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Autore: Nina Ninetta    20/04/2024    2 recensioni
La vita non va mai come ce l'aspettiamo e quando crediamo che tutto sia finalmente finito, che abbiamo raggiunto un po' di pace, ecco che una lettera dimenticata nella cassetta della posta per ben trentasei anni torna a scombussolare l'esistenza di Katia Ricciardi, figlia di don Bruno, sotto scorta da quando aveva solo diciannove anni.
Questo testo partecipa al contest "Una storia di vendetta" indetto da elli2998 e inky_clouds sul forum di EFP
Questa storia partecipa al contest "Challenge a tempo" indetto da rya_2 sul forum Ferisce la Penna
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ʆa Ҭerra Ɣibra
 


 
Katia Ricciardi attraversò i corridoi della prefettura di Trento a testa alta, gli occhi nascosti dietro grandi lenti da sole e le labbra dipinte di rosso. Indossava un tubino nero e calze velate; stivaletti con il tacco quadrato e un pellicciotto di volpe appartenuto alla sua defunta madre. A primo acchito, nessuno avrebbe avuto il coraggio di rivolgerle la parola, eppure più di una persona lo fece, a dimostrazione che lì era di casa.
Quando varcò la soglia dell’ufficio del procuratore distrettuale Salvatore Diomede, annunciandosi dopo un paio di colpi con le nocche.
Salvatore Diomede era seduto dietro la scrivania, le gambe divaricate e la schiena curva su alcuni fascicoli che una giovane collaboratrice gli stava mostrando. Entrambi avevano l’aria assorta.
«Problemi?» Chiese Katia, restando qualche secondo sulla soglia. Il procuratore sollevò lo sguardo, accorgendosi solo in quel momento della donna. «Posso aspettare se-»
«Signora Ricciardi! Prego, si accomodi!» Le rughe sul viso dell’uomo si distesero, mentre le indicava una delle due poltroncine dall’altra parte del tavolo, quindi si rilassò togliendosi gli occhiali da vista per strofinarsi gli occhi stanchi, poi si rivolse alla sua assistente: «Grazie Silvia, continuiamo dopo.»
«Certo, dottor Diomede» rispose impettita questa, raccogliendo le scartoffie sparse sul tavolo e lanciando uno sguardo di sottecchi alla donna che era appena entrata, chiedendosi se fosse davvero la Katia Ricciardi di cui tutti parlavano.
«Silvia?» La ragazza sobbalzò udendo la voce di Diomede. «Puoi riferire agli agenti Stabile e Rocco di raggiungermi in ufficio?»
Come per magia i suddetti agenti si materializzarono sulla soglia della stanza: Mimmo Stabile, un omone di 56 anni, e il giovane sottotenente Antonio Rocco.
«Dottore, cercava noi?»
Diomede sorrise e li invitò a entrare.
Katia iniziò ad agitarsi, nervosa, soprattutto ora che a Silvia era stato detto di chiudere la porta uscendo, lasciandola sola con il procuratore e due agenti. La sensazione era la stessa di sempre: disagio. Nonostante fossero ormai trascorsi molti anni…
«Signora Ricciardi» Salvatore Diomede la chiamò e si voltò a guardarlo. «Lei conosceva un certo Gennaro Capra, detto Gegè?»
A Katia mancò il respiro. Non sentiva quel nome da quanti anni? Venti forse? No, di più.
«Signora Ricciardi» il tono del procuratore era fermo, non voleva si perdesse nei meandri della memoria.
«Sì! Sì, lo conoscevo. Mi fu detto che era partito per un lavoro…» Finalmente Katia si sollevò gli occhiali sulla testa usandoli a mo’ di cerchietto per trattenere i capelli ramati e mossi, lunghi fino alle spalle. Prese coraggio e proseguì: «Perché mi chiedete di lui? È tornato? È un pericolo per me?»
«No, signora» rispose il tenente Stabile, «la situazione è un po’ più complicata». Intanto, Salvatore Diomede fece scivolare verso Katia una vecchia busta ingiallita. Lei la osservò senza il coraggio di toccarla.
«C-Che cos’è?»
«Una lettera, signora» le spiegò ancora il tenente. «È indirizzata a lei, Anna Bruno. Non c’è alcun timbro postale o francobollo, quindi il mittente l’ha imbucata personalmente.»
Anna Bruno: Katia a volte dimenticava il suo vero nome di battesimo.
«Signora Ricciardi» di nuovo la voce profonda del procuratore la distolse dai pensieri. «Ha capito cosa le sta dicendo il tenente Stabile?»
«No, perdonatemi, ma credo di non riuscire ad afferrare ciò che mi state dicendo» la voce le tremava e si sforzò di tenerla salda. Aveva affrontato interrogatori orribili, eppure ogni volta era come smuovere di nuovo tutto, ogni cosa, ogni certezza. La terra vibrava sotto i suoi piedi, facendole perdere quell’equilibrio precario che aveva raggiunto con difficoltà e sacrifici. Ogni volta doveva ricominciare d’accapo, non sarebbe mai finita, l’avrebbero perseguitata per sempre, fin nella tomba.
«La scomparsa di Gennaro Capra fu denunciata dai suoi genitori nel 1988», stava intanto rammentando il sottotenente Rocco. «Perciò stiamo parlando di ben trentasei anni fa. Non è mai stato ritrovato, né vivo, né morto. Ma questa lettera potrebbe finalmente aiutarci a mettere un punto a questa storia.»
«Come l’avete avuta?» Chiese Katia, non riuscendo a distogliere gli occhi da quella cartastraccia.
«Ci è stata fatta pervenire dal comando dei carabinieri di Montecalvo» rispose il procuratore, cogliendo il lampo di paura che attraversò lo sguardo della signora Ricciardi nell’udire il nome del paese natio. «Come sa, dopo l’arresto di suo padre-»
«Non era mio padre da anni» ci tenne a specificare Katia.
«Certo, certo» Diomede si schiarì la gola, dispiaciuto per la gaffe appena commessa e per dover rivangare ancora una volta quella storia. «Dopo l’arresto di Nicola Bruno, le proprietà sequestrate sono divenute demanio statale. Alla sua morte, poiché lei aveva già rinunciato a ogni eredità, la provincia ha deciso di farne una casa famiglia per ragazze madri. Una delle assistenti sociali ha trovato questa lettera nella cassetta della posta, ed essendo a conoscenza della sua storia, ha pensato di consegnarla alla caserma del paese.»
«L’avete letta?» Volle sapere Katia e quando i presenti annuirono quasi si sentì sollevata, forse poteva evitarsi quel supplizio. Peccato si sbagliasse.
«Dobbiamo però porle una domanda, quindi è meglio che la legga anche lei.» Il tenente Stabile le avvicino la lettera ancora un pochino.
Katia Ricciardi – nata Anna Bruno – fissò la busta ingiallita dal tempo e dalle intemperie senza il coraggio di sfiorarla, quasi avesse paura di bruciarsi. E in un certo senso era così. Per trentasei anni quella lettera era rimasta nella cassetta della posta di ciò che una volta era stata la sua casa, perché proprio adesso che aveva raggiunto un po’ di pace nella vita tutto si rimetteva in gioco? Perché Gegè le aveva scritto una lettera e poi era sparito nel nulla? Aveva una paura viscerale di scoprire le risposte alle sue domande, forse perché, in fondo, le conosceva già...
Prese fiato e finalmente si decise ad aprire la busta per estrarne la lettera, la cui calligrafia grossolana, infantile, e la grammatica scorretta dimostravano quanto poco avesse frequentato la scuola l’autore di quella missiva.
La mano le tremò leggendo.
 
 
14 luglio 1988
 
Cara Annuzzella,
probabilmente quando leggerai questa lettera io non ci sono più. Ho un brutto pensiero. Tuo padre mi ha comandato di farmi trovare domani mattina alla cava. Non so perché, ma ho paura di averlo offeso in qualche modo e vuole farmela pagare. Ma forse è solo un pensiero mio. Tu, comunque, se non torno, puoi farmi un piacere? Maria se non mi vede e non mi sente esce pazza, potrebbe pensare che l’ho lasciata per un altro e non voglio che pensa che sono un uomo del genere. Io ci tengo a lei e voglio sposarla, ma prima devo fare un po’ di soldi. Tu, comunque, se non torno, ci puoi parlare? Magari dici che tuo padre mi ha mandato lontano, così capisce. Ma non subito, fai passare qualche giorno o va dai carabinieri e scoppia un casino. Mi dispiace chiederti questa cosa proprio a te che sei la figlia di don Bruno, ma sei pure intelligente e diversa da tutti noi. Vattene appena puoi, scappatene. Io, appena ho la possibilità e i soldi, prendo Maria e me ne vado da mio cugino a Londra. Solo di te mi posso fidare, Annuzzella mia
Con affetto,
Tuo Gegè
 
 
Katia Riccardi abbandonò la lettera sulla scrivania e si alzò per avvicinarsi alla finestra e prendere tempo, riordinare le idee. Soprattutto per gestire le emozioni che volevano sopraffarla. Anni e anni di psicoterapia le avevano insegnato a controllare i sentimenti negativi che volevano trascinarla giù, affondarla. Ciò nonostante, non era semplice: quello era uno scotto che la vita le aveva presentato e che non si aspettava di dover pagare, sebbene avesse ormai dovuto imparare che non bisogna mai dare nulla per scontato. Può succedere che uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede.
I tre uomini si scambiarono occhiate interdette, senza sapere bene cosa fare o dire.
Salvatore Diomede abbassò lo sguardo sulla lettera – che ovviamente aveva già letto – e fin da subito gli era stato chiaro che tra il mittente e il destinatario c’era una grande confidenza, nonché fiducia. Allora cosa era potuto succedere a Gennaro Capra, scomparso nel nulla dalla sera alla mattina? E, soprattutto, cosa ne sapeva di quella storia Katia Ricciardi? Sollevò lo sguardo per osservare il riflesso di quest’ultima sul vetro della finestra: teneva fra indice e medio una sigaretta spenta e gli parve che le tremasse la mano; gli occhi erano vacui, persi nel vuoto.
«Dateci cinque minuti», disse il procuratore rivolgendosi ai due agenti. Il tono era garbato, ma non ammetteva repliche, perciò i carabinieri uscirono dall’ufficio chiudendosi la porta alle spalle.
Salvatore Diomede si accese una sigaretta con tutta calma, quindi raggiunse la donna, fingendosi interessato al paesaggio della città di Trento, in attesa che fosse lei a parlare per prima e questa non esitò, scoppiando in un pianto disperato.
«Sono stata io!» Esclamò. «L’ho ucciso io Gegè!» La donna nascose il volto sulla spalla di Salvatore, il quale la strinse a sé adagiandole una mano sulla testa.
«Va tutto bene, Anna. Ci sono io, va tutto bene» le sussurrò.
 
Quando Salvatore Diomede era ancora un giovane avvocato e lavorava per il procuratore distrettuale dell’epoca, pensò di non aver mai incontrato una ragazza più bella, indifesa e coraggiosa di Anna Bruno, la famosa figlia di uno dei boss più pericolosi e potenti della Calabria; la quale, ancora diciannovenne, aveva chiesto protezione allo Stato in cambio di informazioni importanti. Entrò così in un programma di protezione e fu portata al nord, in un paesino di montagna dimenticato da Dio. Le fu data una nuova identità e cominciò fin da subito a collaborare con la giustizia, smantellando in pochi anni un sistema mafioso impenetrabile. Anna Bruno, che per tutti diventò Katia Ricciardi, si trasformò nell’emblema del coraggio e del cambiamento di fronte alla malavita.
Salvatore allora aveva ventotto anni, si era laureato a pieni voti in giurisprudenza e stava studiando per un master in criminologia, mentre faceva tirocinio presso l’ufficio della procura che seguiva il caso nazionale e delicatissimo della testimone per eccellenza. Tra i due il feeling fu immediato e ne scaturì inevitabilmente una sincera amicizia: erano entrambi giovani, belli e trascorrevano la maggior parte del tempo insieme, in una casa persa nel bosco e con una voglia pazza di fare progetti per il domani. Una sera, mentre condividevano una pizza, Salvatore le aveva chiesto cosa l’avesse spinta a costituirsi. Anna gli aveva raccontato che era stata la paura di un futuro lugubre a darle la forza di fuggire. Una mattina aveva sentito i suoi genitori parlare di un eventuale matrimonio di convenienza non appena avesse finito la scuola. Ma lei voleva laurearsi, voleva andare via da quella prigione che era il suo paese nell’entroterra calabro e dalla sua famiglia. In poche parole, voleva vivere. Così, subito dopo il diploma, aveva riferito ai suoi la volontà di recarsi a Salerno per continuare gli studi. Suo padre però si era opposto, affermando che aveva già pronto un matrimonio coi fiocchi che avrebbe rafforzato i commerci nelle piazze del sud Italia. Dopo una settimana si era presentata in caserma.
Forse Salvatore Diomede si era innamorato di lei in quel momento di intima confidenza, forse l’amava già da prima.
Anna era considerata da tanti un modello da seguire, veniva descritta come una donna forte, e lo era, ma ciò non significava non aver avuto attimi difficili, di estrema solitudine e alienazione. Come quando le avevano riferito che sua madre era deceduta dopo una lunga malattia. Erano trascorsi otto anni dalla sua decisione di partire e nessuno, mai, le aveva detto che sua mamma si era ammalata da qualche anno. In quei giorni, molto probabilmente, avrebbe violato gli accordi di protezione pur di presenziare al funerale; avrebbe mandato all’aria anni di sacrifici e tutti gli obiettivi raggiunti, se al suo fianco non ci fosse stato Salvatore. Erano diventati amanti, è vero, senza tuttavia considerarsi una vera coppia, giacché non avevano mai potuto viversi la relazione in maniera normale. Troppo pericoloso per entrambi. E, a lungo andare, il sentimento era scemato, trasformandosi in una bella e ancor più profonda amicizia. Eppure, nessuno dei due era riuscito ad andare oltre, a formarsi una famiglia. Lei perché non poteva godere di una vera libertà; lui perché l’amava in un modo che non aveva mai più provato con nessun’altra donna, nonostante avesse avuto negli anni relazioni più o meno importanti.
 
Quando la crisi di pianto si placò e Katia tornò in sé, Salvatore le propose di andare a pranzo insieme e, se avesse voluto, avrebbe potuto raccontargli di Gennaro Capra.
«Come ai vecchi tempi?» Sorrise mesta Katia.
«Come ai vecchi tempi» ripeté Salvatore.
Così, intorno alle due del pomeriggio, si accomodarono l’uno di fronte all’altro in un’antica trattoria fuori città. Un luogo sicuro e appartato, lontano da occhi indiscreti, che li aveva visti più volte consumare un pasto insieme. Mentre aspettavano ciò che avevano ordinato, Katia iniziò a ricordare gli anni trascorsi a Montecalvo, soffermandosi in particolare sulla storia di Gennaro Capra, Gegè per gli amici.
 
Allora Anna aveva solo quattordici anni e una cotta pazzesca per Gegè, di ventidue. Suo padre, don Bruno, aveva incaricato il giovane di farle da guardia del corpo, ma lei si era perdutamente invaghita di questo bel ragazzo dal colorito abbronzato e i capelli ricci, scuri, dai modi spiritosi e gentili. Un giorno, mentre erano al mare, Gegè le raccontò di Maria, una ragazza conosciuta in discoteca e di cui si era innamorato, confidandole l’intenzione di sposarla e fuggire da quel misero paese. Ad Anna era mancata la terra sotto i piedi. Una sera, durante una festa sulla spiaggia, Anna lo aveva baciato sulla bocca. Gegè, però, si era sottratto a quella dimostrazione di affetto, spiegandole che era sbagliato ciò che diceva di provare per lui, il quale era un uomo e lei soltanto una bambina. Le voleva bene, certo, le era affezionato poiché la reputava una persona importante nella sua vita, l’avrebbe protetta per sempre come un fratello maggiore fa con la sorellina, ma l’Amore, quello con la A maiuscola, che unisce un uomo e una donna, era un’altra cosa.
Anna si era sentita sprofondare in un pozzo senza via d’uscita. La gelosia e la morbosità nei confronti di Gegè le annebbiarono la mente per giorni, poi accadde qualcosa di ancora peggiore: scorse Gegè e Maria baciarsi appassionatamente. Quel bacio, quel contatto fisico fatto di labbra, lingua e mani che stringevano l’uno al corpo dell’altra, avevano sortito sulla sua psiche l’effetto di uno shock. Accecata dall’ira era corsa in lacrime dal padre, proferendogli la più vile menzogna della sua vita: Gegè l’aveva toccata…
Il genitore, ovviamente, era andato su tutte le furie: nessuno avrebbe dovuto mancare di rispetto a un membro della sua famiglia, figuriamoci a sua figlia quattordicenne!
Due giorni dopo Gennaro Capra era sparito nel nulla.
 
Alla fine del racconto, Salvatore Diomede rimase assorto a elaborare le informazioni. Per questo motivo Katia parlò per prima, aveva smesso di piangere, ma gli occhi erano ancora gonfi e arrossati.
«Nulla da dire?»
«Credi che Gennaro Capra sia stato ucciso?» Domandò il procuratore. Katia annuì con il capo. «E che l’omicidio sia avvenuto alla cava e poi sepolto lì?»
«Era il loro modus operandi
«Prima di oggi, non ti è mai venuto il dubbio che tuo padre l’avesse fatto ammazzare?»
«No, credevo lo avesse mandato via per allontanarlo da me, così come mi aveva detto. Semplicemente gli ho creduto.»
«Forse perché ti faceva comodo credergli» il tono dell’uomo era perentorio.
«Ero solo una ragazzina» si giustificò lei.
«Che ha avuto la lucidità di dire una bugia, sebbene sapesse che avrebbe avuto delle conseguenze.» Salvatore si sporse in avanti, le mani intrecciate sulla tovaglia. «Perché l’hai fatto?»
«Volevo vendicarmi», la donna tirò su con il naso, senza il coraggio di alzare lo sguardo. Scavarsi nel profondo dell’anima non era mai cosa facile. «Gegè mi aveva respinto e si era messo con un’altra. Inoltre, mi aveva confessato il suo desiderio di andare via, di lasciarmi. Non potevo sopportarlo!» Katia guardò Salvatore dritto negli occhi. «E volevo allontanarlo da Maria, separarli. Forse per far sentire loro come mi ero sentita io: rifiutata. Tradita.»
Diomede tornò con la schiena dritta e sospirò:
«Diversi anni fa fu ritrovato uno scheletro murato nelle pareti della cava citata nella lettera. Allora non si pensò che potesse essere Capra, ma domani dovrò avviare le pratiche per la riesumazione e gli esami forensi.»
«Lo capisco.» No, in realtà Katia non capiva perché dopo trentasei anni quella storia era tornata a galla, ma la vita non va mai come ce l’aspettiamo, giusto?
«E comunque non l’hai ucciso tu, quindi smettila di sentirti in colpa per ogni azione compiuta da Nicola Bruno.»
«Ma se non avessi detto quella bugia?» Katia riprese a piangere sommessamente e di nuovo Salvatore si allungò in avanti per asciugarle il viso.
«Ognuno di noi compie azioni che possiamo scegliere di fare o meno. Hai mentito, è vero, ma non sei stata tu il mandante. Ok?»
«Ok…» la voce della donna era un bisbiglio. «Mi disprezzi per ciò che ho fatto?»
«Non potrei mai disprezzarti, lo sai. Conosco ogni singolo giorno dei tuoi ultimi trentuno anni. Ogni demone contro il quale hai dovuto lottare e ancora oggi, nel guardarti, mi stupisco e mi chiedo se io avessi mai avuto la tua stessa forza.» Salvatore Diomede continuava a sfiorarle gli zigomi con i polpastrelli. «Eri solo una ragazza e adesso sei una donna bellissima, indipendente e libera.»
Il cameriere li interruppe scusandosi mille volte, mentre porgeva loro due porzioni di lasagna Salvatore e Katia furono obbligati ad allontanarsi l’uno dall’altra. Quindi si sorrisero assaporando il primo boccone.
«Hai impegni per stasera?» Gli chiese Katia, fingendo che fosse una domanda come un’altra, eppure entrambi sapevano che nascondeva un mondo dietro. Il loro.
«No, qualche idea?»
«Al cinema danno un film su Amy Winehouse» Katia sollevò le spalle con finta superficialità. «Mi sembra interessante.»
«Alle otto sotto casa tua?»
«Alle otto sotto casa mia».


 
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