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Autore: pomal    20/09/2009    1 recensioni
le sensazioni che si possono provare in un aeroporto..
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            No. Non era cosi che me l’ero immaginato. Anche se mi sarei dovuto immaginare che sarebbe finita così. Ma mi conosco. Purtroppo.

            Fa freddo. Un freddo insolito per una sera di fine settembre. Forse l’aria condizionata è un po’ alta, forse i brividi sono una logica conseguenza dei miei pensieri, ma resta il fatto che fa freddo. Un fottuto freddo. E io non ho che le mie braccia per coprirmi.

            Eccomi qui. Sono da solo, tremolante su una sedia, fredda anche quella, del Terminal 1, lì dove tutto è iniziato, o forse non è mai cominciato. Non so cosa mi aspetta aldilà di quel tunnel che porta dritto verso l’aereo, ma so cosa mi aspetta aldiquà. E questo basta e avanza a non farmi tornare indietro.

            C’è poca gente, di sera. Pochi rumori, poche parole. Solo qualche valigia che si lascia trascinare ogni tanto, ma niente di più. Nessuno che urla, nessuno che corre, nessuno che si agita. La voce dell’altoparlante ogni tanto rompe il silenzio, quasi con discrezione, quasi non volesse disturbare più di tanto. Quasi non volesse rompere la magia di quella calma. E io in quel silenzio, in quella calma, mi ci ero proprio tuffato. Anzi, non aspettavo altro. Erano stati troppo frenetici gli ultimi giorni per i miei gusti, neanche un attimo per fermarmi a pensare, neanche un secondo per capire cosa stessi facendo, dove stessi andando, da chi stessi scappando. Perché fondamentalmente c’è sempre qualcuno o qualcosa da cui scappare. Oppure qualcuno e qualcosa. Oppure si scappa e basta, perché è meglio così.

C’è ancora molto tempo prima che l’altoparlante, sempre discretamente, annunci che è il mio momento. E allora resto qui, seduto nella mia sedia fredda, braccia conserte, sguardo perso e iPod nelle orecchie. Perché è qui che devo trovare le mie risposte, e da nessun’altra parte. Il problema principale, però, è che non so se ho le domande giuste da pormi. Vorrei evitare di fare la figura del cretino almeno con me stesso. Non vorrei avere una brutta impressione di me. E allora prendo tempo, mi guardo intorno, studio gli altri, mi immagino le loro storie e ogni tanto sorrido. A che punto sono arrivato. Costretto a dover prendere tempo anche con me stesso. Stiamo messi proprio male.

Chiamami, altoparlante, chiamami.

Ma poi ci pensa il mio iPod, e bastano due note per farmi avvolgere dai pensieri, dalle immagini, dai ricordi e dalle domande. E anche qui rido, tanto. Di me, principalmente. Delle coincidenze, ogni tanto. Della codardia, beh…quella è una storia a parte. Perché forse è quando ci sono più dubbi che certezze che è meglio lasciar perdere. Perché quando è così, anche quelle poche certezze diventano dubbi. E lì non ce n’è per nessuno. È un momento e…puff! Non sai più da che parte andare, non sai più da dove sei partito, non sai più dove devi arrivare. Sei in alto mare e non hai una bussola. Ma hai un gran mal di mare, in compenso. No, meglio lasciarli per strada, i dubbi. Meglio non farli attraversare la porta di quel gate con me, altrimenti è la fine. Li lascio qui, su questa sedia fredda, dove sono nati, sperando che anche qui muoiano. Ma non li voglio più con me. E devo andare via di fretta, prima che mi si appicchino di nuovo alle caviglie per non lasciarmi partire da solo.

            Chiamami, altoparlante, chiamami.

            Vibra il cellulare. Il messaggio che non aspettavo. Come mi aspettavo, d’altronde. Rispondo velocemente, senza dare un senso o un peso preciso alle parole. Devo prima riuscire a dare un senso a quello che ho in testa. E sorrido di nuovo. Pensavo di essere in balia degli eventi, invece ero in balia di me stesso. O meglio, delle mie aspettative. Sbagliate, come succede da un po’. Potrei farmene una colpa, ma non lo faccio. In fondo, le mie aspettative erano anche i miei sogni. Sarebbe stato ingiusto non inseguirli. Alla fine, sono loro che mi hanno portato fin qui. Sono loro da cui voglio scappare, almeno per un po’. Bisogna prendersi una pausa, ogni tanto, perché altrimenti a rincorrere sempre ci si stanca. Facciamoci rincorrere, qualche volta. Ricordo quando ero bambino e giocavo a nascondino. Non sopportavo contare più di due o tre volte. Era snervante essere alla continua ricerca dei miei amici e non trovarli. Ecco, era già da qualche turno che stavo contando, senza riuscire a trovare niente. Ora era il mio turno per nascondermi. E non potevo scegliere nascondiglio migliore. Se solo si iniziasse a giocare…

            Chiamami, altoparlante, chiamami.

            Ho un foglietto nel portafoglio. Si parla di onestà. E, per l’ennesima volta rido, da solo. È una fortuna che ci sia poca gente, altrimenti mi avrebbero già sicuramente dato del pazzo. Onestà, quindi. È imbarazzante come le persone si riempiano la bocca di questa parola. Senza, probabilmente, saperne neanche il significato. Come il coraggio. Onestà e coraggio. È per questo che sono qui. Mi ci hanno portato la prima volta, e pensavo fosse una specie di premio. Mi ci hanno portato adesso, quasi a ricordarmi che no, ancora non è tempo di premiazioni e foto ricordo. Onestà e coraggio. È per questo che vado via da qui.

            Chiamami, cazzo, fottutissimo altoparlante, chiamami.

            La musica continua a suonare, senza sosta, nelle mie orecchie. Adrenalina per i miei pensieri. Come se ne avessero bisogno. Li vedo attorcigliarsi nella mia mente, senza nessuna possibilità di replica. Vi è mai capitato di provare a districarvi tra degli auricolari completamente girati e rigirati su se stessi? Avete davanti una sequenza tanto precisa quanto casuale di nodi, dai più piccoli ai più grandi, e non sapete da dove partire per ritornare ad avere il vostro filo ordinato, lineare, coerente. E allora partite a caso, sperando di trovare con un po’ di fortuna la via d’uscita più rapida. I più fortunati se la possono cavare anche in pochi secondi, ma non è il vostro caso… Voi restate lì a lottare col vostro filo, tirando da tutte le parti senza una particolare logica e con una forza sempre maggiore, ma non riuscite proprio a uscirne fuori.

Io, con i miei pensieri, faccio più o meno lo stesso. Vorrei srotolarli tutti, ordinarli e analizzarli. Vorrei guardarli in faccia, uno ad uno, e affrontarli. Ma per adesso in testa ho solo una fottuta massa uniforme di immagini sfumate. Contorte. Incomprensibili, insomma. E più cerco di dispiegarli, più perdo la pazienza. Virtù rara, di questi tempi.

Tempo fa mi sarei arreso. Avrei continuato per la mia strada portandomi dietro questa massa enorme senza fiatare, senza disturbare e senza essere disturbato. Ma adesso no. Ho tutto quello che ci vuole. Ho la pazienza, ho la voglia e, a quanto pare, ho anche il tempo, dato che quel maledetto altoparlante sembra essersi dimenticato del mio volo. E allora continuo a provare come quando, con i tuoi auricolari, non demordi e pazientemente provi a sfilacciare prima quel nodo e poi quell’altro, senza fretta, maneggiando con cura i mille fili che ti penzolano davanti. Tanto, alla fine, tu lo sai che di quei fili ne rimarrà solo uno. Ordinato, lineare, coerente. E allora bastano pochi altri tentativi e…tac! Hai di nuovo i tuoi auricolari. Come nuovi.

Così io, con un po’ di tentativi e qualche traccia del mio iPod, avevo di nuovo i miei pensieri. Li guardavo negli occhi, e non avevo paura.

In fin dei conti, li conosco bene. E loro conoscono bene me. Non era per niente un confronto facile. Immaginate di dover entrare in un campo da tennis con un avversario che conosci a memoria e che ti conosce a memoria. Ne uscirebbe sicuramente una continua lotta sui tuoi e sui suoi punti deboli, sulle tue e sulle sue paure, sulle tue e sulle sue insicurezze. Insomma, non un granché da vedere. La cosa migliore, però, è che alla fine vince chi ha meno paura. E io di paura ne ho ben poca. O meglio, ho paura di quello che troverò aldilà di quel cazzo di tunnel, ma sicuramente non di quello che si trova aldiquà. Non possono spaventarmi sguardi, gesti, illusioni. Non posso essere sconfitto da parole e promesse. Potrei perdere un set, ma non tutto il match.

“Niente da capire”, canta De Gregori nella mia testa. Ma io qualcosa l’ho capita, forse. Ho capito che scappare per essere qualcosa di nuovo è la cosa peggiore che si possa fare. Perché le maschere, prima o poi, ci si stanca di portarle. Io voglio scappare per essere qualcosa di migliore. Ho capito che scappare per dimenticare, per lasciare scorrere e per archiviare è come scrivere a metà, disegnare a metà. Vivere a metà. Perché il coraggio di andare fino in fondo, in ogni momento, in ogni situazione, ce l’hanno davvero in pochi. E io voglio imparare ad averlo. Io voglio scappare per tornare. Per poi scappare e poi ritornare. Perché aldiquà di questo tunnel, in fondo,ci sono stato bene. E ci starò bene. Ma, a quanto dicono, anche aldilà in fondo non si sta tanto male. Perché non provarci, quindi?

Peccato che ancora il mio volo sembra non esistere.

            Chiamami, altoparlante, chiamami.

            Peccato perché, come già detto, bastano due note a cambiare volto a tutto. E con quelle due note i pensieri hanno lasciato posto ai ricordi. Che sono notoriamente più bastardi. Perché i pensieri li pensi, i ricordi no. I pensieri li cerchi, i ricordi ti raggiungono. I pensieri, se ti va bene, li affronti. I ricordi, se ti va bene, ti affrontano. Se invece ti va male, ti demoliscono. E lì non c’è tunnel che tenga, non c’è fuga che aiuti, non c’è altoparlante che ti salvi. Bastardi, i ricordi.

Istintivamente, guardo l’orologio. E il tempo sembra essersi fermato. Brutto segno. O almeno così poteva sembrare. Perché stasera non ho per niente voglia di uscire sconfitto, da niente e da nessuno. E allora mi metto comodo e, dopo aver passato un po’ di tempo coi miei pensieri, mi metto a osservare anche tutti i miei ricordi, come fossi al cinema. Mancano la coca-cola e i pop-corn, e poi sarebbe perfetto. È inutile scappare, tanto. Non avrebbe molto senso, almeno arrivati a questo punto.

Non è uno dei migliori film che abbia mai visto, onestamente. Sarebbe troppo facile se uno se li potesse scegliere, i ricordi. Ne uscirebbero tutti film da Oscar o da Palma d’oro. Mentre il film che ho davanti io avrebbe potuto vincere al massimo la Quercia di plastica. Ma forse è anche per questo che non me ne perdo un fotogramma. Gran bei bastardi, i ricordi. Peccato, però, che non riuscirei a vivere senza.

            Chiamami, altoparlante, chiamami.

            Ormai è ora. Secondo tutti i televisori che mi circondano, il prossimo imbarco sarà quello del mio volo. Vedo gente che già si accalca davanti al gate, per prendere i primi posti. Non le ho mai capite quelle persone. Come se l’aereo partisse senza di te, come se sedersi al posto 3 D per primo abbia un sapore diverso dal sedersi per ultimo. Stranezze aeroportuali. D’altronde, ammetto anche che vedere un ragazzo che, iPod nelle orecchie, resta seduto su una sedia per quasi due ore ridendo da solo e facendo strane smorfie col viso e col corpo non sia il massimo della normalità. Per cui 1 a 1, e palla al centro.

Ormai è ora, quindi. Sembra essere tutto apposto. I miei dubbi, seduti a due sedie di distanza da me, mi guardano quasi mi volessero supplicare di portarli con me. I miei pensieri sono al sicuro in valigia, i miei ricordi a passeggio nella mia testa, la musica sembra essersi adeguata al contesto. Lenta, ma non eccessivamente. Pacata, ma anche dura. Si, sembra essere quasi tutto a posto. Ma non faccio nemmeno in tempo ad accorgermi cosa mi manca che, finalmente, sento l’altoparlante annunciare il mio volo. È il mio momento. Aspetto che defluisca un po’ di gente, poi prendo il mio zaino e con passo deciso mi dirigo verso l’imbarco. Nel tragitto, mi vibra nuovamente il cellulare. Un messaggio, stavolta quello che aspettavo. Ecco cosa mi mancava. Lo leggo con una strana smorfia. Sono poche parole. Le parole giuste, a quanto pare. Al momento giusto. C’è ancora gente davanti a me, per cui mi blocco un attimo, e rileggo quelle due righe. Ho aspettato due ore per quelle due righe. Ci penso su giusto un secondo, e poi rispondo, con la stessa semplicità delle due righe che ho ricevuto. “ Certo che sono sicuro. Sono sicuro di non essere sicuro di niente. Grazie, a presto.”

Con alcune persone, un poema non basterebbe. Con altre, invece, bastano due parole per dirsi tutto. E quelle erano due parole di cui avevo bisogno, prima di andare aldilà di quel tunnel. Perché, a quanto dicono, aldilà non si sta affatto male. Però, ogni tanto, anche stare aldiquà può valerne la pena. Ogni tanto.

 

             

 

  
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