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Autore: insiemete    12/04/2024    0 recensioni
Scappare è solo il preambolo di chi vuole vivere una vita che non vale la pena d'esser vissuta.
Per tutto l'arco della sua vita Meadow era stata assolta dalle sue malefatte, qualcuno pagava al posto suo e lei poteva continuare a vivere come se niente fosse. A vent'anni si trovava a gestire così tante situazioni che nemmeno suo padre, uno dei miliardari più importanti del paese, l'avrebbe aiutata.
Costretta a cambiare per non perdere il secondo anno di università, Meadow si ritrovò a fare conoscenza con un ragazzo che l'avrebbe ben presto conquistata ma che nascondeva dentro di sé un grande segreto che, rivelato, l'avrebbe spezzata.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'indomani mi svegliai presto, non più tardi delle sei e mezza e pensai di andare a fare una corsa. Avevo deciso che la mia rinascita non sarebbe stata solo mentale ma anche fisica. Avevo abbracciato il detto: "mens sana in corpore sano", ed ero più di sempre convinta che questa volta ce l'avrei fatta.

Così, indossai una felpa sportiva abbinata a un paio di leggings del medesimo colore Borgogna e uscii all'aria aperta. Mi diressi verso il fiume Connecticut e percorsi un sentiero alberato che si estendeva lungo questo. Dalle fronde degli alberi faceva capolino il sole e creava un divertente gioco di chiaroscuro con le foglie. Percorsi non so quanti chilometri immersa nel silenzio assoluto, ogni tanto rotto dal cinguettare di qualche uccellino. Attraversai un ponte e mi ritrovai al di là del confine, in Vermont. Mi fermai e presi una grande boccata d'aria. Era così pulita che sentii i miei polmoni purificarsi.

Quando dissi a mio padre che mi sarei trasferita in mezzo al nulla, non fu molto felice.

«Dartmouth? Non vuoi stare vicino casa? Ti ho comprato una penthouse vicino alla Columbia.»

Gli dissi che avevo bisogno di rallentare, che volevo stare in silenzio e allontanarmi momentaneamente dal caos di New York.

«E allora preferisci andare in mezzo al nulla?»

«Sì.»

«Perché non Harvard o Yale allora?»

«Sono troppo grandi.»

Rise e chiamò il maggiordomo. Si fece portare il cellulare.

«Che cosa vuoi studiare?»

«Neuroscienze.»

Ricordo come girò gli occhi verso il soffitto e assecondò le mie volontà.

«Tesoro, un giorno erediterai tutto tu. Dovresti iscriverti a legge o economia.»

Feci spallucce e me ne andai sbattendo la porta.

Mi fermai e appoggiai la schiena contro il tronco di un albero. Ero veramente un disastro. Sfilai dalla tasca il cellulare e decisi di comporre il numero di mio padre. Era da un po' che non lo sentivo, ogni qual volta provasse a telefonarmi io gli rifiutavo la chiamata.

Fece tre squilli e al quarto ero intenzionata a mettere giù, ma lui rispose. Avevo deciso di chiamarlo ma non sapevo che dirgli e quando mi domandò come stessi non riuscii a formulare nessuna parola.

«Meadow? Tesoro, mi senti?»

«S-sì» un sibilo uscì dalle mie labbra.

«Allora come stai?»

«Bene,» pronunciai debolmente, «credo.»

«Sono felice. Mi manchi tanto, sai?»

«Sì, anche tu.»

Lo sentii sospirare dall'altra parte del telefono. «Quando verrai a trovarmi? Andiamo a mangiare qualcosa di buono.»

Risposi con il silenzio.

«Cucina orientale, la tua preferita.»

Mi strinse il cuore. Io amavo la cucina orientale, lui invece la detestava. Eppure avrebbe mangiato con me, solo per me.

«Magari più avanti» proruppi a labbra pressate.

«Sì, certamente.»

Lo sentii mugugnare qualcos'altro ma decisi di chiudere lì la conversazione. Sì, alla fine non ci eravamo detti nulla ma almeno lo avevo sentito. A piccoli passi mi sarei avvicinata a lui.

Posai gli occhi sulla foto che avevo messo come contatto a papà: io e lui sulla vetta del Kilimangiaro. Sorridevamo sinceramente, i capelli spettinati incollati al viso madido di fatica, io stretta a lui mentre mi proteggeva dal vento impetuoso. Passai due dita sulle palpebre e asciugai quelle che sarebbero state delle lacrime copiose.

Papà, scusami, ti renderò fiero di me. Lo prometto.

La mattinata passò più lentamente del previsto e faticai a tenere aperti tutti e due gli occhi durante la lezione di neuropsicologia. Non ero solita alzarmi presto la mattina, generalmente impostavo la sveglia un quarto d'ora prima dell'inizio delle lezioni e mi preparavo in fretta e furia, indossando la prima cosa che capitava sotto la mia vista. Perciò, quando oltrepassai la porta dell'aula a gradoni e mi diressi verso i miei amici, questi spalancarono gli occhi.

Mi accomodai tra Mina e Will e aspettai che la smettessero di guardarmi come fossi un leone scappato dallo zoo. Vidi il suo braccio passare attorno alle spalle e picchiettare sulla schiena del ragazzo. Gli mimò qualcosa con le labbra ma Will sembrava non averne capito il significato e si trovò a dire: «Eh?» come se io non fossi lì in mezzo a loro e non mi accorgessi di nulla.

«La volete finire» inveii.

I due si ricomposero subito e dopo qualche istante di silenzio, Mina si avvicinò a me. «Stai bene?» chiese. «Sei arrivata un quarto d'ora prima dell'inizio della lezione e sei vestita come se dovessi andare a un colloquio.»

Abbassai gli occhi sul mio completo viola di Valentino. «Che ha che non va?»

Will e Mina si scambiarono un'altra occhiata confusa, questa volta senza nascondermelo, e abbozzarono un piccolo sorriso.

«Niente,» proferì il moro, «a me piace sinceramente.»

Gli sorrisi e tirai fuori l'occorrente dalla mia cartella. La signorina Folie arrivò allo scoccare delle nove e ci intimò subito di aprire il libro al capitolo cinque. Proiettò una diapositiva contro la lavagna interattiva e intavolò l'argomento.

Non passarono nemmeno cinque minuti che la porta dell'aula si aprì senza permesso. Una chioma castana fece il suo ingresso e non degnò del minimo sguardo la professoressa, che si strinse nelle spalle pronta a riprenderlo. Si avviò su per la scalinata e si accomodò due file più in basso, verso la mia sinistra. Aguzzai gli occhi per mettere meglio a fuoco la figura e non ci misi molto a riconoscerlo. Era il ragazzo della segreteria.

La professoressa si avvicinò, lo guardò dal basso in cerca del suo sguardo, ma lui sembrava ignaro che la sua superiore lo stesse per ammonire. Prese qualcosa dalla tasca dei jeans e se la rigirò tra le dita.

«Le hanno insegnato la buona educazione? Quando si entra in un'aula si bussa e si aspetta l'autorizzazione a entrare.»

Sembrava che non gli importasse minimamente di quelle parole. Picchiettò con il medio e l'indice sul banco.

«E ci si scusa del ritardo.»

Rimase lì, con la testa abbassata, e la professoressa rinunciò a dire altro, avendo capito che da quel ragazzo non avrebbe ricevuto minima risposta. Fece per girarsi e continuare la lezione, ma lui parlò.

«Pazienza.»

Quella parola lasciò sbigottita tutta l'aula e si alzò un brusio generale. Pure io rimasi spiazzata dal modo in cui lo disse, calpestò moralmente l'autorità della signorina Folie.

Prese un foglio dalla cartella e una biro dalla tasca. La portò alla bocca e tirò con i denti il tappo, che rimase lì a penzoloni tra le labbra e l'aria. Si girò verso i suoi compagni e sorrise mostrando una fila di denti candidi come la neve, passò gli occhi lentamente sopra ogni viso e quando arrivò a me sembrò fermarsi per qualche istante in più.

«Esca. Subito!» disse la donna alle sue spalle.

Si voltò lentamente, come se l'aria gli potesse fare del male e posò il suo ultimo sguardo su di lei. Abbassò le palpebre e mise con tutta la cautela del mondo il foglio e la biro nello zaino, lo richiuse e se lo caricò sulla spalla. Fece tre scalini e quando si ritrovò giù fu faccia a faccia con l'insegnante.

«Come vuole» esclamò con strafottenza, sputandole ai piedi il tappo della penna.

Durante quel pomeriggio sembrava non ci fossero altri argomenti all'infuori del teatrino messo su da Elvis Cole. Ogni corridoio, camerata o aula studio parlava di lui all'infinito, come se da secoli non succedesse qualche fatto ben degno di nota nel campus. Persino i miei amici erano interessati alla vicenda e discutevano tra di loro se avesse fatto bene o male a comportarsi così.

«Stai scherzando spero, come puoi difendere un atto del genere?» domandò Mina, prendendo posto su un divanetto di velluto della caffetteria.

«Avrà usato i termini sbagliati, ma se avessi avuto il coraggio l'avrei fatto anche io. Sono stufo di essere deriso dagli insegnanti.»

Will si mise a giocare con la cannuccia del suo milkshake e non degnò di uno sguardo Mina che, invano, continuava a spiegargli che la maleducazione non gli avrebbe portato il rispetto tanto desiderato.

Non davo peso a quella faccenda. L'unica cosa che mi importava in quel momento era capire perché quel cognome mi suonasse tanto familiare. Continuai a sforzarmi di trovare un bagliore nei miei ricordi, ma più ci pensavo, più mi ripetevo "Cole, Cole, Cole" in mente, più mi allontanavo da una possibile soluzione.

La cameriera mi portò la tazza fumante di tè al limone e aggiunsi due bustine di zucchero. Feci roteare il cucchiaino nel liquido e rimasi lì a guardare quel piccolo mulinello per non so quanti minuti. Persistetti a tartassarmi la mente, ma non ottenni nulla. Allora presi il cellulare dalla tasca e controllai se tra i miei contatti ci fosse qualcuno con lo stesso cognome. Frugai anche tra i social ma non trovai nessuna amicizia.

«Secondo me è questa la cosa più strana, non credi anche tu Meadow?» domandò Will.

Mina si portò una mano sotto il mento e sgranò i suoi piccoli occhi orientali. «In effetti, hai ragione.»

«Cosa? Non vi stavo ascoltando.»

Will ripeté e mi ritrovai subito d'accordo. «Sì, non si accettano nuovi studenti a trimestre inoltrato.»

Mina prese una lunga sorsata dalla sua bevanda alla crema e sistemò una gamba sopra l'altra. «E la rettrice non è una donna che scende a compromessi.»

«Magari si era iscritto ma non ha frequentato.»

«Non mi pare di averlo letto nell'annuario» disse lei.

Will cercò qualche altro appiglio per difenderlo ma sembrava a corto di idee. «Avrà cambiato cognome.»

Mina alzò gli occhi al cielo e si innalzò in piedi. Prese un'ultima sorsata dalla tazza e la posò sul tavolino dinnanzi a noi. Ci disse che sarebbe uscita con i suoi genitori quella sera, erano atterrati a New York in mattinata e il loro pullman sarebbe arrivato di lì in mezz'ora. Mi lasciò un veloce bacio sulla guancia e salutò Will con la mano prima di sparire nel corridoio dell'edificio.

«Sarà uno studente di scambio» parlò tra sé e sé.

Estrassi il portafoglio dalla cartella e presi due banconote da dieci dollari. Mi alzai per andare a pagare. «Non è periodo. Oggi offro io.»

Sembrò bofonchiare qualcosa ma ormai mi ero allontanata abbastanza da non essere in grado di comprendere.

Tornata a casa mi liberai di tutti gli indumenti e feci un bagno caldo. Mentirei se dicessi che quella sera e i giorni successivi non ebbi pensato costantemente a una persona che mi ricordava tutto e niente allo stesso tempo.
  
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