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Autore: bougainvillier    26/03/2024    6 recensioni
Ispirata dalla lettura di una AU davvero bellissima, ne ho scritta una anche io dai toni leggeri e spero divertenti! E' stato straniante far muovere Oscar e André in un contesto così diverso, quindi mi auguro di aver rispettato le loro personalità!
« Nella sua famiglia non c’era spazio per le mimose.
L’otto marzo di ogni anno non era altro che la celebrazione dell’eterno fallimento che aveva macchiato in maniera indelebile ogni medaglia e distintivo d’oro cucito sulla divisa di suo padre. Cinque figlie femmine, di un maschio nemmeno l’ombra. Un vero e proprio schiaffo in faccia per un Generale.
Esattamente come quello che le era arrivato qualche minuto fa.
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Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ogni anno la solita storia. Fiori gialli in ogni angolo della città, persino sui dolci e sulle più improbabili leccornie, case in festa e tavole imbandite come fosse già Pasqua o qualsiasi altra festa insulsa e ipocrita. Un giorno alquanto ridicolo, come se le donne avessero davvero qualcosa da festeggiare. Non oggi, e nemmeno ieri.

Nella sua famiglia non c’era spazio per le mimose.

L’otto marzo di ogni anno non era altro che la celebrazione dell’eterno fallimento che aveva macchiato in maniera indelebile ogni medaglia e distintivo d’oro cucito sulla divisa di suo padre. Cinque figlie femmine, di un maschio nemmeno l’ombra. Un vero e proprio schiaffo in faccia per un Generale.

Esattamente come quello che le era arrivato qualche minuto fa.

La guancia ancora arrossata, i lacci delle sneakers bianchi slacciati e dei fogli stretti nella sua mano destra insieme alle chiavi della sua auto. Correva svelta, Françoise.

Allacciò la cintura e girò le chiavi quasi nello stesso istante. Una rapida occhiata all’orologio e il rumore stridulo delle gomme sull’asfalto, che tempo da perdere non ne aveva. Inutile preoccuparsi dei vicini e dei passanti che l’avrebbero guardata male. Inutile pensare anche ai rimproveri e alla faccia iraconda di suo padre. Inutile indugiare oltre.

L’Arma dei Carabinieri l’avrebbe lasciata oggi stesso, senza se e senza ma.

Camminava di quarta, non curandosi delle fosse che – casualità – sembrava stessero aspettando proprio lei. Occhiate veloci agli specchietti, sorpassi azzardati e divieti d’accesso ignorati. Un semaforo rosso.

Ovviamente.

Corrugò la fronte stizzita e l’occhio le cadde sul cruscotto, lì dove aveva scaraventato i documenti letti una sola volta e firmati in un battito di ciglia. Piegati, forse anche un po’ stracciati ai bordi. Se li sarebbero fatti andare bene comunque. Doveva solo arrivare in orario, prima che gli uffici della caserma chiudessero.

Cazzo!

Sbuffò sdegnata, reclinando il capo sul manubrio stretto ancora con più forza. Era stata stupida. Incauta, troppo impulsiva. Avrebbe dovuto presentarsi allo studio del padre direttamente con la lieta notizia, a cose fatte, così da risparmiarsi quel teatrino che di nuovo non aveva nulla. Persino i muri delle pareti avevano imparato le loro discussioni a memoria, anche i manoscritti più ingialliti che figuravano sulle due grandi librerie ai lati della stanza. Una recita da ripetere ad alta voce, puntuale e fedele.

Era stato tempo perso, ma già lo sapeva. Il dovere di figlia le aveva suggerito che fosse - quantomeno - onorevole comunicare in anticipo le sue intenzioni. Mera educazione, nulla di più. Senza giri di parole, che tanto non era un mistero che quella strada già spianata e perfettamente delineata le stava stretta.

Ingabbiata.
Voleva essere lei a scegliere il suo futuro, ciò che sarebbe diventata. La donna che sarebbe stata. Una scelta tutta sua, la prima della sua vita. Perché lei, ora lo sapeva, non doveva niente a nessuno.

Un pugno, il secondo. Il rumore rotto del clacson all’unisono della luce verde, il piede affondato sull’acceleratore mentre il campanile del duomo alle sue spalle rintoccava le dodici in punto. Svoltò a destra, imboccando una scorciatoia ristretta e poi una seconda che dava su una larga strada, costeggiata da palazzine alte affiancate l’un l’altra. Un quartiere impopolare, noto per tutt’altro che per la sua tranquillità, ma che le avrebbe fatto risparmiare una bella manciata di minuti e pazienza. Soprattutto quella. Rimanere ingorgata nel traffico della città era l’ultima cosa che avrebbe tollerato.

Notò una macchia gialla in lontananza, ai lati del marciapiede. L’ennesimo sciocco, pensò, con l’ennesimo mazzo di mimose in mano. Le sembrava di corsa, a giudicare dai movimenti svelti con cui ondeggiava su e giù quell’oggetto che aveva in mano, insieme ai fiori. Alzò gli occhi al cielo velocemente e poi fissò lo sguardo nuovamente sulla strada, mentre aggiustava il parasole per non essere abbagliata dalla luce. Faceva caldo, forse anche troppo per non essere nemmeno l’inizio della primavera.

Non fece in tempo ad abbassare il finestrino che dovette frenare all’istante. Digrignò i denti e imprecò, più volte, affondando le unghie sul volante. Mai una cosa che filasse liscia! Non sarebbe stato proprio da lei, altroché!

Una sfrecciata che fece tremare le piastrelle dell’asfalto e il quartiere intero.

Due delinquenti, la borsa di quel tipo rubata.
Li fulminò con lo sguardo, ancor più che con la pistola che gli aveva puntato contro dopo avergli tagliato la strada. Poche parole, la voce più tagliente di una minaccia. Ma quelli furono velocemente prelevati da due moto e se la svignarono svolazzando tra le mani quella borsa nera come se avessero vinto il primo posto al Gran Premio.

In terra, un uomo dai lunghi capelli d’ebano fin sopra le spalle e una mano stretta sul ventre. Mugugnò qualcosa e si rialzò di scatto, gli occhi sgranati puntati verso i due veicoli che si allontanavano. Non passò molto che riprese a correre, incurante della Panda bianca ingiallita e mezza diroccata che aveva di lato.

Françoise cacciò un lungo sospiro, gli occhi socchiusi e una mano a stringerle le tempie. Mandò al diavolo tutto quanto, ma proprio tutto.

“Pensi davvero che puoi inseguirli così? Camminando?!” – gli urlò, seguito da due brevi colpi di clacson – Sali in macchina, idiota!

L’uomo si voltò, confuso. Cercò di scorgere quella figura oltre il parabrezza, mentre gli si avvicinava. Una donna. Bionda, dai capelli mossi. Gli occhi di ghiaccio che però, poteva giurare, avrebbero potuto anche incenerirlo all’istante.

“Ti muovi? Non ho molto tempo da perdere e nemmeno tu, direi!”

“Va bene, va bene!” – replicò, mangiandosi le parole, mentre saliva in fretta e furia su quell’auto. Altre scelte non ne aveva, dopotutto, e non poteva permettersi di perdere quello zaino… proprio no!

L’auto ripartì che non aveva nemmeno richiuso lo sportello.


***


“Sai… se continui a spingere acceleratore e frizione insieme ogni volta che prendi una curva finiremo per schiantarci contro il guardrail!”
 
I muscoli tesi, le mani aggrappate alla cintura di sicurezza. La voce ferrea quanto bastava per non tradire l’agitazione che pareva prendere il sopravvento.
 
Lei, impassibile, lo ignorò. Un’occhiataccia, il piede che affondava sull’acceleratore mentre cambiava di quinta.
 
“Quindi?”
 
Lui, a dir poco schiacciato contro il sedile, fece per sollevarsi e assumere una posizione più comoda, o consona, che forse erano la stessa cosa. Gli occhi verde pino sulla strada, una mano tra i capelli del ciuffo che copriva la sinistra del volto.
 
“Non hai motivo di andare così di fretta!” - verso di lei, un mezzo sorriso sornione – “La tua guida mi ricorda quella di un-”
 
“Camionista ubriaco, giusto?”
 
Fu lei ora a voltarsi verso di lui, svelta e tagliente.

Glielo dicevano in molti, anche se non molti salivano con lei in auto, e le divertentissime battute erano sempre quelle: donna al volante, pericolo costante! oppure, per l’appunto, il classico ed intramontabile camionista. Le solite idiozie. E ora lui, notato il disappunto di lei, si sarebbe dispiaciuto – che bisognava rimediare, per non rovinare tutto (ma tutto cosa, poi?!) - e si sarebbe scusato e…
 
“No.” – secco - "Avrei detto un… moschettiere, sì. Tu guidi come un moschettiere!”
 
“Come?!”
 
“Quello che ho detto.”
 
“Un… moschettiere…”
 
Lui annuì vittorioso.
 
“Cambi le marce come se volessi infilzare qualcuno con la spada! Stai letteralmente torturando, anzi, sventrando quel povero cambio…”
 
Lo indicò, il tessuto in pelle strappato alla base. Soffocò una risata appena in tempo, una mano rapida alla bocca e gli occhi ancora su quella figura senza neppure un velo di trucco e bella come poche altre.

Lei scattò di quarta e poi di terza e di seconda e poi si fermò, la tangenziale fortunatamente sgombra. Lo squadrò, glaciale e altera, irritata, che poi lo scopo di lui era proprio questo. E lei lo aveva capito e sapeva di esserci cascata in pieno.
 
“Se non ti piace come guido puoi anche aprire lo sportello e scendere! Bel modo di ringraziarmi!”
 
Forse erano meglio quelle classiche idiozie, dopotutto.
 
Insolente… bel modo di ringraziarmi, davvero!
 
Lo aveva soccorso, perché era suo dovere farlo, e grazie a lei quello sciocco era riuscito a recuperare quantomeno la sua stupida borsa, abbandonata ai lati della strada prima dell’imbocco della tangenziale. Il portafoglio sparito, delle due moto nemmeno l’ombra.
 
Niente di nuovo, dopotutto. Non era né il primo né l’ultimo furto che avveniva.
 
Ma alle avventure, Françoise, non avrebbe mai detto di no e inseguire qualcuno, che gli inseguimenti in auto non capitavano mai, certamente lo era. Dovere suo, perché ogni ingiustizia finiva incredibilmente e casualmente per essere compito suo. Sempre.

E ora come se non bastasse aveva anche permesso a quel tizio di provocarla!

Lui, però, aggiustò il tiro appena in tempo. Entrambe le mani alzate, i palmi aperti e la voce bassa e calma. Lo sguardo fattosi umile ancora su di lei.
 
“Ti chiedo scusa, davvero. Ammetto di aver un po’ esagerato…”
 
Ripartì di prima e poi subito di seconda, che ferma in mezzo alla strada non poteva di certo rimanere. Le sembrò sincero ma gli rifilò comunque un’occhiataccia.
 
“Se non chiudi il becco potrei infilzare te con una spada o colpirti con una pistola… a tua scelta e piacimento! So usare entrambe molto bene!”
 
Lui strabuzzò gli occhi. Il ricordo di quella pistola – quindi era vera… - puntata contro i suoi borseggiatori, da oltre il finestrino, vivido e veloce davanti a sé. Poi li socchiuse e si strofinò il mento, di nuovo quell'espressione irriverente in volto.
 
“Quindi non mi sbagliavo… Tu sai usare davvero la spada!”
 
L’ira di lei salì di nuovo. Le mani strette, strettissime al manubrio. Si morse il labbro, che lui… che lei… praticava la scherma sin da bambina… E lui…
Non gliel’avrebbe data vinta!
 
Dannazione! Lui e il suo dannato moschettiere!
 
E quel tizio, gli occhi che brillavano, serafico e inscalfibile non smetteva di sogghignare. E continuò, ancora, che si stava proprio divertendo a prenderla in giro.
 
“Allora scelgo la spada!”

Lei inarcò un sopracciglio, la fronte corrucciata. Non stava capendo più nulla e lui sorrideva e le stava davvero facendo perdere la pazienza e…

“Voglio perire di spada, signor Comandante. Al crepuscolo, ma non prima che siano apparse le prime stelle in cielo… e anche la luna, perché no?”
 
E poi fu lei a dover soffocare una risata, ma quella scappò lo stesso e la rabbia scivolò via come se non ci fosse stata mai. Il volto disteso, rilassato e morbido. Rise anche lui e risero insieme, ancora più forte quando lui le dovette ricordare di voltarsi verso la strada anziché fissarlo perché lo stava facendo da troppo tempo.

Poi un piccolo azzardo.

“A patto che sia lei ad uccidermi, sia chiaro…”
 
Lei di nuovo seria e rigida, le iridi di zaffiro fulgide ma ancora sorridenti. La voce, però, era calma e lui non l’aveva ancora sentita così.
 
“Dovresti indicarmi il tipo di fendente e rivedere la forma della tua richiesta…” – una breve pausa, a rimarcare quel voglio da lui pronunciato oltremodo fuori luogo – “Un Comandante non prende ordini dai suoi sottoposti, mai.”
 
Il cipiglio di nuovo fiero.
Finalmente lo aveva zittito!

Lui accennò ad un saluto militare con la mano destra, il pollice piegato sul palmo e solo le altre dita tese in fronte.
 
“E questa cosa è lontanamente accettabile…” - lo schernì lei.
 
Lui si era voluto fare zittire, finalmente.
Qualche istante di silenzio e il tempo di ritrovare le parole, che lei era divertente e sveglia, tanto, e leggera. Leggera perché gli aveva fatto dimenticare tutto quanto, i documenti, la segreteria, il relatore e…
 
Il volto si adombrò, così, in un attimo. Gli occhi fissi e spenti sui fogli che spuntavano dallo zaino malconcio ai suoi piedi. Li tirò fuori, ordinandoli tra le sue mani. Fogli a righe ed ingialliti, la calligrafia tondeggiante e pulita che pareva stampata. Erano stracciati ai bordi, sporchi e accartocciati.
 
Le fu chiaro.
 
“Se non ci fossi stata tu nei paraggi non avrei ritrovato nemmeno questi. È l’unica copia che ho della mia tesi di laurea…” - in un sussurro, quasi.

Le fu chiaro, sì, il motivo per cui lui non si era quasi preoccupato dei soldi dentro il portafoglio, della carta di identità rubata, della patente e del bancomat che lei stessa aveva dovuto ricordargli di bloccare. Scorto lo zaino, lui si era interessato solo di quelle carte sparse e pestate in terra come se non fosse esistito null’altro, affrettandosi a raccoglierle senza proferire parola.

Ora lei capiva.

S’incupì, ma solo dentro di sé. La freccia a sinistra, un’automobile sorpassata, il ticchettio a riempire il vuoto che era calato. La coda dell’occhio scivolata su di lui che guardava oltre il finestrino, il mento sostenuto dalla mano destra e l’altra sulla tesi come a proteggerla.

Françoise incurvò appena le labbra in un conforto amaro e muto. Parlò piano, con cautela.

“In cosa ti laurei?”

“Letteratura… Sempre se il destino non continua a giocarmi brutti scherzi, s’intende.” – di nuovo verso di lei, l’indice che sfregava il dorso del naso. – “Avrei dovuto consegnare questa bozza proprio oggi, o meglio, un mio amico che lavora in segreteria si era gentilmente offerto di trascriverla al pc prima di inoltrarla. Ho l’ultimo esame del corso dopodomani, e ora che ci penso non ho più alcun documento con me…”

Una tesi di laurea… trascriverla al computer…
Ma chi diavolo scrive ancora a mano?! Una tesi, poi…!


“Non sai usare il computer?!”

“Certo che sì! Ma preferisco scrivere su carta, tutto qui…”

È un amanuense! Un fottuto amanuense!

“…a volte mi sembra di essere un po’ come un amanuense!”

Trasalì. E questa volta soffocare la risata, che immaginò essere lunga e rumorosa, fu difficile. Ma si riebbe, subito, e non lo degnò di uno sguardo. Una sensazione strana ad attraversarla, che lei si era dispiaciuta – e tanto – ma lui si prendeva gioco di sé e nel mentre aveva fatto illuminare di nuovo anche lei.

“Ritieniti fortunato, allora, pensa se avessi dovuto riscriverla interamente da capo…”

“Direi proprio di sì…”

“Per quanto riguarda i documenti…” – chiosò lei grave, che qualcuno doveva pur pensarci e quel qualcuno doveva essere evidentemente lei – “Domani farai la denuncia e poi andrai al Municipio a chiedere una nuova carta di identità. Non ti preoccupare, non ci vorrà molto. Ti daranno un documento provvisorio valido che puoi usare anche all’università, mentre per la patente riceverai un permesso dai Carabinieri… di questo me ne occuperò io personalmente.”

Aveva detto domani.
Gli uffici erano ormai chiusi e si era anche dimenticata dei suoi di fogli e carte e firme.

Chiusi, maledizione… chiusi!

E trasalì di nuovo, nervosa, la quarta inserita prepotente in uno scatto felino.
Lui osservò di nuovo il cambio ma questa volta rimase in silenzio.
 
“Grazie, sei molto gentile.” – il sorriso dolce e buono ora su di lei. - “Ma quindi… se posso… fai parte dei Carabinieri, giusto? Avrei dovuto capirlo prima…”

Françoise annuì. Un sospirò quasi impercettibile che lui però notò.

“Bene, ora si che posso stare tranquillo e non temere più per la mia vita!”

“Cosa?!”

“Non credo proprio che sia raccomandabile salire in macchina con una donna sconosciuta che minaccia con una pistola vera in mano, non ti pare?!”

Sparirono di nuovo. L’ira, il fastidio, tutto quanto.

Ci fu spazio solo per una risata, lieve e spensierata.
Una risata di quelle vere e di cuore, una di quelle come mai aveva fatto prima.

Poi solo qualche istante di silenzio e il tempo di ritrovare le parole che quel tipo lì, con il dolcevita beige stretto sulle spalle ampie e i jeans larghi e scuri, sembrava davvero aver cancellato tutto quanto. L’Arma, la segreteria, suo padre…
 
“Io direi più se sono uomini sconosciuti che ti dicono come guidare la tua auto!”

Una risata, una fra mille altre che seguirono.

Il vento, il cielo azzurro, il sole che lentamente calava sul mare.


***

Risero, davvero tanto.

E litigarono.
Per la musica, che lei non ne poteva più delle canzoni malinconiche propinate da lui e lui s’annoiava per il rock scelto da lei. Ma almeno Bohemian Rhapsody piaceva ad entrambi.
Per i finestrini chiusi o aperti.
Per le letture, che Françoise amava i trattati di storia e lui quelli d’amore. Tutti e due, però, amavano Virgilio.

E lei, non voleva ammetterlo e nemmeno se ne rendeva conto, s’incantava a sentirlo parlare di quelle robe lì anche se non le avrebbe lette mai, perché in ogni parola e frase lui sembrava donarle una briciola di sé.

Una risata, una fra mille altre ancora.
 
La tangenziale percorsa per l’ennesima volta, i cartelli stradali e le uscite ignorate, la spia della benzina che si era accesa presto dimenticata.

Parlarono a lungo.
Lui senza genitori, costretto a lavorare sin da bambino. Con amore si prendeva cura dei cavalli e con gioia intagliava il legno per mantenere l’arte di suo padre. Sognava d’essere uno scrittore e di poesie ne aveva scritte tante ma senza farle mai leggere a nessuno.

Lei…

Françoise parlò di sé, e lei non si raccontava mai.
Ricca di famiglia, un Generale come padre che a casa non c’era mai e la madre sempre in viaggio d’affari. Una divisa, un fioretto nella culla e un fiocco blu.
La vita scelta per lei sin dal suo primo vagito.
 
Lei… lo ascoltò.

- Lo stai facendo davvero per te stessa?
E avrebbe taciuto, poiché superfluo e scontato rispondere. Così fece. Quella era davvero l’unica cosa che stesse facendo per se stessa, senza alcun dubbio. E all’uniforme non avrebbe rinunciato mai. Anche se…

- Ma non lo faresti per tutta la vita.
No. Perché il mondo le pareva troppo grande per rimanere confinata dietro la scrivania di un ufficio, o dentro una caserma spenta e senz’anima. Non avrebbe mai potuto farlo per tutta la vita, e questo lo aveva sempre saputo anche senza chiederselo. E nemmeno la vita da ufficiale faceva per lei, e non di certo in quanto donna. Impartire ordini, decidere per gli altri in una realtà che ogni giorno andava sgretolandosi. No, non lo avrebbe mai fatto.

- Non è troppo tardi per iscriverti alla facoltà di Fisica o di Biologia. Forse va bene anche quella di Chimica, sai? Puoi fare ciò che più ti piace.
Il RIS, invece, la affascinava da sempre. Se avesse davvero potuto scegliere, subito dopo il liceo, si sarebbe immatricolata in qualsiasi corso di studi purché fosse stato in grado di portarla tra le scene del crimine. Anche Medicina, nonostante la noia di stare sui libri per così tanto tempo.

- Sei una donna intelligente e sveglia. Non avrai alcun problema se questo è ciò che desideri, ne sono convinto. Non ti manca il coraggio…. ma questo già lo sai.
Forse era la sua voce tranquilla e gentile, così ferma e sicura, oppure il fatto che ogni consiglio sembrava essere realmente spassionato e puro come non ricordava di aver mai sentito da nessuno. O forse era il modo in cui riusciva a dare voce ai suoi silenzi senza aggiungere null’altro che sguardi simili ad una carezza, anche quando lei gli riservava sguardi d’acciaio e scintille di fuoco. Ribatteva, le dava ragione ma solo per smantellare pezzo per pezzo la sua punta d’orgoglio. E poche, pochissime volte, lei non era riuscita a tenere testa a qualcuno.

Il fatto era che c’era uno sconosciuto alla sua destra che sembrava conoscerla più di chiunque altro, anche se non sapeva nemmeno il suo nome. Ed era strano, terribilmente strano, abbassare la guardia senza nemmeno rendersene conto. Era bello, e molto.

Aveva smesso anche di aspettare un passo falso, che tanto quelli ci sono sempre e non tardano ad arrivare mai. Talvolta lui ci aveva provato, altre volte aveva solo tentennato, impacciato… e così ci aveva pensato lei.

Si raccontarono anche senza parole, silenzi lunghi e confortanti.

E le segreterie, l’università e le dimissioni… I ruoli tutti sparirono.
Non c’erano né nomi e né cognomi importanti. C’erano solo una ragazza ed un ragazzo in una macchina, come se avessero vissuto tra quelle strette mura di metallo da sempre. Lì dove potevano essere liberi di sbagliare ed essere soltanto se stessi.

Poi indice con indice sullo stereo, lì per caso, le mani che si sfiorarono appena.
Un tocco leggero, un brivido lungo la schiena.

Si guardarono per un istante, un granellino di sabbia che in una distesa ambrata sembrava impercettibilmente infinito. E il paesaggio scorreva veloce oltre i finestrini abbassati, eppure intorno a loro tutto era fermo ed immobile come se non esistesse più.

La strada che non volevano finisse mai.

E poi una suoneria e subito dopo una vocina squillante e preoccupata. Le mani ritirate nello stesso attimo. Lui, imbarazzato, si scusò e poi spiegò il suo indirizzo. Fu come destarsi improvvisamente da un sogno di quelli belli che se poi ti riaddormenti vuoi continuare. E l’angoscia di dover stare svegli è la medesima. Triste e cupa.

Il condominio dove abitava fu raggiunto in poco tempo. Nessuno parlò.
Una vecchina con un grembiule e una cuffietta viola aspettava fuori in balcone, le braccia conserte e un mestolo di legno in mano. La indicò, così che anche lei potesse vederla.

“Quella è mia nonna… guarda, è già pronta a mettermi in riga!”

A Françoise quella donna sembrò davvero più temibile di un Generale dell’Esercito.

Lui si chinò in avanti, raccolse le sue cose e il mazzo di mimosa che aveva appoggiato sul cruscotto di fronte. Lo sportello aperto, lentamente.

E ancora un ultimo sguardo, un’ultima risata.
L’ultima fra altre mille.

Un ultimo sguardo ancora.

La stessa domanda, anticipata da lei.

 “André.”
“Chiamami solo Oscar. A me piace così.”


Si salutarono, infine.

La strada fu percorsa a ritroso, il traffico onnipresente e il volto illuminato dalle luci rosse dei fari. Una mezza luna alta nel cielo bluastro.
Questa volta, però, la mente leggiadra e vuota.
                                                                    
***


Françoise rientrò in casa e salì le scale in fretta, dritta verso la sua stanza.
Lucciole che volteggiavano sull’edera che contornava la porta finestra, la documentazione gettata e chiusa in un cassetto della sua stanza, lì dove sarebbe restata ancora per un po’.

La divisa sul letto ancora disfatto.
La fissò a lungo.

- Lo stai facendo davvero per te stessa?

Riecheggiò solitario e dirompente.

Lei lo ascoltò, di nuovo, e ascoltò se stessa più forte che mai.

Forse voleva solo andare contro gli ordini di suo padre e provare di non aver bisogno di nessuno per costruirsi un futuro, men che meno di lui o chiunque altro.
Ma forse non occorreva lasciare l’Arma per farlo, che lei già era libera a modo suo…
Grazie ad una divisa, la sua divisa…

Senza quella, senza la scuola militare dove era stata spedita a soli quattordici anni, non avrebbe mai potuto raggiungere il RIS! E tre anni di università sarebbero passati in fretta che, dopotutto, anche la laurea poteva considerarsi alla stregua di una strategia militare.
 
Avrebbe scelto davvero lei questa volta.

Una smorfia, che quell’insolente aveva ragione e non vedeva l’ora che fosse domani.
In caserma, alle nove in punto.
 
***
 
L’otto marzo di quell’anno, per la prima volta, a casa Jarjayes entrarono delle mimose.

Un singolo ramoscello un po’ secco con dodici batuffoli gialli, caduto e dimenticato sul sedile di una macchina parcheggiata in garage. Gli altri fratelli del mazzo già in un vaso, ordinati con cura da un’arzilla nonnina.

L’auto di Françoise Oscar de Jarjayes.

La mimosa di André Grandier.
   
 
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