Partecipante alla challenge “WIP spring” indetta da ame tsuki sul gruppo FB Komorebi - fanfiction Italia
ATTENZIONE!
Si sconsiglia la lettura alle lettrici e ai lettori troppo
giovani e/o sensibili.
È importante usare sempre un proprio senso critico durante la
lettura di testi dalle tematiche delicate.
Titolo: For Your Own Sake - Capitolo 1
Ship/Personaggi: Gwen
Stacy x Miguel O'Hara
Fandom: Spiderverse
Parole: 3.647
Avvertimenti/Tag: Modern!AU, No Powers!AU, there was only
one bed, adulto (34 anni) x minore (14 anni), tematiche delicate, morte,
body-shaming, slur, razzismo, grooming (manipolazione
di minore da parte di un adulto al fine di abusarne sessualmente. Si è soliti riferirsi
a questa dinamica malata principalmente come fenomeno che avviene interamente
online o che inizia online e poi si trasferisce anche irl. È però da anni che ormai
si tende a riferirsi al “grooming” come un’azione che può anche iniziare ed
evolversi irl fin dall’inizio; dipende sempre da caso a caso).
Note:
questo è solo il primo capitolo della long. Considerata la tematica, era
impossibile per me il solo pensiero di poter condensare tutto in un singolo
capitolo. Volevo darmi il giusto tempo per scrivere ogni particolare
fondamentale per la storia e questa dinamica al meglio delle mie capacità di
scrittura ed emotive. Capirete che scrivere una storia del genere non è certo una
passeggiata (almeno per quella che è la mia morale), visto che per me è
estremamente importante non rendere pornografici certi argomenti o
spettacolarizzarli per “impressionare” il lettore. Deve prima di tutto avere
senso nella mia testa, e poi devo fare il possibile per scrivere x dinamica nel
modo più rispettoso possibile ma senza edulcorarla o, peggio, romanticizzarla.
Non fa proprio parte di me, mi sentirei sporco e irresponsabile al solo
pensiero di fare una cosa del genere in una storia come questa (che non vuole
certo essere erotica). So benissimo che in giro c’è molto di peggio, ma io non
ero e non sono interessato a scrivere quel tipo di storie.
So che probabilmente molte
persone non si sentiranno di riuscire a leggere questa storia, quindi,
ovviamente, vi invito ancora una volta a non forzarvi.
Vi saluto,
Jason.
P.S.
Ringrazio @ame tsuki per avermi fatto da beta! ♥
FOR
YOUR OWN SAKE
1
Uscì dallo spogliatoio
con indosso una maglia più larga di lei almeno il doppio—conservava ancora il
sentore intimo di eau de parfum pour homme, agrumato e mentolato come la stagione in cui
erano suggeriva—e dei pantaloncini sportivi larghi e appena sopra la coscia. I
lacci fucsia erano slacciati sul fronte del cavallo della stoffa elastica dai
bordi bianchi spessi.
«E quella? Mhhh…?» le chiese Lauren, una sua compagna di
danza più grande di lei di qualche anno. Si lanciò addosso a lei fingendo un
abbraccio, ma si mise subito a sniffare l’odore mascolino che il tessuto in
cotone bianco custodiva dalla mattina stessa. Samantha (Sammy), un’altra sua
compagna, sorella minore dell’altra, usò una delle due mezzepunte per schiaffeggiarle
giocosamente i polpacci sodi, al fine di aiutare la sorella più grande a ottenere
una risposta da Gwen.
Gwen non rispose, ma le
sue guance si colorarono di rosa; quel dettaglio improvvisamente più evidente
delle lentiggini che le adornavano il volto paffuto e lo spazio tra i denti
quando sorrideva. Scacciò il piede dal collo perfetto della compagna con un po’
più forza del necessario e, per l’ulteriore imbarazzo, si arrotolò con l’indice
una ciocca di capelli tinta di rosa—colore che ormai stava sbiadendo, spegnendole
i capelli color grano—solo per fermare il movimento un secondo dopo. Continuare
avrebbe reso più ovvio il fatto che ci fosse un segreto dietro il suo possedere
quella maglia chiaramente non sua. Con un po’ di fortuna, invece, e un
po’ di disattenzione altrui, poteva riuscire a far passare quel tic
nervoso come un gesto innocuo, come se si stesse spostando i capelli appena
asciugati dietro le spalle non più così minute.
Era sempre stata solita
portare i capelli corti, erano più facili da gestire e sentiva che
rispecchiassero maggiormente il suo modo di esprimere la propria identità, ma
da quando… da quando Miguel le aveva fatto quell’appunto su come i capelli
lunghi le sarebbero stati meglio, resa più femminile, aveva deciso di non tagliarli
mai più e curare la loro crescita. In pochi mesi erano cresciuti a tal punto da
riuscire a toccarne le punte con una mano dietro la schiena, in mezzo alle
scapole sporgenti. Non intendeva però rinunciare alla sua amata ciocca rosa, non
importava cosa avrebbe detto Miguel al riguardo.
Riaccese il cellulare e
la connessione dati, così in un battito di ciglia l’apparecchio fu inondato da
notifiche di articoli di giornali digitali contenenti le parole chiave per cui
lei aveva selezionato una preferenza. Leggendo le prime righe del primo
articolo che le capitò sottomano, venne a conoscenza di quello che era
accaduto—o quasi accaduto—nel centro del Queens, proprio nel quartiere dove
abitavano lei, suo padre e Miguel. Cominciò a sudare, le mani a tremarle. Le
sue amiche chiesero cos’avesse così d’improvviso e lei mostrò loro ciò che
stava leggendo. Sui loro volti si dipinse la stessa espressione che doveva
essere presente anche sulla sua faccia: shock.
Non riuscirono ad
approfondire la questione, provando a contattare immediatamente i loro cari,
perché una voce che conoscevano bene prese parola alle loro spalle.
«Fai bene a metterti
quelle magliette larghe appena possibile, Fatty-Stacy». Quel tono
beffardo tipico delle creature nate e cresciute abbastanza a lungo nei
quartieri alti di Manhattan le grattò il padiglione auricolare.
«Cosa dovrebbe
significare?». Non si sorprese che Lauren fosse ceduta a una provocazione tanto
bassa in nome suo, pur probabilmente consapevole di star giocando al sadico
gioco di Catherine. Quella ragazza sarebbe stata in grado di far sussultare
persino il Diavolo.
Gwen e Catherine erano le
uniche due ragazze della stessa età facenti parte dell’Accademia di Danza di
Madame Bernard. Avevano persino iniziato il loro percorso di studi lo
stesso giorno della stessa settimana, ma quelle similitudini, invece di
avvicinarle, l’aveva automaticamente messa sulla lista nera di Catherine Chang.
Dedusse presto che all’altra non piaceva avere nulla in comune con nessuno,
specialmente “una come lei”; parole della stessa, non di Gwen. E lei, idiota
com’era, abboccava alle sue esche ogni singola volta, permettendo alle
sue parole di destabilizzarla e ferirla. In passato, Miguel le aveva
rimproverato spesso il suo carattere “infantile”, e ne incolpava il padre, ma,
con il suo aiuto, era riuscita a controllare quel suo aspetto di sé, a
mostrarsi più matura e quindi una sua pari durante le loro conversazioni. La
faceva sentire più grande dei suoi quattordici anni, e con ciò, quando erano
insieme, le sue insicurezze “infantili” sparivano. Quando però aveva delle
ricadute e provava vergogna a confidarsi con l’uomo al riguardo, Gwen sfogava
tutta la rabbia e frustrazione inespressa a parole ballando o suonando la
batteria—ma Miguel si era lamentato del rumore e infine l’aveva convinta a
smettere di suonare, così le era rimasta solo la danza. Per alcuni aspetti, la
presenza di Miguel nella sua vita si era rivelata la cosa migliore che potesse capitarle,
ma doveva ammettere almeno a se stessa che per altri
aspetti, invece, certe volte pensava che la sua influenza e presenza sembrasse
averla resa una bomba a orologeria pronta a esplodere in ogni momento. Era come
essere sovrastimolata in ogni momento della sua
giornata, bastava che pensasse a lui o anticipasse il momento in cui si sarebbero
visti e condiviso del tempo insieme.
Alla sua mente piaceva
tormentarla in special modo di notte, impedendole di dormire. Sapere di essere
da sola in casa, con suo padre sempre impegnato con il lavoro, non l’aiutava a
sentirsi meno sola. Era in quei casi che Miguel O’Hara, il loro vicino di
casa—abitava qualche appartamento più giù rispetto a loro—e amico storico di
suo padre, veniva in suo soccorso. Bastava che gli inviasse un messaggio, anche
nel cuore della notte, e sapeva che si sarebbe alzato ad aprirle la porta del
suo appartamento. Se il giorno dopo aveva scuola, la invitata con un bacio
sulla fronte a infilarsi nel grande letto King Size e tornare a dormire,
altrimenti la prendeva in braccio e la posizionava sul suo grembo, petto contro
petto e con le gambe a penzoloni, mentre lui continuava al computer la stesura
del suo prossimo manoscritto. Pubblicava almeno un libro all’anno. In ogni
caso, sentire così da vicino il profumo della sua pelle aveva il potere di
farla sentire protetta e confortata. Il fatto che l’essere appiccicosa di Gwen,
con i suoi abbracci e lo sfregare delle guance sul suo collo o petto, non lo
disturbasse mai, era un fattore che non poteva ignorare. Amava abbracciarlo ed
essere abbracciata da lui. Sentiva di poter scomparire in quei suoi abbracci,
circondata da mura impenetrabili che l’avrebbero protetta da ogni male del mondo—persino
i suoi pensieri più bui.
Ma Miguel non era
fisicamente lì in quel momento e non avrebbe potuto aiutarla in alcun modo.
Doveva tentare di cavarsela in qualche modo, da sola, e attendere di ritornare
a una casa vuota per cercare conforto nelle braccia dell’uomo che non era suo
padre ma che ormai considerava una figura analoga.
«Ti sei vista allo
specchio, oggi? Avevi la pancia così gonfia che si riuscivano a contare i
grammi della pasta che hai avuto a pranzo». Catherine ignorava la ragazza più
grande non guardandola nemmeno negli occhi, puntando invece il suo sguardo
negli occhi chiari e leggermente lucidi di imbarazzo e rabbia contenuta di
Gwen.
Con quella frase, aveva dato
inizio a uno sciame schiamazzante di risa da parte del resto dello spogliatoio,
tranne di lei e delle sue uniche due amiche.
«Sei una piccola
disgraziata viziata, lo sai, vero?» continuò Lauren a denti stretti verso la
ragazzina più piccola di fronte a lei, rimasta circondata da alcune compagne
costrette per status e conoscenze in comune dei loro rispettivi genitori ad
andarle dietro e darle manforte in tutto, persino durante i suoi atti di
bullismo.
«Lauren, lasciala
stare. Non ne vale la pena, abbiamo altro a cui pensare adesso, dai…»
sussurrò Sammy avvicinandosi alla sorella. Le appoggiò una mano delicata sulla
scapola e gliela massaggiò al di sopra della stoffa sintetica con un pollice.
«Ehi, pel di
carota, non puoi parlarle in quel modo!» replicò una delle tirapiedi di
Catherine.
La diretta interessata si
limitò ad alzare un sopracciglio e incrociare le braccia al petto, spostando il
peso sulla gamba sinistra. Fissava le tre ragazzine come fossero aliene portatrici
di malattie infettive.
«Potrei dire la stessa
cosa della tua amichetta smorfiosetta mangia riso. Ha iniziato lei» disse
tagliente. Posizionò le mani lungo i fianchi e fissò con aria di sfida il
gruppetto, arricciò per un millesimo di secondo le narici e irrigidì gli angoli
delle labbra all’ingiù.
Gwen sussultò a quella
frase a dir poco infelice. Purtroppo, Lauren aveva spesso quelle uscite… poco
carine.
Si alzò per dire
qualcosa, qualunque cosa potesse interrompere quella escalation di insulti
prima che potesse peggiorare, ma quando l’amica scrollò con violenza la sua
mano e quella di Sammy dalla spalla sinistra, non ebbe il coraggio di insistere
una seconda volta. La vergogna che già provava per il commento riguardo al suo
corpo si sommò a quella riguardante la sua codardia infantile—le parole di
Miguel le risuonarono in testa come un eco—e questo non aiutò la sua voce
arrochita a uscire dalla trappola delle sue corde vocali tese. Quasi non
riusciva a deglutire.
Lauren superava tutte
loro sia in età anagrafica sia in altezza—almeno dieci centimetri—ma la sua
maturità emotiva e autocontrollo sembravano essere stati sacrificati durante lo
sviluppo, perché non c’era altra spiegazione credibile per quello che fece di
lì a poco.
L’intero spogliatoio
trattenne il respiro, in attesa di una risposta fisica o dialettica da parte di
Catherine: colei che aveva appena ricevuto un sonoro schiaffo dritto in faccia,
e a rovescio. Il sottile anello a forma di infinito, e con piccole pietre di
vetro incastonate lungo le curve spesse, che indossava sempre appena finita la
lezione di danza, lasciò un visibile marchio sul volto altrimenti pulito
dell’altra. Oltre ad avere una guancia arrossata, la sfumatura via via sempre
più rosso-viola mal si integrava con il naturale incarnato caldo di Catherine.
Sembrava in tutto e per tutto un livido, con un rivoletto di sangue, provocato
dall’anello incriminato, a peggiorare il tutto.
Se non era crollata a
terra, sbattendo la testa a una delle panchine dalla struttura in metallo e la
seduta in legno, era perché le sue tirapiedi avevano attutito e arrestato la
caduta. Essere preparata alla caduta non è come cadere, anche per una
ballerina.
Pochi secondi dopo, il
tempo di toccarsi il volto gonfio e probabilmente pulsante, Catherine aveva abbandonato
ogni facciata di superiorità e si era lanciata addosso a Lauren. L’aveva
afferrata per i capelli sciolti e ancora umidi, cercando di trascinarla a
terra.
All’inizio, la rossa era
riuscita quasi a liberarsi dal maltrattamento dei suoi lunghi capelli ricci,
perennemente annodati, ma quando le altre si erano aggiunte alla manovra,
Lauren era stata inesorabilmente scagliata a terra, calpestata e calciata dal
gruppetto di ragazzine. Tutte loro praticavano danza classica e, seppur fossero
ancora giovani, le loro gambe erano decisamente più forti e precise nei colpi
di quanto lo sarebbero state quelle di loro coetanee che invece non praticavano
nessuno sport che comprendesse un uso tanto assiduo e cruciale di gambe ben
allenate.
Gwen non potette più
tenersi al di fuori della lite, per quanto iniziata per motivi a loro modo nobili.
Si buttò in mezzo alla
mischia e si sdraiò di schiena addosso e poi accanto a Lauren, atterrando su un
avambraccio, nella speranza che quei brutali colpi venissero distribuiti in
ugual misura tra loro due, dando modo all’amica di riprendere un minimo di
fiato per, magari, sgusciare via. Poco dopo arrivò anche Sammy—la riconobbe
dalle scarpe da tennis dalla punta viola e disegni bianchi fatti a mano
dall’amica stessa—che fu contemporaneamente più intelligente e pratica e si
mise a spingere le compagne in piedi, cercando di allontanarle e farle smettere
l’assalto.
La sua voce stridula dal
pianto e dalla disperazione le rimbombò nelle orecchie.
Qualcun’altra di quelle
che erano rimaste a guardare doveva aver provato pietà per la loro, oppure
giunta alla conclusione che ormai erano pari e non servisse prolungare oltre il
pestaggio; si unì a Sammy per cercare di sciogliere la matassa di piccoli ma
furiosi corpi.
Solo allora le loro
insegnanti arrivarono con
finta andatura urgente all’interno dello spogliatoio. Quando era ormai tutto finito.
Gwen sospettava che
avessero sentito lo svolgersi della lite, ma che avessero deliberatamente
deciso di non intervenire nell’immediato. Il loro tono di voce urgente e le drammatiche
espressioni di ostentato ripudio una volta aver compreso fino a che punto si
erano spinte le giovani danzatrici tradivano senso di colpa. La ramanzina
arrivò solo dopo aver constatato le condizioni in cui Catherine, Lauren e Gwen
erano state ridotte.
Non poteva esprimersi per
le altre due, ma ogni singolo muscolo del suo corpo doleva. Sentiva la faccia
come un palloncino di piombo pronto a scoppiare, dotato di un proprio cuore
pulsante e sanguinante—ne sentiva il battito nelle orecchie.
Quando venne chiesto
loro, una ad una, cosa fosse successo e come si fossero provocate quei lividi,
la prima a rispondere fu proprio Gwen:
«Sono caduta, Madame»
disse soltanto. Faceva male persino parlare. Doveva avere lo stomaco ridotto
male, contando tutte le volte che era stata colpita senza pietà.
Le due donne, madre e
figlia, non sembrarono credere alla sua versione, spostarono quindi la loro
attenzione su Catherine:
«Sono caduta, Madame»
la copiò l’altra.
Le insegnanti si
lanciarono uno sguardo di intesa, ma non indagarono oltre neanche questa volta,
seppur visibilmente spazientite. La donna più anziana aveva incrociato le
braccia e lasciato porgere le domande dalla figlia—fino ad allora. La schiena era rimasta dritta come un ago,
mentre spostava il suo sguardo severo sulla più grande delle tre, probabilmente
confidando, o sperando, che scegliesse di dire la verità e affrontare le
conseguenze delle loro azioni. Inspirò dal naso e chiuse le palpebre mentre rilasciava un respiro stanco. Decise
di prendere la situazione in mano e inquisire personalmente con insistenza, finché
Lauren non si limitò a rispondere con:
«Sono caduta, Madame.»
Il suono sordo che colpì
la guancia rimasta fino ad allora miracolosamente illesa si propagò tra le file
di ragazze, come se ognuna di loro fosse stata colpita dalla mano intransigente
dell’anziana donna. Ma Lauren si limitò a riportare gli occhi su quel volto
maturo imbruttito dalla collera. La fissò come a sfidarla a colpirla una
seconda volta, nonostante una solitaria lacrima fosse costretta a scivolare via
a causa dell'impatto e del dolore acuto, tradendo la sua maschera di
imperturbabilità.
—ooOoo—
Quando la maggior parte
dei loro genitori, tutori o altresì parenti vennero a prendere le ragazze di
cui erano responsabili dall’Accademia—le studentesse avevano avuto mezz’ora di
tempo prima che le ore di lezioni fossero ufficialmente concluse per la
giornata—e chiesero spiegazioni circa l’accaduto, le due maestre di danza non
batterono ciglio e raccontarono loro la stessa menzogna che le tre giovani
avevano inventato. Poco importava che Gwen e Lauren avessero lividi su tutto il
corpo, sapevano tutti che sia lei sia Sammy e sua sorella maggiore avevano
genitori che facevano lo stesso lavoro e che capitasse che fossero assenti
anche per giorni consecutivi. Per quanto quei lividi facessero male, dallo
specchio nella grande sala da ballo si resero conto che il viso in realtà era
stato toccato poco—nulla che in pochi giorni non sarebbe sbiadito e che non si
sarebbe potuto coprire con del semplice trucco. I lividi più importanti erano
nascosti dai vestiti.
Catherine se l’era cavata
con quel singolo livido e sfregio in faccia, quindi, quando sua madre le alzò
di poco le maniche e l’orlo della maglietta per controllare che non si fosse
fatta male altrove, e constatò che l’unica testimonianza del danno era su quel
lato del viso, fu molto semplice credere alla storia della “caduta accidentale in
doccia”. Non era raro avere episodi di brevi vertigini dopo una lezione di
danza, considerata l’intensità delle stesse a pochi mesi di distanza da uno
spettacolo importante. Era successo altre volte che qualcuna fosse scivolata
sulle piastrelle delle docce o avesse battuto la testa contro qualcosa mentre
recuperava la propria borsa con il cambio di vestiti dopo la lezione.
Quello che Gwen non si aspettava,
tuttavia, era la presenza
di Miguel in mezzo agli altri adulti.
La squadrò da capo a
piedi con sguardo duro, concentrato e inquisitorio, ma non le chiese nulla
direttamente sulla situazione. Le scompigliò i capelli e l’attirò a sé con un
braccio. Gwen non si oppose all’abbraccio, al contatto umano di cui, in quel
momento, aveva un disperato bisogno. Dopo quello scambio confortante, ritornò
alla realtà che stavano vivendo e gli chiese come mai fosse venuto a prenderla.
Non era mai accaduto prima di allora: di solito tornava a casa da sola; era
abituata a fare molte cose da sola. Miguel rispose afferrandole una mano tra la
sua più grande, enorme in verità, e trascinandola vicino alle sue insegnanti.
Aveva tirato fuori lo smartphone e aveva messo in play un video girato dal
padre di Gwen, ancora in uniforme da poliziotto.
Nel video, seppur girato
mentre si dirigeva a passo svelto verso qualcosa o qualcuno—guardò in camera
solo all’inizio e alla fine del video: per iniziare e terminare la
registrazione—l’uomo assicurava le due donne che Miguel era un loro vicino di
casa e che aveva il suo permesso per andare a prendere Gwen dall’Accademia e
portarla in un posto sicuro, lontano dal caos generato nella zona in cui
abitavano.
Confermò loro, a Gwen e
così a tutte le altre persone presenti nella stanza che stavano involontariamente
o meno ascoltando l’audio del video e il trambusto di sottofondo che lo
accompagnava mentre parlava, che la notizia trapelata in anticipo su tutti i
giornali locali e nazionali di una minaccia di attacco bomba ai danni di un
palazzo condominiale situato nel Queens—quello in cui vivevano anche Gwen, suo
padre e Miguel—era purtroppo vera e che ciò aveva scatenato un’isteria di massa
collettiva. Si premurò di fare le dovute raccomandazioni e contattare i loro
cari che potevano trovarsi in pericolo.
Gwen non poteva ancora
saperlo, ma quella fu l’ultima volta che vide il volto di suo padre, seppur
attraverso un video sgranato e dall’audio gracchiante girato nella massima
fretta in una situazione a dir poco spiacevole.
—ooOoo—
Si dirigevano in macchina
verso un motel lontano dal centro della città. Miguel aveva ricevuto la
“dritta” prima di molti altri, grazie al padre di Gwen, quindi era riuscito a
prenotare una stanza doppia in una struttura ricettiva non troppo fatiscente e
senza il rincaro subdolo, da strozzini, generato dal successivamente annunciato
stato di emergenza.
Regnava un confortevole silenzio
tra i due, eppure, il cuore di Gwen non faceva altro che scalpitarle nel
petto e il suo stomaco era un groviglio di rovi spinosi. Era come se qualcosa
dentro di lei captasse un pericolo imminente e vicino, un pericolo che,
tuttavia, era sicura di essere abbastanza fortunata da star scampando. Miguel
la stava portando al sicuro. L’unica persona davvero in pericolo che
conoscesse era suo padre: chiamato ad adempiere al suo lavoro e proteggere il
resto dei cittadini dalla potenziale minaccia, mettendosi in pericolo in prima
persona. Non voleva perdere anche suo padre, non avrebbe retto una simile
ulteriore disgrazia. Pur non avendo il migliore dei rapporti—non parlavano granchè—soprattutto dopo la morte di sua madre, era pur
sempre suo padre… Senza di
lui si sarebbe sentita ancora più spaesata di quello che già si sentiva.
Si voltò per guardare di
sfuggita Miguel, ma lui teneva lo sguardo fisso sulla strada e non ricambiò
l’attenzione. Una mano era sul volante, mentre l’altra era appoggiata su una
coscia scoperta di Gwen e le carezzava la pelle con il movimento continuo del
pollice; bisognava ringraziare l’esistenza del cambio automatico—così in
contrasto con l’idea che si era fatta inizialmente di Miguel.
Il suo tocco caldo le
fece venire la pelle d’oca, ma nessuno dei due osò interrompere l’anticlimatico momento di pace creatosi. Menomale,
pensò per l’ennesima volta in quei minuti di loop mentale, che almeno lui era
lì con lei in quel momento di panico e disordine. Sembrava esserci sempre nel
momento del bisogno, le sue azioni lo avevano dimostrato più volte. Non sapeva
come avrebbe fatto senza di lui a sostenerla nei momenti più difficili, in cui
la sua sola forza di volontà non bastava.
Era come avere un indistruttibile
supereroe personale nella propria vita.
Non potette evitare di
fare un paragone con le altre figure adulte, esterne alla famiglia, che
conosceva e aveva conosciuto nella sua breve vita. No, non c’era
confronto che reggesse: Miguel era la persona migliore che Gwen avesse mai incontrato.
Le sue insegnanti in
Accademia, al contrario, erano l’esempio lampante di tutto ciò che c’era di
sbagliato e problematico nella maggior parte delle persone.
Evidentemente,
si era detta, le due si erano dimenticate cosa volesse dire passare gli anni più formativi per la
loro crescita circondate da un ambiente tanto competitivo e tossico come quello
del mondo della danza classica, del balletto. Oppure, immagine più
crudele, erano convinte che sarebbe servito a forgiare il carattere delle
giovani danzatrici. Dovevano essere convinte che le ragazze si sarebbero
fermate a insulti e tirate di capelli, non a pestaggi veri e propri.
Vivere la propria vita
seguendo principi stipulati da un sistema morale di per sé fallace e
idealizzato come il loro, poteva introdurre a un’unica via: quella della manipolazione—degli
altri e di sé. Del modo in cui si vede la propria persona e ciò che si permette
agli altri di scorgere, a discapito del tangibile dato dall’esperienza.
La sua Accademia di Danza
era come una mela lucida e dall’aspetto succoso che nasconde in realtà la sua faccia
putrida e infetta allo spettatore distratto e perversamente ingenuo.
Perché, talvolta, una
tale indifferenza verso l’applicazione e riconoscenza di una ligia moralità sociale
è sinonimo di crudeltà d’animo.