantula o un Velenottero, i Medimaghi non gli avrebbero mai chiesto se avessero dovuto salvarlo o lasciarlo morire. La risposta sarebbe stata implicita e scontata.
Invece, Remus era stato attaccato da un Lupo Mannaro e la priorità non era quella di assicurarsi che respirasse ancora; prima dovevano verificare che non fosse pericoloso e legargli i polsi alle sbarre della barella. Come se un bambino di cinque anni potesse far male a tre uomini adulti e in possesso di una bacchetta.
Lyall spostò il peso da un piede all’altro. Ecco, adesso si sarebbe finalmente svegliato. Per forza. Doveva svegliarsi da quell’incubo così vero, così reale da poter essere solo impossibile.
«C-cosa?» Hope guardava i Guaritori con le sopracciglia aggrottate in un’unica riga bionda. «Certo che lo vogliamo. Dovete fare tutto il possibile. Ogni cosa.»
«Vi invito a riconsiderare la vostra posizione, signori.» Insistette il Medimago con voce dolce. La barra di luce sul soffitto sfarfallò e il cartellino appuntato al suo petto venne colpito in pieno: Guaritore William Mills. «La decisione non è facile, me ne rendo conto. Però, credo sia opportuno che ci riflettiate con maggiore accortezza.»
Lyall lo conosceva a memoria, il protocollo da seguire in quei casi. Bisognava essere comprensivi con i poveri genitori incapaci di capire quello che il loro bambino era appena diventato ma, allo stesso tempo, piuttosto distaccati nell’esporre tutti i rischi e i problemi che avrebbero dovuto affrontare se avessero scelto la cosa sbagliata. Bisognava guidarli nella giusta direzione e fargli comprendere che non c’era niente da fare. Sì, lo conosceva a memoria quel protocollo, ma Remus non aveva altro tempo, disteso immobile sul lenzuolo di carta della barella.
«Io e mia moglie abbiamo già deciso, Guaritore Mills. Vogliamo che proviate di tutto per curare nostro figlio.» Dirlo ad alta voce l’aveva reso più chiaro, più vero e terribile.
Perché, ora Lyall lo capiva, era reale il volto sorpreso dei Medimaghi che sparivano oltre la porta del reparto e il sangue di Remus che gli si era seccato sotto la mezzaluna bianca delle unghie.
«Hope» mormorò, rivolto alle piastrelle immacolate del pavimento, «è tutta colpa mia.»
Sentì la punta delle dita fredde di sua moglie sotto al mento e si ritrovò a un centimetro dal suo viso arrossato dal pianto. «Non mi interessa, Lyall.»
«No, devi starmi a sentire. Io–»
Hope non lo lasciò continuare. «Credi che ci possa essere spazio per il tuo senso di colpa? Adesso, mentre siamo qui, nel bel mezzo della notte, ad aspettare di sapere se Remus è… vivo
Lyall si passò una mano tra i capelli umidi di sudore. «Tesoro, lascia che ti spieghi. Per favore.»
Hope inarcò così tanto le sopracciglia che scomparvero sotto la frangetta bionda spettinata. «Forse non sono stata abbastanza brava io, a spiegarmi. Non c’è spazio ora per il tuo senso di colpa e non ce ne sarà mai
«Ma ci sono cose che non sai. Tu non lo sai quello che è successo stanotte e Hope, credimi se ti dico che niente sarà più come prima.»
Lyall riusciva a guardarsi da fuori, una spalla appoggiata al muro e le labbra che si muovevano veloci nella fretta di spiegare. Le parole gli scivolavano sulla lingua, accavallandosi veloci le une sulle altre, mentre il volto di Hope si scioglieva in un ovale dai contorni sfocati sotto al suo sguardo. Era pronto a vederla esplodere in una nuova crisi di pianto. Era pronto a rispondere alle innumerevoli domande che, di sicuro, avrebbe avuto. Era pronto a farsi carico anche del suo, di terrore. Eccola, la giusta punizione per ciò che aveva causato. Eppure, quando Lyall finì di parlare, la voce di lei disse solo okay. Come se avessero appena discusso di che cosa preparare per pranzo o di dove andare in vacanza la prossima estate.
«Okay?» Ripeté Lyall, sorpreso.
Hope fece segno di sì con la testa e una ciocca di capelli le scivolò da dietro l’orecchio. «Okay.»
«Tesoro, hai capito quello che ti ho detto?»
La porta del reparto si aprì all’improvviso. Il Guaritore Mills avanzò nella loro direzione, accompagnato dal ticchettio del bastone sul pavimento. «Ah, signori Lupin. Siete ancora qui.»
«Dottore» disse Hope in un tono più acuto del normale, «è andato tutto bene?»
Lyall si sentì scaraventato con forza nel proprio corpo e tornò a percepire il lieve martellare nelle tempie, l’odore pungente dell’aria, la vestaglia spiegazzata di sua moglie che aveva un alone biancastro sulla schiena, lì dove la polvere del muro le si era attaccata alla stoffa.
«Guaritore» la corresse il Medimago in una smorfia che dilatò le rughe profonde ai lati della bocca, «e sì, se per voi sapere che un Lupo Mannaro perfettamente sviluppato sarà libero di mietere vittime a spasso per l’Inghilterra allora certo, è andato tutto bene.»
Una confortevole ondata di calore investì Lyall alla bocca dello stomaco, mentre Hope mormorava un “Grazie a Dio” a nessuno in particolare. 
Il Guaritore si schiarì la voce in un falso colpo di tosse. «Sarebbe più opportuno rivolgere i suoi ringraziamenti alla mia abilità magica, non le pare?» Senza aspettare risposta, accennò con il mento aguzzo alle scale che si intravedevano alla fine del corridoio. «Potete andare da lui e aspettare lì l’arrivo del Ministero. Non dovrebbe mancare molto, ormai.»
Lyall lasciò che Hope si allontanasse da sola nella scia zoppicante di Mills e ripercorse al contrario le corsie che, soltanto poche ore prima, aveva attraversato di corsa assieme e lei. Remus era vivo. Era vivo. Vivo. Era quello l’importante. E allora perché, anche se suo figlio era vivo, il fatto che non avrebbe mai potuto avere la possibilità di essere smistato in Grifondoro sembrava avere comunque una qualche importanza? Ma no, che cosa importava se lui avrebbe perso il lavoro. Che cosa importava se tutti e tre avrebbero dovuto cominciare a vivere una nuova vita, trincerati dietro un altissimo muro di bugie. Remus era vivo e quella – la cosa importante, l’unica cosa che contava davvero – avrebbe dovuto essere abbastanza. Eppure, eppure.
La sala d’aspetto era vuota. Lyall si sedette sulla sedia di fronte alla vetrina dell’ingresso che si apriva sul vicolo fuori. Doveva aver piovuto, a un certo punto, perché i sampietrini mandavano piccoli bagliori luminosi sotto ai primi raggi del sole. Alla fine, il mondo non aveva smesso di girare. A essere stato sbranato, quella sera, era stato solo il suo, di universo. E poi eccolo, Roger, che scivolava attraverso la vetrina con il mantello allacciato storto sotto al mento e tallonato da Billy.
Lyall si costrinse ad alzarsi in piedi. «Roger, ciao.»
L’amico seguì il suono della sua voce, le labbra aperte in una piccola “o” di sorpresa. «Che cosa ci fai qui? Tutto bene?»
«Sì, io–»
«Merlino, che situazione.» Roger si passò una mano tra i ricci brizzolati e scosse la testa, «mi hanno chiamato per un 4X. Un bambino piccolo, a quanto pare. I genitori hanno chiesto ai Guaritori di salvarlo comunque.»
Billy fece un passo avanti e si schiarì la voce. «Esatto, signore». Sfilò una pergamena dalla cartellina di pelle marrone che aveva in mano e lesse: «quattro anni, stando al rapporto del Guaritore Mills. La stanza è la numero centoventi.»
Roger si mise in bocca una mentina, continuando a scuotere piano la testa. «Un bello Knarl da pelare, poco ma sicuro.»
Billy infilò di nuovo la cartellina nella borsa a tracolla, il ciuffo di capelli rossi incollati per bene alla fronte da uno spesso strato di gel e tutto il corpo che vibrava per l’emozione. «Andiamo, signore? Ho studiato a fondo l’intera procedura e mi chiedevo se, ecco, se potessi occuparmi io del marchio. So che si tratta di un bambino» aggiunse in fretta, «ma questo particolare non mi impedirà di fare comunque un buon lavoro, signore.»
Roger annuì. «Va bene, Billy. La prima volta non si dimentica mai, vero, Lupin?»
Lyall strinse i pugni dietro la schiena. Avrebbe solo voluto afferrare il ciuffo di quello stagista troppo zelante e ficcarglielo in bocca. Lo aveva detto al Capo che era solo un imbecille ed eccone la conferma. «Roger, devo parlarti un attimo. In privato.»
«Ma signore, ci stanno aspettando nella stanza numero centoventi.»
Prendere Billy e tirargli un pungo su quel naso assurdamente dritto che si ritrovava. Prendere Billy, strappargli la camicia di dosso e imprimergli sul fianco quelle quattro X che lui aveva così tanta voglia di disegnare sulla pelle di Remus. Lyall chiuse per un istante gli occhi, le dita che tremavano dallo sforzo di rimanere intrecciate, ferme e lontane dal viso di quel cretino, dietro la schiena. «Roger, è davvero importante.»
«Va bene. Billy» disse, rivolto al ragazzo, «aspettami davanti alla stanza. Arrivo subito.»
Lyall attese che Billy fosse scomparso dietro la curva del corridoio, poi prese Roger per un gomito e lo condusse nell’angolo della sala d’aspetto più lontano dal bancone dell’accettazione. Sentiva il profumo di menta dell’alito di Roger e il ticchettio della mentina contro i denti.
«Allora? Di che si tratta?»
Roger lo guardava con gli occhi dilatati dalle lenti spesse, in attesa.
«Sono io, Roger.» Lyall sentì la gola bruciare, lì dove le parole si erano formate prima di essere dette. «Sono io il 4X che ti hanno mandato a registrare.»
«Ma che stai dicendo?» Bisbigliò Roger.
Lyall fece cenno di sì, gli occhi incollati ai bottoni dorati sulla giacca dell’amico. «Avevo ragione e ho combinato un disastro. Sono arrivato troppo tardi, il lupo aveva già… insomma, Remus è stato ferito e c’è Greyback dietro a tutta questa storia. Io lo so.»
Roger lo fissava, immobile. «Sei serio? Per Godric, è assurdo. Non posso crederci.» Si spinse più su gli occhiali sul naso ricurvo, «non so che cosa dire. Sono scioccato e mi dispiace, mi dispiace tanto Lupin.» Sollevò la mano come per stringergli la spalla, poi ci ripensò e finse di grattarsi un polso.
«Senti, devi farmi un favore.» Lyall si guardò intorno, ma la ragazza al bancone dell’accettazione stava ancora leggendo la sua rivista e la sala d’aspetto era deserta. «Non registrarlo. Lo so che, tecnicamente, sarebbe illegale, ma è solo un bambino.»
«Non posso farlo, Lupin. Mi stai chiedendo l’impossibile.» Allargò le braccia, «ti voglio bene e sei il mio migliore amico, ma se mi scoprono perdo il lavoro.»
Lyall si passò la lingua sulle labbra screpolate. «Per te è una possibilità. Per me è inevitabile e se metti quel nome nel Registro… per favore, non farlo.»
«Non lo faccio per cattiveria. Mi dispiace tanto per quello che ti è successo, ma comunque, stiamo parlando di un Lupo Mannaro.» Si passò una mano sulla faccia, «è terribile. Non riesco a crederci.  Che cosa intendi fare?»
«Sai meglio di me come funzionano queste cose. Ma se tu non registri il suo nome, sarà tutto più facile. Ti prego, Roger. È Remus.»
Roger si accarezzò il mento mal rasato con pollice e indice. «Be’, tecnicamente non è proprio solo Remus. E lo farei, dico sul serio, ma è una cosa non solo contro la legge, ma anche l’etica professionale e l’ordine pubblico.» Si strinse nelle spalle, «lo capiresti anche tu se solo non fossi così coinvolto.»
Certo che lo capiva. Roger aveva ragione, ma arrendersi era fuori discussione. Se ne sarebbe pentito per il resto della vita. «La colpa di quello che è successo è solo mia e ti chiedo di fare l’unica cosa che posso ancora dargli. Roger, per favore.»
Era pronto a restarsene lì anche tutta la notte a supplicare, calpestando senza ritengo il suo orgoglio, fino a ridurlo a brandelli. Forse non sarebbe mai più riuscito a rimetterlo assieme, ma andava bene lo stesso perché, alla fine, Remus era vivo e gli avrebbe continuato a leggere la storia di Pepita dal punto al quale si erano interrotti; lo snaso che distrugge lo Stregone delle Tenebre con una montagna di diamanti grossi come noci in grado di catturare la luce del sole.
 
 
Grazie a tutti coloro che sono arrivati a leggere fino a qui.
Spero che la storia via sia piaciuta.
Alla prossima!

 
 
   
 
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