Regalo per il mio Fabio, che domani
compie gli anni.
Tanti auguri nii-chan. Spero che mi perdonerai per questo
orrore: non sono ancora a mio agio a scrivere su Bleach.
Chiedo perdono anche ai lettori: prometto che le mie
prossime pubblicazioni saranno migliori.
I Won’t Go
“Nii-sama.”
Il severo capoclan del nobile casato Kuchiki si voltò verso
la figura esile della malata, che sembrava sul punto di scomparire tra
le
coperte e i cuscini.
Sul volto pallido, i grandi occhi, liquidi di febbre, lo
guardavano supplicanti.
Lo sguardo di Byakuya scrutò critico i tratti di quella
donna che aveva adottato come sorella ormai da innumerevoli anni, ma
che per
molteplici ragioni aveva sempre evitato accuratamente di conoscere. Il
suo
sguardo notò all’istante il sudore sulle gote
smunte della shinigami, i segni
dello sfinimento nelle occhiaie profonde, le labbra livide e frementi.
Fu costretto a guardare altrove, nel tentativo di
razionalizzare la situazione e scacciare quell’orribile e
opprimente senso di
deja-vu che ormai pareva non volerlo mai lasciare.
Febbricitante e distesa a letto, Rukia assomigliava davvero
troppo a lei.
“Raccontami di mia sorella, per favore. Vorrei sapere
com’era.”
Sospirò, affaticata dalla febbre alta.
Byakuya tornò al suo fianco, sul viso la consueta
espressione composta, eppure Rukia notò immediatamente il
disagio e il lutto,
bel visibili sotto quella facciata imperturbabile.
Forse suo fratello aveva iniziato ad allentare le difese con
lei, chissà. O forse era lei ad essersi abituata a leggere
le impercettibili differenze
nel suo sguardo e nella piega delle sue labbra, sopperendo
così a tutte le
parole non dette e inconsciamente arrivando a conoscerlo molto
più a fondo di
quanto potesse sembrare.
“Per favore.” Supplicò, pur sapendo
quanto gli costasse
parlarle di Hisana. Dopo quella prima volta, quando le aveva raccontato
la
verità sul motivo della sua adozione, tra loro quel nome non
era mai più stato
pronunciato. Era un tacito accordo, per non riaprire le ferite di uno e
per non
turbare l’altra con il fantasma ormai idealizzato della
sorella di cui non
aveva memoria.
“Era gentile e generosa. Aveva un carattere forte, ma sapeva
essere sempre indulgente con gli altri. Mai con se stessa. Voleva
disperatamente fare ammenda per l’unico gesto di egoismo
della sua vita.”
Si interruppe, osservando guardingo Rukia.
“Ti mando il medico.” mormorò poi,
uscendo rapido dalla
stanza.
Non incrociò il suo sguardo nemmeno una volta, e Rukia
comprese quanto doloroso sarebbe stato per Byakuya perdere anche lei,
che in
qualche modo rappresentava l’eredità che la moglie
gli aveva lasciato, l’unico
modo che ancora aveva per dimostrarle il suo affetto.
Aveva sfidato il clan per adempiere alla promessa fatta ad
Hisana, e Rukia sentiva di essere quasi memoria vivente della sorella
maggiore,
pur senza averla mai potuta conoscere. Sapeva di essere un simbolo per
il
capoclan: la prova dell’amore che lo legava a sua moglie.
Se avesse perduto anche lei, dell’amore che lo aveva spinto
a infrangere le leggi del casato non gli sarebbero rimaste altre
conseguenze
che la solitudine e il dolore. Rukia amava Byakuya abbastanza da non
volergli
dare altre sofferenze. Anzi, avrebbe voluto poter penetrare in quel
guscio di
desolazione, in qualche modo.
“Non me ne andrò.” Disse, sforzandosi di
alzare la voce per
essere certa che e sue parole non andassero sprecate.
Lo vide fermarsi un istante sulla soglia prima di far
scorrere lentamente la porta.
La sua testa girata si era chinata impercettibilmente, e
Rukia capì che il patto era stato siglato: per Byakuya,
oltre che per se
stessa, lei sarebbe guarita.