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Autore: Doctor Nowhere    08/03/2024    1 recensioni
Tra le montagne, sorge lo sventurato paesino noto come Beccogrifagno. La tradizione avvisa tutti coloro che cercano di lasciare la città di portare con sé un pugno di frutta secca, unico modo per sopravvivere a un incontro con i terribili orchi di montagna.
Due gemelli, Enricardo ed Edorico, sono costretti a intraprendere un viaggio, ma uno dei due non crede alle leggende, ritenendole delle semplici superstizioni, e comincia a mangiare la sua frutta secca.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siete mai stati a Beccogrifagno?

Inutile che rispondiate, lo leggo dai vostri visi.

Impossibile avere sorrisi tanto sinceri, occhi che conservano un barlume di innocenza, o una postura che tradisce ancora qualche forma di speranza, dopo aver visitato quel gran pezzo di sterco fumante che il demonio in persona ha defecato tra le montagne.

E per quale motivo potreste voler andarci, poi?

Un paesino spuntato dal nulla come una verruca, circondato solo da roccia e alberi. Terra talmente sterile che è più facile imbattersi in un cadavere che un fiore, abitata da gente, se possibile, ancora più arida.

Certo, vengono un sacco di ottime merci, da lì. Gli alberi offrono legno pregiato e frutta secca, le cave sono ricolme di diamanti e vene d’oro, se si scava abbastanza a fondo. Ma credetemi, è mille volte meglio essere povero qui che danaroso a Beccogrifagno.

Ah, e avete sentito della pentola? No? Rimedio subito.

Immaginate la piazza grande di quel villaggio, grande per modo di dire, naturalmente. Al centro esatto, invece di avere, che ne so, una statua o una fontana, i grifagni hanno un grosso calderone, nero come la pece, pieno fino all’orlo di mandorle, pinoli, noci e nocciole. Li raccolgono dagli alberi, e si assicurano che il livello non scenda mai.

Ebbene, se voi vi recaste lì, alla mattina, assistereste alla più bizzarra delle processioni. Li vedreste arrivare uno alla volta, in fila indiana, in religioso silenzio. Simili a tante belle formichine, in ordine dal più vecchio al più giovane, senza farsi mancare qualche sgomitata occasionale tra quelli tanto sfortunati da condividere la stessa età. E ciascuno di loro, quando viene il suo turno, allunga la mano scarna, la affonda nel pentolone, afferra più che può e ci riempie una scarsella di pelle che porta alla cintura. Un pugno di frutta secca. Ognuno può immergere la mano una volta, una volta sola. E quando hanno finito, se ne vanno.

Chi sono, mi chiedete? Sono i mercanti. Essì. Ricordate l’elenco di belle robette che vi ho fatto prima, delle risorse di cui è ricca la vetta? Beh, se siete svegli vi sarete accorti che manca qualcosa di veramente importante… il cibo. L’unico prodotto commestibile di quell’immondezzaio è la frutta secca, per questo sono costretti a importare. E per quanto i grifagni possano avere il cuore di pietra, il loro stomaco rimane di carne, e brama cibo e vino tanto quanto il vostro o il mio.

Ma dovete sapere che quando quei poveri disgraziati tornano da Bellavalle, da Verdepiana o da Lagochiaro, quanti tra loro hanno ancora il loro pugno di frutta secca si dispongono ordinatamente nella piazza e svuotano il sacchetto nel calderone. Perlomeno… così fanno quelli che hanno la fortuna, o per certi versi la sventura, di tornare.

Vi starete chiedendo il perché di una tale, stravagante usanza. Si tratta di un gesto propiziatorio? È forse consuetudine per i grifagni donare frutta secca ai clienti come omaggio per celebrare un affare andato particolarmente bene?

Niente affatto.

Dovete sapere che, tra tutti i malanni che affliggono quella miserabile gente, il peggiore non è la carestia, la neve o i lupi. Il flagello più terribile sono gli orchi di montagna che infestano i sentieri intorno al paesino. Creature blasfeme nell’aspetto e nel comportamento, prive di compassione e ghiotte di carne umana… ma, ancor più, di frutta secca. Un antico patto stipulato tra i grifagni e gli orchi prevede che il viaggiatore sorpreso da tali mostri potrà barattare la salvezza con un pugno di frutta secca. Per questo i mercanti di Beccogrifagno non partono mai senza aver riempito la loro scarsella.

Ci credete? O pensate che sia solo una sciocca superstizione?

 

Sapete… ho sentito una storia, tempo fa.

La storia di due giovani gemelli grifagni, Enricardo ed Edorico, orfani di madre fin dalla nascita, identici nell’aspetto ma diversi nello sguardo, nell’atteggiamento, nei pensieri.

Enricardo era coraggioso, sprezzante del pericolo e insofferente all’abitudine. Aveva un sorriso smagliante in cui faceva spesso capolino un dente spezzato.

Edorico, al contrario, era prudente e calcolatore. Coltivava dentro di sé il pensiero che se certe abitudini si erano stabilite ed erano divenute prassi, un motivo ci sarà pure stato. Aveva l’abitudine di grattarsi con foga la tempia, quando era agitato.

Erano figli di un taglialegna, quindi avevano poco a che fare con la sfilza di erranti che ogni mattino riempiva la piazza di Beccogrifagno, eppure Edorico spesso e volentieri si svegliava alle prime luci del giorno, per assistere rapito alla cerimoniosa riscossione del pugno di frutta secca.

Una volta, mentre era intento a osservare quel rituale sempre identico, suo fratello Enricardo lo afferrò per la spalla: “Lo sai che sono tutte sciocchezze, vero?” sghignazzò “Gli orchi di montagna non esistono! Sono solo vecchie storie per spaventare i bambini. Solo un idiota potrebbe crederci.”

Edorico scosse piano la testa: “Ma non vedi tutti quei mercanti che tornano con i sacchetti vuoti? Come te li spieghi?”

Enricardo gli strizzò l’occhio: “Quelli lì sono i più furbi, quelli che hanno capito il trucco. Credimi, me lo ha confidato uno di loro: si pappano la frutta secca mentre camminano, e così guadagnano energia e superano le montagne prima degli altri! Poi, tornati a Beccogrifagno, devono solo dire di aver incontrato gli orchi. Chi può dimostrare che stanno mentendo?”

Edorico schioccò la lingua, poco convinto, ma non proseguì oltre la conversazione.

La questione sarebbe potuta finire lì. Quelle parole avrebbero potuto rimanere per sempre chiacchiere senza fondamento, senza alcuna prova tangibile per dimostrare chi aveva torto e chi ragione.

Ma il destino aveva altri piani.

 

Un brutto giorno, in cui la pioggia cadeva talmente fitta che lo scroscio sembrava un interminabile rullo di tamburi, il padre dei due ragazzi venne travolto da un tronco abbattuto da un altro taglialegna. Il medico di Beccogrifagno lo visitò, ma la situazione era drammatica: il colpo gli aveva sbriciolato le ossa di entrambe le gambe. Il dottore si vide costretto a tentare una disperata doppia amputazione, ma, lo disse fin da subito, a meno di un miracolo la salvezza era impossibile.

Ed evidentemente, il cielo aveva di meglio da fare che concedere un miracolo a un grifagno.

Privati della guida del padre, Enricardo ed Edorico si videro costretti a cercarsi un altro lavoro, e si ritrovarono impiegati come garzoni presso un ricco signorotto locale, Crapuleone de’ Fioroni.

Costui incaricò i due gemelli di portare un asino carico di due grosse sacche a Bellavalle, e di consegnarle a un suo parente di lì, che poi si sarebbe occupato della vendita. Forse avrete sentito parlare di lui, si chiama Ludovizio de’ Fioroni. No? Meglio per voi.

“Mi raccomando” disse Crapuleone agitando in aria il dito gonfio come una salsiccia “Non azzardatevi, per nessun motivo al mondo, ad aprire le mie sacche! Se scopro che avete anche solo sbirciato la mia merce, vi farò dare tante di quelle scudisciate da spellarvi le gambe portare alla luce le vostre ossa!”

Edorico tentò di mormorare: “Ma signore, io e mio fratello non siamo mai stati a Bellavalle. Rischieremmo di perderci. Ci serve una guida, per–”

De’ Fioroni sbatté il pugno sul banco, facendo crollare tutte le torri di monete che vi erano impilate: “Scempiaggini! Scuse da fannulloni! L’asino conosce la strada così come io conosco il palmo della mia mano! Non dovrete fare altro che seguirlo, e vi condurrà a destinazione.” addentò una succosa pesca, una rarità a Beccogrifagno, che gli sbrodolò sulle guance rigonfie giù giù fino al doppio mento “Ora finitela con queste vostre fanfaluche, e mettetevi in marcia!”

I due fratelli chinarono il capo e si diressero alle stalle di Crapuleone. Lì trovarono il vecchio animale, tutto pelle e ossa, e un paggio che indicò loro due minuscoli fagottini, le loro provviste per il viaggio, e due pesanti sacche che contenevano la merce da consegnare, con tanto di sigillo raffigurante l’emblema della famiglia de’ Fioroni, un’anemone gialla con cinque monete al posto dei petali, cucito in modo tale che fosse impossibile aprire le borse senza strapparlo.

I gemelli bardarono l’animale, che si piegò sotto il peso del suo carico, misero in spalla i loro fagotti e si diressero alla piazza. La maggior parte dei commercianti era già partita nei giorni precedenti, quindi non trovarono molta gente in fila davanti alla grande pentola. Presero ciascuno il suo pugno di frutta secca e si misero in cammino.

 

Sette giorni di cammino separavano Beccogrifagno da Bellavalle.

I gemelli razionarono le scarse provviste di cui li aveva dotati il signor de’ Fioroni e seguirono l’asino lungo sentieri sempre più ripidi, sotto un Sole cocente che fece arrossare la loro pelle e un vento impietoso che più volte li fece barcollare.

L’animale non riusciva a reggere le sacche di merce tutto il tempo, per cui i due giovani dovevano alternarsi e portarle un po’ per uno. Si ritrovarono a boccheggiare tutto il tempo, incapaci di dire se fosse più per la fatica o per la fame.

La sera del quinto giorno, seduti attorno a un misero fuocherello agonizzante, Edorico vide il fratello infilare la mano nella scarsella, tirare fuori una mandorla e sbucciarla.

“Scriteriato!” urlò “Ma che fai? Quella è la riserva per gli orchi di montagna!”

Enricardo alzò le spalle “Te l’ho detto, è solo una vecchia superstizione.” sollevò il sacchetto, ormai mezzo vuoto “È da quando siamo partiti che le mangio. Non credo che sarei arrivato fin qui, senza” strizzò l’occhio al fratello “Vuoi forse farmi credere che non hai mangiato nemmeno una noce?”

Edorico sollevò la sua saccoccia stracolma e la sventolò per aria “Neanche una! Gli orchi di montagna vogliono un pugno di frutta secca, un pugno pieno! Altrimenti–”

Enricardo roteò la testa: “Altrimenti ti uccidono e ti mangiano in un sol boccone, lo so, la ricordo la solfa.” si sporse in avanti “Ma davvero, mangia qualcosa. Non abbiamo quasi più niente da mettere sotto i denti, e la frutta secca può darti energia.”
Edorico drizzò il naso all’insù: “No e poi no! Se vuoi essere imprudente, fa’ come preferisci, ma non mi trascinerai nella tua follia!”

Enricardo sospirò, frugò nella scarsella e tirò fuori tre pinoli: “Mangia questi, almeno, se proprio non vuoi attingere alla tua riserva. Mi faresti stare più tranquillo.”

Le labbra di Edorico tremolarono “Io… non posso.” distolse lo sguardo “Non ci riesco, mi sembra di condannarti a morte. Ascoltami, conserva quello che ti resta, per favore.”

Enricardo sospirò e inghiottì i tre pinoli in un sol boccone.

Quella sera non si dissero altro.

 

Giunse il settimo giorno, e di Bellavalle neanche l’ombra. A quanto pareva, l’asino procedeva ben più lento del previsto, e ai due fratelli rimase più neanche un boccone di pane da sbocconcellare. Si trascinarono come poterono per tutto l’ottavo giorno, e come unica ricompensa si ritrovarono, il nono, sull’orlo di un burrone. A destra avevano una ripida parete di roccia, a sinistra si apriva lo strapiombo. La strada era stretta, ed era necessario procedere in fila.

I due riposero le pesanti sacche sul dorso dell’asino, poi Enricardo prese lo spago che fungeva da briglie dell’animale e lo condusse da davanti. Edorico si mise in fondo.

Si sollevò un vento arido, che sferzò impietoso i viandanti e li costrinse a barcollare.

Edorico si passò il braccio sulla fronte sudata. Il suo stomaco, vuoto come la bottiglia di un ubriaco, brontolò infuriato.

Il giovane sfiorò la sua scarsella, il suo pugno di frutta secca. Forse suo fratello aveva ragione, forse qualche frutto in meno non sarebbe stato grave… strinse forte gli occhi. No, no! Doveva resistere, doveva resistere!

“Ehi!” gli giunse la voce di Enricardo “Stai bene? Ti serve qualcosa?”

Edorico sbatté le palpebre. Suo fratello e l’asino erano passati, avevano raggiunto il piano. Mancavano solo pochi metri. Fece un passo avanti. Poi un altro. Doveva resistere, doveva…

Il piede di Edorico non trovò il terreno.

Il ragazzo cadde nel vuoto, senza neanche la forza di gridare, la mano ancora stretta sull’intonso sacchetto di frutta secca.

E così, morì.

 

Enricardo crollò a terra e urlò, disperato, chiamando invano il nome del gemello. Pianse e si strappò i capelli. Si raggomitolò per terra e rimase immobile, le lacrime che scorrevano sul suo volto arrossato, i denti stretti per il dolore, incapace di muoversi.

Chi può dire quanto a lungo rimase sull’orlo di quel crepaccio, scosso da tremiti, accovacciato come un uovo.

Perse la concezione del tempo, non sentiva più nemmeno le mazzate del sole né le frustate del vento. Era divenuto insensibile a tutto, fuorché al suo dolore. Suo fratello non c’era più.

Finché, a un certo punto, qualcosa non lo puntellò sul fianco.

Il ragazzo aprì appena un occhio. Su di lui torreggiava un’enorme sagoma . L’aspetto era simile a un omone massiccio, dal volto ricoperto di peli e dal ventre rigonfio. Indossava un mantello ricavato dalla pelle di un orso, e stringeva tra le mani un bastone nodoso. Ma la sua pelle era grigia come un sasso, e dalle sue labbra nere si sporgevano delle zanne ricurve. Era un orco di montagna!

Altri tre suoi simili stavano poco distanti, e bloccavano tutte le possibili via di fuga.

“O viaggiatore che percorri i nostri sentieri” bofonchiò quello con la pelle d’orso, e picchiò il bastone per terra “Sappi che io son Gorgotto, re degli orchi di montagna. Hai portato il nostro pedaggio?”

“Il… il pedaggio?” mormorò Enricardo. Quei mostri… quei mostri esistevano davvero?

“Un pugno di frutta secca!” esclamò l’orco “Paga, e potrai proseguire il tuo viaggio. Altrimenti, di te faremo arrosto e stufato!”

“Arrosto e stufato!” ripeterono gli altri in coro.

Enricardo sollevò la scarsella “Io…” sciolse il nodo e rovesciò il contenuto nella sua mano. Cadde soltanto una singola nocciola, l’ultima che gli era rimasta.

Gocce di sudore inumidirono la fronte di Enricardo, sudore freddo. “Io non ho altro…” deglutì, e la poca saliva che gli era rimasta gli bruciò la gola secca “Vi prego, lasciatemi tornare al villaggio, tornerò con la frutta secca!” cercò di tirarsi in piedi, ma le forze lo abbandonarono e crollò in ginocchio “Ne porterò di più! Porterò un pugno di frutta secca a ciascuno di voi! Mi serve solo un po’ di tempo, e–”

“Niente frutta secca, nessun ritorno!” proclamò il sovrano, e calò il bastone sulla testa di Enricardo, uccidendolo sul colpo.

“Evviva!” ululò di gioia uno degli orchi del suo seguito “Stasera banchetteremo a quattro palmenti! Sono giorni che non mangio un umano!”

“Mah” mugugnò un altro “Io avrei preferito la frutta secca.”

L’ultimo si grattò la testa: “Maestà, che ne facciamo di quello?” e indicò l’asino che, abbandonato a sé stesso, si era messo a brucare l’erba lì vicino.

Gorgotto si batté la mano sull’immensa pancia, che risuonò come un tamburo “È nel mio regno, quindi è mio!” puntò il bastone insanguinato contro la bestia “Prendetelo e ditemi cosa trasporta, voglio sapere quali merci ho guadagnato!”

I tre orchi prontamente obbedirono, immobilizzarono l’animale e aprirono le sacche.

Quando videro il contenuto, i loro occhi si sgranarono, le loro mascelle si spalancarono e iniziarono a salivare copiosamente.

Perché, sapete, quelle sacche erano colme fino all’orlo di mandorle, nocciole, pinoli e noci. Un carico di frutta secca destinato alle bancarelle di Bellavalle!

   
 
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