“Arrivati a questo punto, non si torna più indietro” – le dissi con un
filo di voce, senza guardarla negli occhi. Semplicemente non ne avevo il
coraggio.
A quelle mie parole, seguii il silenzio. Non so precisamente quanto
durò, non contavo i secondi, ma i suoi respiri. Ne fece tre, molto profondi,
lenti. Quei respiri che solitamente fai prima di dire qualcosa di importante, di difficile o, semplicemente, quando non
vorresti dire niente.
“Perché allora non ce ne stiamo un po’ qui, fermi, a goderci il
momento?” – mi rispose dopo il terzo, interminabile, sospiro.
“Potremmo rimanere qui anche tutto il giorno, ma tanto lì, prima o poi,
dovremmo andarci.” – replicai secco, indicando lo spazio che si estendeva
davanti a noi. Immenso.
“E’ triste.”
“E’ dannatamente triste. E maledettamente giusto.”
Non ho mai saputo bene il significato di giusto. O meglio, io ho inteso
sempre il significato di giusto come quello di buono, bello, interessante. Chi
può dire cosa è giusto e cosa non lo è? C’è per caso un manuale che lo spiega?
Qualche libro, una videocassetta, un dvd per bambini? Non ho mai avuto niente
di tutto ciò, però un’idea ero riuscito a farmela. Ho sempre sorriso nel
sentire frasi del tipo “Ho fatto la cosa giusta” oppure “E’ stato giusto così”.
Mi sono sempre sembrate frasi incomplete. Frasi a metà. Giusto, certo, ma per
chi? Io quelle frasi ho sempre cercato di completarle: “Ho fatto la cosa giusta
per me”, “Per te, è stato giusto così”…sempre, ma non quel giorno. Non c’era bisogno
di completarla quella frase. Questa volta, andava bene così.
“Secondo te, perché siamo arrivati fino a qui?” – mi chiese, dopo una
pausa ancora più lunga della precedente.
“Sono giorni che me lo domando anche io. Eppure non riesco a trovare niente
di sbagliato in quello che ho fatto. Ogni singolo momento, ogni singolo gesto,
io lo rivivrei daccapo, lo rifarei nuovamente con ancora più convinzione. Non
rinnego niente, se è questo che vuoi sapere. Probabilmente, non abbiamo
sincronizzato gli orologi. Ecco perché siamo qui.”
“Spiegati meglio.”
“Una volta, un po’ di tempo fa, pensavo che esistessero solo persone
giuste e persone sbagliate. Per dirla facile, non credevo nel destino. Ho
sempre pensato alla fortuna, al fato, come un’invenzione dei perdenti, come una
scusa. Un po’ come Dio. Basta guardarti intorno per vedere gente che si lamenta
con Dio, discute, litiga, impreca. Pur di non accettare l’idea di aver fallito,
danno la colpa a Dio. Ecco, la fortuna è il Dio degli atei. Chi si è sempre professato
un non-credente, non poteva certo permettersi di dare la colpa a Dio, no?
Sarebbe stato ridicolo. E allora ecco che entra in gioco la fortuna, il
destino, una forza oscura che non si può comandare. Mi è sempre sembrato
ridicolo che Dio, o questa fantomatica fortuna, fossero etichettati solo come
causa di una sventura, o di una tragedia. Mai un ringraziamento, mai una lode. Non trovi sia strano?”
“Vai avanti.”
“Beh, insomma, per farla breve, io prima non credevo in tutto questo. Poi
ho incontrato te. O meglio, ti ho incontrato di nuovo. E questo mi ha fatto
pensare. Mi dicevo che, probabilmente, non ci eravamo mai persi, che era stato
un gran colpo di fortuna ritrovarsi per caso, che forse Dio, il destino o chi
per loro, mi aveva fatto un grosso regalo. Mi sono trovato improvvisamente a
pronunciare frasi neanche mai pensate. Non che non credessi in Dio, ci
mancherebbe, ma non gli ho mai chiesto niente, se non di proteggere le persone
a cui volevo bene. E allora mi sono ricreduto. Non parlo ancora di fortuna o
sfortuna, di aiuto o punizione divina, sono ancora convinto che gran parte
della nostra vita stia nelle nostre mani. Però riconosco che esiste qualche
forza misteriosa che ogni tanto ci mette lo zampino, magari per creare situazioni
apparentemente impossibili. Poi, sta a noi sincronizzare gli orologi.”
“Ho capito il tuo discorso, ma che cosa c’entrano questi benedetti
orologi?”
“Vedi, per come la penso io, prima o poi noi ci saremmo dovuti
incontrare di nuovo. In un modo o nell’altro, questa forza misteriosa avrebbe
nuovamente incrociato le nostre vite. Tuttavia, il quando, il dove, il come e
il perché non era scritto da nessuna parte. Probabilmente, dovevamo deciderlo
noi. A quanto pare, però, non lo abbiamo deciso nello stesso momento. Uno ha
anticipato l’altro, oppure qualcuno è arrivato troppo tardi rispetto all’altro,
non lo so di preciso. So solo che siamo arrivati sfasati, a orari diversi.
Diciamo un po’ come la persona giusta al momento sbagliato. O la persona sbagliata
al momento giusto. Quello che so, è che non credo che nessuno di noi abbia
particolari colpe, se non quella di non aver controllato bene il proprio
orologio.”
“Non so cosa dire. Non vorrei essere banale,
non vorrei essere patetica, non vorrei essere spietata. Anzi, se devo essere
sincera, non vorrei nemmeno essere qui. Vorrei essere lì.” –
e indicò un punto lontano, alle nostre spalle. Un posto che avevamo
passato poco tempo prima. Insieme.
“Se solo potessi, ti riporterei lì di corsa.
Immediatamente. Mi accontenterei anche di andare avanti guardando fisso lì –
risposi indicando a mia volta il punto di cui lei parlava – ma, lo sai meglio
di me, non sarebbe giusto. Non nascondo che ne sarei felice, almeno per un po’.
Ma non sarebbe giusto.” – e anche qui, non ci fu il bisogno
di completare la frase.
“Io non so dove andare. Non c’è un sentiero, non c’è una strada, non c’è
niente di niente. Come faccio a essere sicura di non perdermi?”
“Tu non ti perderai, stai tranquilla. Mi ricordo quando abbiamo iniziato
questo cammino. Eri insicura, inciampavi su ogni masso, su ogni radice fuori
posto. Ti perdevi tra gli alberi. Sei riuscita a
perderti anche mentre seguivamo il fiume, ti ricordi?”
Non mi rispose. Fece solo una piccola smorfia con il viso, una smorfia
di approvazione mista a imbarazzo. E allora io continuai:
“Più andavamo avanti, però, e più ti ho vista sicura,
decisa, determinata. Senza che te ne accorgessi, hai iniziato a saltare
i massi, evitare le radici, imboccare senza paura anche i sentieri più oscuri.
Forse non te ne sei accorta, ma alla fine, sei stata tu che hai guidato me. Sei stata tu a portarmi fin qui.”
La vidi pensierosa. Non capivo se non sapesse bene cosa dire o se stesse
ancora assimilando le mie parole. Poi, all’improvviso, col suo sorriso
migliore, quello più bello, quello più dolce, quello che tante volte mi ha
fatto perdere la testa, mi guardò e mi disse:
“E ora?”
A quel punto le sorrisi anch’io, e risposi:
“Arrivati a questo punto, non si torna più indietro.” E, prendendola per
mano, la spinsi un’ultima volta verso il suo cammino.