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Autore: LongJohnSilver    11/04/2024    0 recensioni
[High School - Zombie Apocalypse - Found Family]
I colleghi più anziani l’avevano messa in guardia, in effetti, quando si era proposta di accompagnare le classi dell’ultimo anno nel loro annuale viaggio d’istruzione all’estero.
Era pronta a pecorelle smarrite, cuori infranti, sbornie epocali e amicizie distrutte.
Era pronta a tutto.
A tutto tranne una maledetta apocalisse zombie.

Annie Novak e Benjamin Wilson sono due individui agli antipodi: lei, 26 anni e una laurea in Storia conseguita in tempi record, è un caotico concentrato di ottimismo ed energia; lui, 51 anni e un'introversione quasi patologica, è l'ultima persona che si potrebbe immaginare come insegnante di Arte. Eppure, quando l'annuale Gita di Quinta si trasforma in una lotta per la sopravvivenza, sarà compito di questi due colleghi male assortiti guadagnarsi il rispetto dei loro studenti e portarli alla salvezza.
Fra attacchi di zombie, incontri pericolosi e il gelido paesaggio dell'inverno, riusciranno a dimostrarsi all'altezza del compito e proteggere i loro allievi dai pericoli in agguato?
Ma soprattutto, sapranno mai sanare le ferite del passato che li lega?
Genere: Angst, Generale, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lasciare l’hotel era stata decisamente una pessima idea.
Aveva pensato che le prime ore del giorno, in cui il sole ancora non faceva pienamente capolino dall’orizzonte ma la sua luce era sufficiente a guidare i passi, sarebbero state le ore migliori per tentare un sopralluogo.
Non aveva messo in conto il freddo.
Alle sette e mezza la temperatura era ancora ampiamente sotto zero e sebbene fosse abbastanza coperta da sopportare il gelo senza tanti problemi non aveva pensato allo strato di ghiaccio che ricopriva strade e marciapiedi né alle nuvolette di vapore che si cristallizzavano ad ogni respiro.
Non esattamente l’ideale per non dare nell’occhio.
Era sgusciata fuori dalla porta delle cucine quando la prima lama di luce biancastra aveva fatto capolino nel cielo grigio ardesia e approfittando della penombra si era fatta strada con cautela verso la piazza centrale. Era da lì che si raggiungeva il ponte più vicino ed era sempre lì che in teoria avrebbe dovuto caricarli il pullman granturismo con cui erano stati messi in contatto.
Ci aveva messo venti minuti a percorrere un tragitto che normalmente gliene avrebbe richiesti dieci, un po’ per il ghiaccio che rischiava di farla scivolare ad ogni passo, un po’ per il terrore di essere udita.
Non sapeva se ci fossero davvero quei cosi nei paraggi, ma non aveva certo voglia di scoprirlo con una stupida scivolata in mezzo alla strada. E a dirla tutta non era solo da loro che doveva tenersi in guardia.
Non aveva idea di quante persone fossero rimaste in città, ma era più che certa che al primo passo falso qualcuno sarebbe uscito allo scoperto per approfittarsi della sua ingenuità.
Per questo aveva lasciato la borsa in albergo, per rendere evidente a chiunque avesse potuto vederla che non aveva niente con sé degno di essere rubato. Solo il pesante cappotto termico e i guanti scuri. Persino il cappello di lana era rimasto al sicuro nella sua stanza.
Aveva raggiunto il limitare della piazza intorno alle otto meno dieci, ma un rumore l’aveva fatta sussultare. Era rimasta immobile dietro ai grossi bidoni della raccolta differenziata e per poco non aveva cacciato un urlo: dall’altro lato del bidone, in un lago di sangue, una persona stava rantolando.
Si era portata una mano alla bocca per bloccare il più possibile lo spandersi delle nuvolette di vapore e aveva teso l’orecchio, per cercare di capire se lo straziante gorgoglio fosse l’unico suono, ma non aveva ottenuto grandi risultati.
Piano, pianissimo, aveva spostato il peso sul piede sinistro, lo scricchiolio sotto la suola dello scarponcino coperto dal rantolare ininterrotto, poi si era sporta quanto bastava per ottenere uno scorcio della piazza.
Un’ondata di nausea le era schizzata dalla bocca dello stomaco su fino alle tempie: la neve e il ghiaccio della piazza erano un Kandinskij di interiora, schizzi di sangue sgraziati coloravano il bianco seguendo il percorso che i cadaveri avevano compiuto prima di accasciarsi al suolo. Dall’altro lato del quadrilatero, dove avrebbe dovuto recuperarli il pullman, proprio di fronte all’imboccatura del ponte, le terrificanti creature banchettavano senza fretta con ciò che restava degli uomini straziati.
Aveva abbassato lo sguardo e un singolo occhio si era posato su di lei. Il resto del volto non c’era più, portato via da un morso bestiale. I rantoli non provenivano dalla bocca, ma dalla trachea squarciata.
Doveva essere stato un uomo sulla cinquantina, a giudicare dalla fattura dei vestiti sporchi e dalle mani coriacee e nodose. Il suo occhio spalancato su di lei era azzurro come l’alba e avrebbe voluto salvarlo, ma cosa c’era da salvare? Avrebbe voluto per lo meno risparmiargli l’agonia, ma qualunque rumore improvviso, qualunque variazione nel silenzio avrebbe attirato l’attenzione di quegli esseri abominevoli.
Non poteva concedersi il lusso di essere caritatevole.
Con la nausea che si impossessava via via del suo equilibrio, aveva mosso con cautela un passo indietro salvo accorgersi che la pozza di sangue aveva continuato ad espandersi al di sotto del bidone della spazzatura e aveva raggiunto le sue suole.
Inorridita, aveva fatto un altro passo e il sangue viscido sul ghiaccio l’aveva tradita. Il peso tutto all’indietro sul piede destro l’aveva sbilanciata e per non piombare a terra si era aggrappata al bidone.
Un tonfo sordo nel silenzio.
Era rimasta immobile, congelata nel paesaggio imbiancato dal sangue, il cuore che le pompava nelle orecchie. Sapeva che l’avevano sentita.
Doveva pensare, doveva farlo in fretta.
Lentissima, senza quasi muoversi, aveva impresso una leggerissima pressione alle suole e aveva spinto indietro il baricentro, iniziando a scivolare sul ghiaccio senza fare rumore. Piano, pianissimo, era riuscita a guadagnare qualche metro di distanza dal bidone della spazzatura, abbastanza da raggiungere l’angolo con la via da cui era arrivata. Si era appoggiata al muro in cotto sbeccato del palazzo alla sua destra e si era lentamente alzata in piedi, tutti i sensi in all’erta.
Dei passi si muovevano verso di lei, dei passi che non avevano nulla di umano nella cadenza. Era uno di loro, l’aveva sentita.
Pietrificata, era rimasta accanto al muro, il respiro trattenuto finché non aveva scorto il profilo della schiena della creatura apparire da dietro il bidone della spazzatura. Un istante solo, un rumore raggelante simile a una belva che annusa l’aria, poi la cosa si era avventata sul disgraziato ai piedi del bidone.
Era il momento.
Trattenendo il fiato aveva voltato l’angolo e, aggrappata al muro di mattoni rotti per non scivolare sul ghiaccio, si era allontanata il più velocemente possibile.
Intorno a lei, alle otto del mattino appena passate, l’alba incendiava la neve e scaldava i cadaveri della città.
 







 
La Linea Sottile dell’Orizzonte
 
 
 









L’albergo era un edificio abbastanza vecchio, alto quattro piani e piuttosto stretto. Si trovava all’angolo di una via, ma fortunatamente lo sbocco a sud era barricato da un cantiere e quindi per raggiungere l’ingresso bisognava fare il giro dell’isolato.
Non molto comodo se devi attraversare la città senza perdere tempo, decisamente comodo se devi proteggere l’accesso da intrusi indesiderati.
Il portone principale era stato barricato fino a nuovo ordine ed era solo la porta delle cucine, bloccata da una serratura vecchio stile, a permettere di uscire dal palazzo. Avevano trovato solo due chiavi per quel passaggio, e lei ne aveva presa una.
Adesso, nel tentativo febbrile di aprire la serratura, gli spasmi le rendevano impossibile centrare il buco e la chiave tintinnava in modo sinistro contro il metallo grezzo.
Era per il freddo. I tremori erano dovuti al freddo.
Quando finalmente riuscì a inserire la chiave e il clack del meccanismo le annunciò che poteva entrare, non attese un momento di più e si buttò con tutto il peso sul maniglione a molla, scivolando all’interno e richiudendosi l’uscio alle spalle senza perdere tempo.
Percorse il corridoio che portava alla sala colazioni e gettò uno sguardo veloce all’orologio appeso al muro.
Erano già le otto e mezza.
- Merda. - sibilò.
Sperava che la sala colazioni fosse vuota e invece, in piedi accanto a un tavolino miseramente apparecchiato, c’era l’unica persona che sperava di non incontrare.
- Che ci facevi fuori? - fu il saluto che ottenne.
Ben la fissava a braccia conserte, le maniche del vecchio pile verde sbiadito arrotolate fin sopra i gomiti.
- Scordiamoci il pullman, la piazza è completamente invasa. - si limitò a replicare.
Aprì la zip del cappotto e recuperò un budino da uno dei piccoli frighi, poi andò a sedersi al tavolino accanto a quello occupato.
L’uomo non disse nulla. La guardò attraversare la sala, prendere un cucchiaino e sedersi accanto a lui. Aspettò che aprisse la confezione di budino e che deglutisse la prima cucchiaiata prima di rispondere.
- Annie, avevamo detto che saremmo andati insieme. - c’era una sottile vena di rimprovero nelle sue parole, ma fece finta di non notarla.
Buttò giù un altro boccone e gli sorrise.
- In due sarebbe stato un casino. Mi sono svegliata presto stamattina e ho pensato di risparmiarti la fatica! Tutto tranquillo, a parte la situazione in piazza. Non mi sono fatta niente, rischio zero. - mentì.
Strinse impercettibilmente la presa attorno al cucchiaino e sperò che non si accorgesse che le tremavano ancora le mani.
- Dormito bene? - continuò imperterrita, sperando di deviare l’attenzione dalla sua piccola fuga non autorizzata.
Un rumore intermittente li informò che la macchinetta del caffè era pronta per mettersi in funzione.
- Ne vuoi uno? - le offrì con uno sguardo stanco, ma lei scosse la testa.
- Ho dormito e dormirei ancora. -
Pausa.
- Sarei venuto a chiamarti dopo il caffè. - aggiunse.
Annie abbassò lo sguardo, il senso di colpa che si faceva strada in lei a mano a mano che il gelo dell’esterno si ritirava dal campo di battaglia dei suoi arti.
- Scusa, Ben. - fece a bassa voce.
L’uomo si limitò ad annuire, attese che il caffè fosse pronto e andò a sedersi accanto a lei. I suoi occhi scuri erano cerchiati da occhiaie più profonde del solito, non doveva aver dormito un granché. A quanto pare erano in due a raccontare mezze verità.
Bevve con calma, con i suoi soliti movimenti lenti e pacati e ad occhi chiusi, e Annie si pentì di aver rifiutato il calore del caffè. Solo quando la tazzina fu definitivamente svuotata l’uomo tornò a rivolgerle lo sguardo.
- E così la piazza è andata. -
La ragazza tese le labbra e scavò col cucchiaino gli ultimi rimasugli di budino agli angoli del vasetto.
- Magari poi vanno via. Ma il ponte mi sembra difficile da raggiungere, credo che dalla parte di là dal fiume ce ne siano altri. Non penso che il pullman verrà a prenderci. - ammise.
- Militari? -
Scosse la testa e gli gettò un’occhiata veloce.
- Non ne ho visti. Né in strada, né in piazza. Forse ce ne sono al di là del ponte… In ogni caso non mi sembra una gran bella cosa. -
L’uomo si passò una mano fra i capelli ispidi e sospirò.
- Forse li hanno dislocati. Magari sono al di là del fiume, o nella città nuova. -
Annie si prese un momento per osservarlo. Aveva le spalle curve e i gomiti posati sul bordo del tavolo, e il peso degli anni iniziava a tradirlo dove i corti e disordinati ricci castani si striavano di grigio. Non era nemmeno così vecchio, eppure era come se la vita lo avesse già consumato. C’era una stanchezza in lui che sembrava provenirgli direttamente dall’anima.
- O magari sono morti e basta. - le uscì con un tono più disfattista e cinico di quanto avrebbe voluto.
Ben le sorrise, un sorriso debole, quasi inconsistente. Sapeva che probabilmente era così, ma quella era comunque una notizia che sperava di non dover ricevere.
- Ci abbiamo provato. - commentò rassegnato.
- Ci abbiamo provato. - gli fece eco Annie stringendosi nelle spalle.
La sala colazioni era al piano seminterrato, e solo una sottilissima striscia di luce riusciva a filtrare dall’esterno.
Si chiese perché Ben avesse deciso di fare colazione nella penombra, ma non riuscì a darsi una risposta. Forse semplicemente non voleva arrendersi a far cominciare un altro giorno.
- Se il ponte non si può più usare e il pullman non viene… - esordì, ma Ben la interruppe.
- Sì, dovremo cercare una via alternativa. -
- Bisognerà dirlo ai ragazzi. - considerò lei fra sé e sé ma a voce abbastanza alta perché l’uomo la sentisse.
Quello esalò un lungo respiro dalle narici e annuì ancora, poi diede un’occhiata veloce al suo orologio da polso.
- Sono già le nove meno un quarto. Fai tu il giro delle camere? -
Annie sorrise: quello era il suo modo di dirle che si sarebbe incaricato lui dell’ingrato compito di comunicare ai ragazzi che il pullman era saltato.
- Agli ordini, capo, vado subito! - esclamò, lanciando il vasetto vuoto del budino nella spazzatura e portando il cucchiaino usato sul trolley delle stoviglie sporche.
Ben le porse anche la sua tazzina di caffè e le labbra sottili gli si curvarono in qualcosa di simile a un sorriso.
- Intanto prima delle nove e mezza non saranno pronti… - decretò, strappandole la prima vera risata della mattina.
Annie raggiunse la porta che conduceva alla reception e spinse uno dei due battenti, fermandosi sull’uscio e voltandosi indietro.
- Ti giuro che se riusciamo a tornare a casa sani e salvi col cavolo che mi convincono a fare un’altra gita. -
Un ultimo occhiolino prima di sparire al piano di sopra, poi la porta si chiuse alle sue spalle.
Si incamminò su per le scale fino alla reception, riscaldata dalla prima luce del mattino, passò dietro al bancone dell’accettazione e con una ditata accese il vecchio lettore cd nel quale si ripeteva da una settimana lo stesso disco di musica d’ambiente. Non era un granché e non potevano alzare troppo il volume per non rischiare di attirare l’attenzione dalla strada, ma era meglio che niente.
Si fermò davanti alla rastrelliera delle chiavi e sfilò la numero centosei, quella per la sua stanza. Di una sessantina di camere, solo otto erano occupate e le altre cinquantadue chiavi erano appese ordinatamente in fila come glicini d’ottone.
Si fece coraggio e imboccò la rampa delle scale, pronta a mollare la giacca in camera sua e proseguire la ronda fino al quinto piano.
Dedicò un pensiero fugace a Ben, che probabilmente era ancora al buio ad apparecchiare la sala colazioni per i ragazzi e sentì di non invidiare per niente lo scomodo compito di messaggero di cui si era incaricato.
No, non poteva scaricare tutta la responsabilità su di lui. Sarebbe stato facile, ma sarebbe stato ingiusto: dopotutto avrebbe dovuto spiegare a dodici adolescenti terrorizzati che la loro unica prospettiva di fuga e sopravvivenza a quella catastrofe in cui si erano ritrovati era sfumata nel nulla.
Già riusciva a sentirli, tutti a gridarsi l’uno sull’altro nel tentativo di far prevalere la propria personale isteria.
“Prof, e quindi come ci torniamo a casa?”
Se ci torniamo, puntualizzò fra sé e sé.
I colleghi più anziani l’avevano messa in guardia, in effetti, quando si era proposta di accompagnare le classi dell’ultimo anno nel loro annuale viaggio d’istruzione all’estero.
Era pronta a pecorelle smarrite, cuori infranti, sbornie epocali e amicizie distrutte.
Era pronta a tutto.
A tutto tranne una maledetta apocalisse zombie.
















 
Note:

Salve a tutti!
Questa è la prima fanfiction che pubblico su EFP e appartiene a un genere che amo, ma di cui non ho mai osato scrivere. Possiamo dire che sia una specie di esperimento!
Mi sono sempre piaciute le storie ad ambientazione apocalittica e di tipo survival, ma adoro anche quelle ad ambientazione scolastica e mi sono chiesta come sarebbe stato provare a unire i due generi e mettere la responsabilità del gruppo nelle mani di personaggi che tradizionalmente non hanno molto a che fare con questo tipo di storie.
Non vedo l'ora ovviamente di presentarvi anche il resto degli studenti e di svelare qualcosina di più su questo gruppo disastrato!
Grazie davvero di aver letto questo primo capitolo, se vi ha incuriositi o se avete qualche commento da fare non esitate a recensire! Non vedo l'ora di sapere cosa pensate di questo piccolo esperimento!

Alla prossima,
LJS
   
 
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