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Autore: Jason_Trth Hrtz    07/04/2024    0 recensioni
Partecipante alla challenge “WIP spring” indetta da ame tsuki sul gruppo FB Komorebi - fanfiction Italia
La squadrò da capo a piedi con sguardo duro, concentrato e inquisitorio, ma non le chiese nulla direttamente sulla situazione. Le scompigliò i capelli e l’attirò a sé con un braccio. Gwen non si oppose all’abbraccio, al contatto umano di cui, in quel momento, aveva un disperato bisogno. Dopo quello scambio confortante, ritornò alla realtà che stavano vivendo e gli chiese come mai fosse venuto a prenderla. Non era mai accaduto prima di allora: di solito tornava a casa da sola; era abituata a fare molte cose da sola. Miguel rispose afferrandole una mano tra la sua più grande, enorme in verità, e trascinandola vicino alle sue insegnanti. Aveva tirato fuori lo smartphone e aveva messo in play un video girato dal padre di Gwen, ancora in uniforme da poliziotto.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gwen Stacy
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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Partecipante alla challenge “WIP spring” indetta da ame tsuki sul gruppo FB Komorebi - fanfiction Italia

 

 

ATTENZIONE!

Si sconsiglia la lettura alle lettrici e ai lettori troppo giovani e/o sensibili.

È importante usare sempre un proprio senso critico durante la lettura di testi dalle tematiche delicate.

 

 

 

Titolo: For Your Own Sake - Capitolo 1

Ship/Personaggi: Gwen Stacy x Miguel O'Hara

Fandom: Spiderverse

Parole: 3.647

Avvertimenti/Tag: Modern!AU, No Powers!AU, there was only one bed, adulto (34 anni) x minore (14 anni), tematiche delicate, morte, body-shaming, slur, razzismo, grooming (manipolazione di minore da parte di un adulto al fine di abusarne sessualmente. Si è soliti riferirsi a questa dinamica malata principalmente come fenomeno che avviene interamente online o che inizia online e poi si trasferisce anche irl. È però da anni che ormai si tende a riferirsi al “grooming” come un’azione che può anche iniziare ed evolversi irl fin dall’inizio; dipende sempre da caso a caso).

Note: questo è solo il primo capitolo della long. Considerata la tematica, era impossibile per me il solo pensiero di poter condensare tutto in un singolo capitolo. Volevo darmi il giusto tempo per scrivere ogni particolare fondamentale per la storia e questa dinamica al meglio delle mie capacità di scrittura ed emotive. Capirete che scrivere una storia del genere non è certo una passeggiata (almeno per quella che è la mia morale), visto che per me è estremamente importante non rendere pornografici certi argomenti o spettacolarizzarli per “impressionare” il lettore. Deve prima di tutto avere senso nella mia testa, e poi devo fare il possibile per scrivere x dinamica nel modo più rispettoso possibile ma senza edulcorarla o, peggio, romanticizzarla. Non fa proprio parte di me, mi sentirei sporco e irresponsabile al solo pensiero di fare una cosa del genere in una storia come questa (che non vuole certo essere erotica). So benissimo che in giro c’è molto di peggio, ma io non ero e non sono interessato a scrivere quel tipo di storie.

So che probabilmente molte persone non si sentiranno di riuscire a leggere questa storia, quindi, ovviamente, vi invito ancora una volta a non forzarvi.

 

Vi saluto,

        Jason.

 

 

P.S.

Ringrazio @ame tsuki per avermi fatto da beta!

 

 

 



 

FOR YOUR OWN SAKE

 

1

 

Uscì dallo spogliatoio con indosso una maglia più larga di lei almeno il doppio—conservava ancora il sentore intimo di eau de parfum pour homme, agrumato e mentolato come la stagione in cui erano suggeriva—e dei pantaloncini sportivi larghi e appena sopra la coscia. I lacci fucsia erano slacciati sul fronte del cavallo della stoffa elastica dai bordi bianchi spessi.

«E quella? Mhhh…?» le chiese Lauren, una sua compagna di danza più grande di lei di qualche anno. Si lanciò addosso a lei fingendo un abbraccio, ma si mise subito a sniffare l’odore mascolino che il tessuto in cotone bianco custodiva dalla mattina stessa. Samantha (Sammy), un’altra sua compagna, sorella minore dell’altra, usò una delle due mezzepunte per schiaffeggiarle giocosamente i polpacci sodi, al fine di aiutare la sorella più grande a ottenere una risposta da Gwen.

Gwen non rispose, ma le sue guance si colorarono di rosa; quel dettaglio improvvisamente più evidente delle lentiggini che le adornavano il volto paffuto e lo spazio tra i denti quando sorrideva. Scacciò il piede dal collo perfetto della compagna con un po’ più forza del necessario e, per l’ulteriore imbarazzo, si arrotolò con l’indice una ciocca di capelli tinta di rosa—colore che ormai stava sbiadendo, spegnendole i capelli color grano—solo per fermare il movimento un secondo dopo. Continuare avrebbe reso più ovvio il fatto che ci fosse un segreto dietro il suo possedere quella maglia chiaramente non sua. Con un po’ di fortuna, invece, e un po’ di disattenzione altrui, poteva riuscire a far passare quel tic nervoso come un gesto innocuo, come se si stesse spostando i capelli appena asciugati dietro le spalle non più così minute.

Era sempre stata solita portare i capelli corti, erano più facili da gestire e sentiva che rispecchiassero maggiormente il suo modo di esprimere la propria identità, ma da quando… da quando Miguel le aveva fatto quell’appunto su come i capelli lunghi le sarebbero stati meglio, resa più femminile, aveva deciso di non tagliarli mai più e curare la loro crescita. In pochi mesi erano cresciuti a tal punto da riuscire a toccarne le punte con una mano dietro la schiena, in mezzo alle scapole sporgenti. Non intendeva però rinunciare alla sua amata ciocca rosa, non importava cosa avrebbe detto Miguel al riguardo.

Riaccese il cellulare e la connessione dati, così in un battito di ciglia l’apparecchio fu inondato da notifiche di articoli di giornali digitali contenenti le parole chiave per cui lei aveva selezionato una preferenza. Leggendo le prime righe del primo articolo che le capitò sottomano, venne a conoscenza di quello che era accaduto—o quasi accaduto—nel centro del Queens, proprio nel quartiere dove abitavano lei, suo padre e Miguel. Cominciò a sudare, le mani a tremarle. Le sue amiche chiesero cos’avesse così d’improvviso e lei mostrò loro ciò che stava leggendo. Sui loro volti si dipinse la stessa espressione che doveva essere presente anche sulla sua faccia: shock.

Non riuscirono ad approfondire la questione, provando a contattare immediatamente i loro cari, perché una voce che conoscevano bene prese parola alle loro spalle.

«Fai bene a metterti quelle magliette larghe appena possibile, Fatty-Stacy». Quel tono beffardo tipico delle creature nate e cresciute abbastanza a lungo nei quartieri alti di Manhattan le grattò il padiglione auricolare.

«Cosa dovrebbe significare?». Non si sorprese che Lauren fosse ceduta a una provocazione tanto bassa in nome suo, pur probabilmente consapevole di star giocando al sadico gioco di Catherine. Quella ragazza sarebbe stata in grado di far sussultare persino il Diavolo.

Gwen e Catherine erano le uniche due ragazze della stessa età facenti parte dell’Accademia di Danza di Madame Bernard. Avevano persino iniziato il loro percorso di studi lo stesso giorno della stessa settimana, ma quelle similitudini, invece di avvicinarle, l’aveva automaticamente messa sulla lista nera di Catherine Chang. Dedusse presto che all’altra non piaceva avere nulla in comune con nessuno, specialmente “una come lei”; parole della stessa, non di Gwen. E lei, idiota com’era, abboccava alle sue esche ogni singola volta, permettendo alle sue parole di destabilizzarla e ferirla. In passato, Miguel le aveva rimproverato spesso il suo carattere “infantile”, e ne incolpava il padre, ma, con il suo aiuto, era riuscita a controllare quel suo aspetto di sé, a mostrarsi più matura e quindi una sua pari durante le loro conversazioni. La faceva sentire più grande dei suoi quattordici anni, e con ciò, quando erano insieme, le sue insicurezze “infantili” sparivano. Quando però aveva delle ricadute e provava vergogna a confidarsi con l’uomo al riguardo, Gwen sfogava tutta la rabbia e frustrazione inespressa a parole ballando o suonando la batteria—ma Miguel si era lamentato del rumore e infine l’aveva convinta a smettere di suonare, così le era rimasta solo la danza. Per alcuni aspetti, la presenza di Miguel nella sua vita si era rivelata la cosa migliore che potesse capitarle, ma doveva ammettere almeno a se stessa che per altri aspetti, invece, certe volte pensava che la sua influenza e presenza sembrasse averla resa una bomba a orologeria pronta a esplodere in ogni momento. Era come essere sovrastimolata in ogni momento della sua giornata, bastava che pensasse a lui o anticipasse il momento in cui si sarebbero visti e condiviso del tempo insieme.

Alla sua mente piaceva tormentarla in special modo di notte, impedendole di dormire. Sapere di essere da sola in casa, con suo padre sempre impegnato con il lavoro, non l’aiutava a sentirsi meno sola. Era in quei casi che Miguel O’Hara, il loro vicino di casa—abitava qualche appartamento più giù rispetto a loro—e amico storico di suo padre, veniva in suo soccorso. Bastava che gli inviasse un messaggio, anche nel cuore della notte, e sapeva che si sarebbe alzato ad aprirle la porta del suo appartamento. Se il giorno dopo aveva scuola, la invitata con un bacio sulla fronte a infilarsi nel grande letto King Size e tornare a dormire, altrimenti la prendeva in braccio e la posizionava sul suo grembo, petto contro petto e con le gambe a penzoloni, mentre lui continuava al computer la stesura del suo prossimo manoscritto. Pubblicava almeno un libro all’anno. In ogni caso, sentire così da vicino il profumo della sua pelle aveva il potere di farla sentire protetta e confortata. Il fatto che l’essere appiccicosa di Gwen, con i suoi abbracci e lo sfregare delle guance sul suo collo o petto, non lo disturbasse mai, era un fattore che non poteva ignorare. Amava abbracciarlo ed essere abbracciata da lui. Sentiva di poter scomparire in quei suoi abbracci, circondata da mura impenetrabili che l’avrebbero protetta da ogni male del mondo—persino i suoi pensieri più bui.

Ma Miguel non era fisicamente lì in quel momento e non avrebbe potuto aiutarla in alcun modo. Doveva tentare di cavarsela in qualche modo, da sola, e attendere di ritornare a una casa vuota per cercare conforto nelle braccia dell’uomo che non era suo padre ma che ormai considerava una figura analoga.

«Ti sei vista allo specchio, oggi? Avevi la pancia così gonfia che si riuscivano a contare i grammi della pasta che hai avuto a pranzo». Catherine ignorava la ragazza più grande non guardandola nemmeno negli occhi, puntando invece il suo sguardo negli occhi chiari e leggermente lucidi di imbarazzo e rabbia contenuta di Gwen.

Con quella frase, aveva dato inizio a uno sciame schiamazzante di risa da parte del resto dello spogliatoio, tranne di lei e delle sue uniche due amiche.

«Sei una piccola disgraziata viziata, lo sai, vero?» continuò Lauren a denti stretti verso la ragazzina più piccola di fronte a lei, rimasta circondata da alcune compagne costrette per status e conoscenze in comune dei loro rispettivi genitori ad andarle dietro e darle manforte in tutto, persino durante i suoi atti di bullismo.

«Lauren, lasciala stare. Non ne vale la pena, abbiamo altro a cui pensare adesso, dai…» sussurrò Sammy avvicinandosi alla sorella. Le appoggiò una mano delicata sulla scapola e gliela massaggiò al di sopra della stoffa sintetica con un pollice.

«Ehi, pel di carota, non puoi parlarle in quel modo!» replicò una delle tirapiedi di Catherine.

La diretta interessata si limitò ad alzare un sopracciglio e incrociare le braccia al petto, spostando il peso sulla gamba sinistra. Fissava le tre ragazzine come fossero aliene portatrici di malattie infettive.

«Potrei dire la stessa cosa della tua amichetta smorfiosetta mangia riso. Ha iniziato lei» disse tagliente. Posizionò le mani lungo i fianchi e fissò con aria di sfida il gruppetto, arricciò per un millesimo di secondo le narici e irrigidì gli angoli delle labbra all’ingiù.

Gwen sussultò a quella frase a dir poco infelice. Purtroppo, Lauren aveva spesso quelle uscite… poco carine.

Si alzò per dire qualcosa, qualunque cosa potesse interrompere quella escalation di insulti prima che potesse peggiorare, ma quando l’amica scrollò con violenza la sua mano e quella di Sammy dalla spalla sinistra, non ebbe il coraggio di insistere una seconda volta. La vergogna che già provava per il commento riguardo al suo corpo si sommò a quella riguardante la sua codardia infantile—le parole di Miguel le risuonarono in testa come un eco—e questo non aiutò la sua voce arrochita a uscire dalla trappola delle sue corde vocali tese. Quasi non riusciva a deglutire.

Lauren superava tutte loro sia in età anagrafica sia in altezza—almeno dieci centimetri—ma la sua maturità emotiva e autocontrollo sembravano essere stati sacrificati durante lo sviluppo, perché non c’era altra spiegazione credibile per quello che fece di lì a poco.

L’intero spogliatoio trattenne il respiro, in attesa di una risposta fisica o dialettica da parte di Catherine: colei che aveva appena ricevuto un sonoro schiaffo dritto in faccia, e a rovescio. Il sottile anello a forma di infinito, e con piccole pietre di vetro incastonate lungo le curve spesse, che indossava sempre appena finita la lezione di danza, lasciò un visibile marchio sul volto altrimenti pulito dell’altra. Oltre ad avere una guancia arrossata, la sfumatura via via sempre più rosso-viola mal si integrava con il naturale incarnato caldo di Catherine. Sembrava in tutto e per tutto un livido, con un rivoletto di sangue, provocato dall’anello incriminato, a peggiorare il tutto.

Se non era crollata a terra, sbattendo la testa a una delle panchine dalla struttura in metallo e la seduta in legno, era perché le sue tirapiedi avevano attutito e arrestato la caduta. Essere preparata alla caduta non è come cadere, anche per una ballerina.

Pochi secondi dopo, il tempo di toccarsi il volto gonfio e probabilmente pulsante, Catherine aveva abbandonato ogni facciata di superiorità e si era lanciata addosso a Lauren. L’aveva afferrata per i capelli sciolti e ancora umidi, cercando di trascinarla a terra.

All’inizio, la rossa era riuscita quasi a liberarsi dal maltrattamento dei suoi lunghi capelli ricci, perennemente annodati, ma quando le altre si erano aggiunte alla manovra, Lauren era stata inesorabilmente scagliata a terra, calpestata e calciata dal gruppetto di ragazzine. Tutte loro praticavano danza classica e, seppur fossero ancora giovani, le loro gambe erano decisamente più forti e precise nei colpi di quanto lo sarebbero state quelle di loro coetanee che invece non praticavano nessuno sport che comprendesse un uso tanto assiduo e cruciale di gambe ben allenate.

Gwen non potette più tenersi al di fuori della lite, per quanto iniziata per motivi a loro modo nobili.

Si buttò in mezzo alla mischia e si sdraiò di schiena addosso e poi accanto a Lauren, atterrando su un avambraccio, nella speranza che quei brutali colpi venissero distribuiti in ugual misura tra loro due, dando modo all’amica di riprendere un minimo di fiato per, magari, sgusciare via. Poco dopo arrivò anche Sammy—la riconobbe dalle scarpe da tennis dalla punta viola e disegni bianchi fatti a mano dall’amica stessa—che fu contemporaneamente più intelligente e pratica e si mise a spingere le compagne in piedi, cercando di allontanarle e farle smettere l’assalto.

La sua voce stridula dal pianto e dalla disperazione le rimbombò nelle orecchie.

Qualcun’altra di quelle che erano rimaste a guardare doveva aver provato pietà per la loro, oppure giunta alla conclusione che ormai erano pari e non servisse prolungare oltre il pestaggio; si unì a Sammy per cercare di sciogliere la matassa di piccoli ma furiosi corpi.

Solo allora le loro insegnanti arrivarono con finta andatura urgente all’interno dello spogliatoio. Quando era ormai tutto finito.

Gwen sospettava che avessero sentito lo svolgersi della lite, ma che avessero deliberatamente deciso di non intervenire nell’immediato. Il loro tono di voce urgente e le drammatiche espressioni di ostentato ripudio una volta aver compreso fino a che punto si erano spinte le giovani danzatrici tradivano senso di colpa. La ramanzina arrivò solo dopo aver constatato le condizioni in cui Catherine, Lauren e Gwen erano state ridotte.

Non poteva esprimersi per le altre due, ma ogni singolo muscolo del suo corpo doleva. Sentiva la faccia come un palloncino di piombo pronto a scoppiare, dotato di un proprio cuore pulsante e sanguinante—ne sentiva il battito nelle orecchie.

Quando venne chiesto loro, una ad una, cosa fosse successo e come si fossero provocate quei lividi, la prima a rispondere fu proprio Gwen:

«Sono caduta, Madame» disse soltanto. Faceva male persino parlare. Doveva avere lo stomaco ridotto male, contando tutte le volte che era stata colpita senza pietà.

Le due donne, madre e figlia, non sembrarono credere alla sua versione, spostarono quindi la loro attenzione su Catherine:

«Sono caduta, Madame» la copiò l’altra.

Le insegnanti si lanciarono uno sguardo di intesa, ma non indagarono oltre neanche questa volta, seppur visibilmente spazientite. La donna più anziana aveva incrociato le braccia e lasciato porgere le domande dalla figlia—fino ad allora. La schiena era rimasta dritta come un ago, mentre spostava il suo sguardo severo sulla più grande delle tre, probabilmente confidando, o sperando, che scegliesse di dire la verità e affrontare le conseguenze delle loro azioni. Inspirò dal naso e chiuse le palpebre mentre rilasciava un respiro stanco. Decise di prendere la situazione in mano e inquisire personalmente con insistenza, finché Lauren non si limitò a rispondere con:

«Sono caduta, Madame.»

Il suono sordo che colpì la guancia rimasta fino ad allora miracolosamente illesa si propagò tra le file di ragazze, come se ognuna di loro fosse stata colpita dalla mano intransigente dell’anziana donna. Ma Lauren si limitò a riportare gli occhi su quel volto maturo imbruttito dalla collera. La fissò come a sfidarla a colpirla una seconda volta, nonostante una solitaria lacrima fosse costretta a scivolare via a causa dell'impatto e del dolore acuto, tradendo la sua maschera di imperturbabilità.

 

—ooOoo—

 

Quando la maggior parte dei loro genitori, tutori o altresì parenti vennero a prendere le ragazze di cui erano responsabili dall’Accademia—le studentesse avevano avuto mezz’ora di tempo prima che le ore di lezioni fossero ufficialmente concluse per la giornata—e chiesero spiegazioni circa l’accaduto, le due maestre di danza non batterono ciglio e raccontarono loro la stessa menzogna che le tre giovani avevano inventato. Poco importava che Gwen e Lauren avessero lividi su tutto il corpo, sapevano tutti che sia lei sia Sammy e sua sorella maggiore avevano genitori che facevano lo stesso lavoro e che capitasse che fossero assenti anche per giorni consecutivi. Per quanto quei lividi facessero male, dallo specchio nella grande sala da ballo si resero conto che il viso in realtà era stato toccato poco—nulla che in pochi giorni non sarebbe sbiadito e che non si sarebbe potuto coprire con del semplice trucco. I lividi più importanti erano nascosti dai vestiti.

Catherine se l’era cavata con quel singolo livido e sfregio in faccia, quindi, quando sua madre le alzò di poco le maniche e l’orlo della maglietta per controllare che non si fosse fatta male altrove, e constatò che l’unica testimonianza del danno era su quel lato del viso, fu molto semplice credere alla storia della “caduta accidentale in doccia”. Non era raro avere episodi di brevi vertigini dopo una lezione di danza, considerata l’intensità delle stesse a pochi mesi di distanza da uno spettacolo importante. Era successo altre volte che qualcuna fosse scivolata sulle piastrelle delle docce o avesse battuto la testa contro qualcosa mentre recuperava la propria borsa con il cambio di vestiti dopo la lezione.

Quello che Gwen non si aspettava, tuttavia, era la presenza di Miguel in mezzo agli altri adulti.

 

La squadrò da capo a piedi con sguardo duro, concentrato e inquisitorio, ma non le chiese nulla direttamente sulla situazione. Le scompigliò i capelli e l’attirò a sé con un braccio. Gwen non si oppose all’abbraccio, al contatto umano di cui, in quel momento, aveva un disperato bisogno. Dopo quello scambio confortante, ritornò alla realtà che stavano vivendo e gli chiese come mai fosse venuto a prenderla. Non era mai accaduto prima di allora: di solito tornava a casa da sola; era abituata a fare molte cose da sola. Miguel rispose afferrandole una mano tra la sua più grande, enorme in verità, e trascinandola vicino alle sue insegnanti. Aveva tirato fuori lo smartphone e aveva messo in play un video girato dal padre di Gwen, ancora in uniforme da poliziotto.

Nel video, seppur girato mentre si dirigeva a passo svelto verso qualcosa o qualcuno—guardò in camera solo all’inizio e alla fine del video: per iniziare e terminare la registrazione—l’uomo assicurava le due donne che Miguel era un loro vicino di casa e che aveva il suo permesso per andare a prendere Gwen dall’Accademia e portarla in un posto sicuro, lontano dal caos generato nella zona in cui abitavano.

Confermò loro, a Gwen e così a tutte le altre persone presenti nella stanza che stavano involontariamente o meno ascoltando l’audio del video e il trambusto di sottofondo che lo accompagnava mentre parlava, che la notizia trapelata in anticipo su tutti i giornali locali e nazionali di una minaccia di attacco bomba ai danni di un palazzo condominiale situato nel Queens—quello in cui vivevano anche Gwen, suo padre e Miguel—era purtroppo vera e che ciò aveva scatenato un’isteria di massa collettiva. Si premurò di fare le dovute raccomandazioni e contattare i loro cari che potevano trovarsi in pericolo.

 

Gwen non poteva ancora saperlo, ma quella fu l’ultima volta che vide il volto di suo padre, seppur attraverso un video sgranato e dall’audio gracchiante girato nella massima fretta in una situazione a dir poco spiacevole.

 

—ooOoo—

 

Si dirigevano in macchina verso un motel lontano dal centro della città. Miguel aveva ricevuto la “dritta” prima di molti altri, grazie al padre di Gwen, quindi era riuscito a prenotare una stanza doppia in una struttura ricettiva non troppo fatiscente e senza il rincaro subdolo, da strozzini, generato dal successivamente annunciato stato di emergenza.

Regnava un confortevole silenzio tra i due, eppure, il cuore di Gwen non faceva altro che scalpitarle nel petto e il suo stomaco era un groviglio di rovi spinosi. Era come se qualcosa dentro di lei captasse un pericolo imminente e vicino, un pericolo che, tuttavia, era sicura di essere abbastanza fortunata da star scampando. Miguel la stava portando al sicuro. L’unica persona davvero in pericolo che conoscesse era suo padre: chiamato ad adempiere al suo lavoro e proteggere il resto dei cittadini dalla potenziale minaccia, mettendosi in pericolo in prima persona. Non voleva perdere anche suo padre, non avrebbe retto una simile ulteriore disgrazia. Pur non avendo il migliore dei rapporti—non parlavano granchè—soprattutto dopo la morte di sua madre, era pur sempre suo padre… Senza di lui si sarebbe sentita ancora più spaesata di quello che già si sentiva.

Si voltò per guardare di sfuggita Miguel, ma lui teneva lo sguardo fisso sulla strada e non ricambiò l’attenzione. Una mano era sul volante, mentre l’altra era appoggiata su una coscia scoperta di Gwen e le carezzava la pelle con il movimento continuo del pollice; bisognava ringraziare l’esistenza del cambio automatico—così in contrasto con l’idea che si era fatta inizialmente di Miguel.

Il suo tocco caldo le fece venire la pelle d’oca, ma nessuno dei due osò interrompere l’anticlimatico momento di pace creatosi. Menomale, pensò per l’ennesima volta in quei minuti di loop mentale, che almeno lui era lì con lei in quel momento di panico e disordine. Sembrava esserci sempre nel momento del bisogno, le sue azioni lo avevano dimostrato più volte. Non sapeva come avrebbe fatto senza di lui a sostenerla nei momenti più difficili, in cui la sua sola forza di volontà non bastava.

Era come avere un indistruttibile supereroe personale nella propria vita.

Non potette evitare di fare un paragone con le altre figure adulte, esterne alla famiglia, che conosceva e aveva conosciuto nella sua breve vita. No, non c’era confronto che reggesse: Miguel era la persona migliore che Gwen avesse mai incontrato.

Le sue insegnanti in Accademia, al contrario, erano l’esempio lampante di tutto ciò che c’era di sbagliato e problematico nella maggior parte delle persone.

Evidentemente, si era detta, le due si erano dimenticate cosa volesse dire passare gli anni più formativi per la loro crescita circondate da un ambiente tanto competitivo e tossico come quello del mondo della danza classica, del balletto. Oppure, immagine più crudele, erano convinte che sarebbe servito a forgiare il carattere delle giovani danzatrici. Dovevano essere convinte che le ragazze si sarebbero fermate a insulti e tirate di capelli, non a pestaggi veri e propri.

Vivere la propria vita seguendo principi stipulati da un sistema morale di per sé fallace e idealizzato come il loro, poteva introdurre a un’unica via: quella della manipolazione—degli altri e di sé. Del modo in cui si vede la propria persona e ciò che si permette agli altri di scorgere, a discapito del tangibile dato dall’esperienza.

La sua Accademia di Danza era come una mela lucida e dall’aspetto succoso che nasconde in realtà la sua faccia putrida e infetta allo spettatore distratto e perversamente ingenuo.

 

Perché, talvolta, una tale indifferenza verso l’applicazione e riconoscenza di una ligia moralità sociale è sinonimo di crudeltà d’animo.

   
 
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