THE PAST NEVER RETURNS
Act-01
La
città era avvolta dai
colori caldi del crepuscolo. Un’altra giornata giungeva al
termine, mentre il
sole morente ghermiva di un rosso scarlatto i palazzi e le strade incredibilmente
trafficate. Mentre la notte,
impietosa, giungeva ad inghiottire
tutto con
la cieca oscurità, la città era come preda di un
incantesimo che solo gli
ultimi raggi solari potevano produrre. Pareva che il tempo si fosse
fermato,
rapito anch’esso dal calore di quel cielo impregnato del
colore del sangue.
Dopo
tanti anni di
lontananza, Alexander fu lieto di constatare che
quella strana sensazione che lo avvolgeva
ogni volta che il sole calava su Londra non lo aveva abbandonato. Dal
piccolo
finestrino dell’aereo dove stava viaggiando da appena
un’ora poteva scorgere le
vecchie case, i grandi palazzi e le atmosfere della sua infanzia ormai
lontana.
Berlino, pur essendo una città molto bella, non era mai
stata capace di
suscitare in lui quelle strane sensazioni. E per un momento,
dall’alto di
quell’aereo, quella cupa e uggiosa città gli
sembrò la più splendente e solare
del mondo.
<
a tutti i passeggeri:
allacciare le cinture di sicurezza. Stiamo per atterrare
nell’aeroporto di Heathrow>.
La
voce gracchiante dell’altoparlante fece
sussultare tutti i passeggeri, ancora rapiti dal paesaggio mozzafiato
che si
consumava dinnanzi a loro.
“dopo
tutti questi anni, non è cambiata nemmeno di
una virgola. La mia città” pensò
Alexander, allacciando la cintura senza
staccare gli occhi dal finestrino. Quanto tempo era passato? Nonostante
mancasse da sette anni, di fronte a quella vista gli sembrava trascorsa
un’eternità.
Dopo
appena dieci minuti, l’aereo sussultò toccando
l’asfalto dell’aeroporto londinese, tra i sospiri
di sollievo dei passeggeri
più timorosi. Appena
gli sportelli si
aprirono, un vento gelido avvolse i nuovi arrivati, ormai abituati al riscaldamento automatico del
velivolo.
Appena
Alexander mise piede fuori dall’aereo, sentì
il suo stomaco fare una capriola.
Lo
ignorò e si diresse rapidamente verso l’entrata
dell’edificio, paralizzato dal
freddo a lui così familiare. Dopotutto, anche Berlino non
era rinomata per le
atmosfere afose e estive!
<
Mi porti allo Strand Palace Hotel, per
cortesia> Proruppe
Alexander, salendo
su uno dei tanti taxi parcheggiati di fronte al grande aeroporto.
<
complimenti, deve avere
proprio un sacco di soldi da spendere! > Esclamò il
vecchio tassista
vedendolo entrare tutto impettito.
<
Meno di quanto
immagina, mi creda> Rispose il ragazzo tranquillo, aspettandosi
una reazione
del genere.
<
Ah! E’ vero, sono un
povero tassista, ma so riconoscere chi di soldi ne ha a palate, e chi
invece li
può vedere soltanto in cartolina! > Disse il vecchio. Poi, in tutta calma, mise
in moto e imboccò
una grande strada poco trafficata.
<
Non può andare più
veloce? > Chiese il ragazzo, scorgendo dal sedile posteriore il
contachilometri luminoso della piccola automobile.
40
k\h.
<
ehi, ragazzo, calma i
bollenti spiriti! Cosa credi, che questa sia una di quelle tue macchine
sportive da 100.000 sterline?! > sbottò il tassista,
abbassando
ulteriormente il contachilometri.
<
Scusi, guardi che il
limite su questa strada è settanta!! E’ pericoloso
andare così piano!>
<
Ha! Cosa ne sai tu?? Io
faccio questo mestiere da quarant’anni e in tutto
que…>
“Ecco,
fantastico! Pure il
tassista logorroico, adesso!”
<….
Mai preso una multa!!
Ehi, ma mi ascolti?!> Esclamò il vecchio, spazientito.
<
ah, questi giovani!! Ma
cosa credono, che solo perché sono un po’
più in forze di noi pretendono
di…>
<
la prego, mi risparmi!!
> Sbottò
esasperato il ragazzo. <
vada a
A
quelle parole, seppur
contrariato il tassista si zittì, limitandosi a imprecare
sottovoce e a
borbottare “Questi giovani” e cose simili.
“Oh,
grazie a dio!! Non vedo
l’ora di chiudermi in hotel e farmi una bella
dormita!!” pensava il giovane
Alexander, in preda alle fitte e al nervosismo, mentre lo sgradevole
rumore di
un martello pneumatico gli risuonava nella testa. Probabilmente, se
avesse
saputo ciò che lo aspettava una volta giunto a destinazione,
sarebbe volentieri
rimasto a farsi quattro chiacchiere con il
“simpatico” tassista.
***
Il grande
magazzino sotterraneo era in pieno fermento. Un fremito di eccitazione
e
impazienza percorreva all’unisono la moltitudine di persone
presenti nella
grande sala polverosa, illuminata solo dalle fredde luci di alcune
lampadine al
neon sparse qua e là.
Alle mura
vecchie e cosparse di una sottile ragnatela di crepe erano addossate
centinaia
di scatole delle più disparate dimensioni, impilate
l’una sull’altra, che
andavano a formare alte colonne dal precario equilibrio.
Alcune scatole
erano
aperte, altre sigillate, altre ancora erano semidistrutte, e a volte vi
si
poteva scorgere il contenuto. Vasi antichi, gioielli di ere passate,
pezzi di
mobili d’epoca, ma anche oggetti di uso comune come ombrelli
–gli ombrelli non
potevano certo mancare in una città come Londra –
e cianfrusaglie più o meno
ingombranti. Quel magazzino poteva essere tranquillamente definito (sia
per la
sua data di costruzione che per il suo contenuto) un vero e proprio
pezzo di
storia.
< Ehi,
Alec!> Esclamò uno dei ragazzi che affollavano il
magazzino. Probabilmente,
se non avesse avuto la pelle ambrata, sarebbe addirittura sbiancato
<
senti.. per quella cosa… a che ora devi…
ehm… andare?> domandò titubante,
rivolto a un suo coetaneo seduto su uno degli scatoloni di fronte a
lui.
< Porta
pazienza, Jamal. Fra
un paio d’ore sarà
tutto finito, vedrai. > rispose tranquillamente
l’altro, alzando gli occhi
violetti dalla rivista patinata sulle sue ginocchia, inchiodando il
compagno
con lo sguardo.
<
Sì, certo…
ma… hai preso le dovute, ehm, precauzioni?>
Insistette Jamal, Gli occhi
nerissimi pervasi di una strana inquietudine.
A quelle parole,
il ragazzo di nome Alec sorrise, mostrando una schiera di denti
bianchissimi.
< non ti
preoccupare! Anche se mi prendessero, non farei mai il vostro nome. E
in più, e
non lo dico per vantarmi, credo di essere parecchio più
furbo di loro! >
esclamò, in tono che voleva essere rassicurante, ma che
inquietò ancora di più
Jamal.
< Oh,
Alec…
io non … non intendevo certo darti del traditore…
Però, ecco… siamo felici che
la trattativa si sia finalmente conclusa, ma siamo anche preoccupati
per
te…> Ribattè l’altro, scuotendo
la folta chioma bruna e lucida.
< Oh,
davvero?> rispose Alec, portandosi una mano ai capelli
nerissimi, sorridendo
smagliante. < siete preoccupati? Oh, Jamal, grazie!! Ma non
dovete essere in
pensiero, davvero! Sono anni che faccio questo lavoro, e sono stato
sempre
molto prudente! Senza contare che nessuno sa chi sono, no?>
Concluse,
sorridendo malizioso in direzione del ragazzo di fronte a lui.
< Quindi,
mi
raccomando, riferiscilo anche al tuo clan. Mi sembrano tutti piuttosto
nervosetti, là dietro…> Si
raccomandò, buttando la rivista sullo scatolone e
alzandosi dal giaciglio improvvisato.
< Bene,
signori. E’ ora che levi le ancore, temo. Ci rivedremo fra un
paio d’ore, non
preoccupatevi! > Esclamò, con un sorriso malizioso
stampato sul viso
pallido.
Poi si diresse a
passo svelto verso la porta in fondo al magazzino, lì dove
nemmeno la luce
delle fredde lampadine riusciva ad arrivare.
Ma proprio
quando stava per imboccare l’uscita si bloccò, e
si volse ancora una volta
verso la folla radunata alle sue spalle.
< Oh, e
naturalmente sarò qui con la merce!! Senza ritardi
né complicazioni, s’intende.
>
Subito dopo,
rapido come un ciclone, scomparve dagli sguardi stupiti e preoccupati
di tutti
i presenti.
< Allo
Strand, Lucas> disse Alec salendo sulla macchina, una piccola
cinquecento di
un sobrio colore nero, rivolto al vecchio seduto sul sedile del
guidatore.
<
Sì,
signorino Alec. Sta lavorando per il signor Jamal, vero?> chiese
il vecchio
posando gli occhi di un celeste incredibilmente cristallino in quelli
viola del
ragazzo alle sue spalle, attraverso lo specchietto dell’auto.
<
Già. Devo
dire che sono un po’ emozionato. Sai, era da un sacco di
tempo che non mostravo
il mio viso in pubblico.> Affermò il moro, nonostante
i suoi occhi non
tradissero alcuna emozione.
< Credo
siano
passati all’incirca sette
anni,
signorino.> Rispose il vecchio Lucas in tono pacato. La bocca
sottile,
contornata da una fitta ragnatela di rughe che donavano al suo volto
l’aspetto
di una statua di gesso coperta di piccole crepe, si schiuse in un
sorriso
profondo, quasi paterno, così diverso da quello del ragazzo
dietro di lui.
< Ah,
davvero? Ma pensa, non ci avevo fatto caso… così
tanto tempo?> rispose Alec,
il viso congelato nella stessa identica impressione di poco prima.
< Non
sembrate sorpreso, signorino> osservò Lucas, gli
occhi sempre fissi in
quelli viola del ragazzo.
< Non ti
sfugge nulla, eh, Lucas?> esclamò il moro, scoppiando
a ridere.
Quell’improvvisa ilarità però non
convinse il vecchio, che si limitò a scuotere
la testa facendo ondeggiare i corti capelli brizzolati di un bianco
candido.
< beh,
Lucas,
credo sia tempo di andare. La chiacchierata è durata
abbastanza, per oggi. E
poi lo sai, non amo i contrattempi sul lavoro. > Disse Alec,
poggiando la
testa sul sedile accanto a lui.
Erano ormai in
viaggio quando la voce tranquilla
del
ragazzo risuonò nel silenzio dell’ abitacolo.
< Secondo
te
torneremo per le nove e mezzo? Inizia la mia soap opera
preferita…>.
***
Si era ormai
fatto buio quando, più stremato che mai, Alexander giunse a destinazione. Il vecchio
tassista lo aveva
lasciato senza tanti complimenti dall’altro lato della strada
con tutti i
bagagli sparsi a terra, e si era dileguato con il lauto pagamento del
ragazzo
alla velocità della luce. Alexander non ne era sicuro, ma
gli parve di scorgere
riflesso nello specchietto retrovisore gli occhi arcigni del vecchio
fissarlo
con disprezzo.
“Eh,
già. Londra
non è cambiata di una virgola, e a quanto pare neppure i
Londinesi!” pensò, la
testa a pezzi per via della solita emicrania.
Nonostante fossero appena passate le
sette, la città era
già stata inghiottita dalla notte. Tuttavia,
le luci dei lampioni e i fari delle auto illuminavano le
strade di mille
luci colorate. Il traffico, ovviamente, era da record.
Alexander, con
la testa a pezzi e la pazienza ancor
di
più, si armò di buona volontà e olio
di gomito e riuscì a caricarsi addosso
tutte le valige abbandonate sul marciapiede. Attraversò la
strada a passo
deciso, con il disappunto dei vari automobilisti, rischiando due o tre
volte di
essere investito. Quasi non riuscì a passare, tanto il
marciapiede era intasato
di macchine parcheggiate. In particolare, proprio di fronte
all’entrata stava
una cinquecento lucidissima. “ Pirati della strada”
pensò Alexander “ ma chi
gliela da la patente, a questi? E mo come faccio a passare?”
Superate le non
poche complicazioni ,
dopo aver sentito
distintamente una macchina sfiorargli il piede e rompergli il timpano
con il
clacson, riuscì ad arrivare a destinazione. Di fronte a lui,
la grande insegna
luminosa dell’hotel risplendeva di un tenue color ocra.
< Posso
aiutarla, signore?> Esclamò subito un fattorino, in
attesa a pochi metri da
lui.
< Oh,
certo,
la prego…> Mormorò il ragazzo, stremato,
scaricando le borse con un tonfo
sordo che fece sussultare il pover’uomo in attesa.
< Sta
bene…?> chiese cortesemente quello, vedendo Alexander
barcollare.
rispose,
salendo a passo di lumaca i gradini che conducevano alla porta
d’entrata. Era
così stanco da non riuscire nemmeno a notare il grande
cartello giallo
evidenziatore attaccato alla porta, su cui vi era scritto
“tirare, prego.”
Per fortuna il
fattorino, che era una gran brava persona, lo vide in
difficoltà e si affrettò
ad aprire il portone, nonostante dovesse spingere il pesante carrello
con le
valige.
Appena le porte
si aprirono, il ragazzo fu investito da un soffio di vento caldo che
riuscì un
poco a rinvigorirlo.
L’interno
dell’hotel era, ovviamente,
incredibilmente lussuoso. Al centro del soffitto dipinto vi era un
lampadario
incredibilmente brillante, che illuminava a giorno l’intera
sala. Il pavimento
era così lucido che poteva tranquillamente essere usato come
uno specchio. In
mezzo alla stanza vi erano numerosi divanetti di un tenue color panna,
dove gli
ospiti dell’hotel bivaccavano tranquillamente sorseggiando
aperitivi o leggendo
riviste. Ognuno di loro era vestito in modo estremamente elegante, a
parte un
vecchio dall’aria sciatta e un ragazzo moro, molto giovane, vestito di
una semplice e
anonima maglia nera.
< da questa
parte, prego…> Disse il fattorino, spingendo il
carrello verso il bancone
della reception.
***
< Siamo
arrivati, Lucas> proruppe d’un tratto Alec, gli occhi
serrati e il viso
poggiato sul sedile. Non aveva guardato la strada nemmeno per un
secondo, fin
da quando erano partiti.
< Ottimo
intuito, signorino> si complimentò il vecchio, senza
essere minimamente
stupito da quella performance.
< bene ,
è
ora di andare. Io la attenderò qui, come sempre>
continuò Lucas, Scendendo
dalla macchina e aprendo la portiera posteriore con la grazia di un
altro secolo.
Alec sorrise,
rivolgendo al vecchio un muto ringraziamento. Pur non avendo con lui
alcun
legame di sangue, era l’unica persona che riuscisse a
comprenderlo veramente
senza alcun bisogno di parole. L’unica persona con cui
riuscisse ad essere se
stesso.
< Lei dice?
Oh, beh,sa… purtroppo per quanto lei possa detestarli,
signore, gli imprevisti
esistono sempre. E’ una precauzione in più , per
la sua incolumità…> Rispose
il vecchio, alzando le spioventi sopracciglia bianche.
< per una
fuga tempestiva, eh? Ah, hai ragione come sempre, Lucas. Bene, io vado.
A tra
poco> disse il moro, la voce priva di qualsiasi emozione. Il suo
sguardo era
cambiato, Il suo sorriso si era congelato. Il volto, prima cordiale e
aperto,
era privo di espressione. Era così diverso dal ragazzo di
poco prima che poteva
tranquillamente essere scambiato per un’altra persona.
A passo deciso
salì gli scalini che conducevano all’entrata e
varcò il grande portone,
ritrovandosi negli ambienti lussuosi dell’edificio.
< Salve. Ho
un appuntamento con un ospite dell’hotel>
esclamò appena giunse alla
reception. L’uomo di fronte a lui, dopo averlo squadrato da
capo a piedi, chiese
con espressione visibilmente contrariata, seppur sforzandosi di
mantenere
un’apparenza gentile < uhm, buonasera, con chi ho il,
ehm, piacere di
parlare?>.
< Sono
Alexander Bastian Campbell. Potrebbe chiamare il signor Ernest
Clifford, per
cortesia? Gli dica che attendo nella hall>. Disse spiccio Alec,
impaziente
di finire il lavoro il prima possibile.
< ehm,
perdoni la, ehm, diffidenza, ma… ehm… potrebbe
favorire un documento
d’identità? So che è una seccatura, ma
sa, è la prassi…> Sibilò
l’uomo,
lanciando un’altra pesante occhiataccia
all’abbigliamento sciatto del ragazzo.
Alec sorrise,
mangiando la foglia.
< La
prassi…
certo…> mormorò, frugandosi velocemente
nelle tasche. Ne estrasse il
documento e lo consegnò all’uomo di fronte a lui,
che afferrò l’oggetto e lo
esaminò come per verificarne
l’autenticità.
<
Dunque…
Alexander Bastian Campbell, nato a Londra il dodici dicembre del
1985… strano,
le avrei dato almeno cinque anni di meno…>
< Non credo
sia importante discutere di questo, al momento. Potrebbe, cortesemente,
chiamare qui il signor Clifford? Sa, è una questione della
massima
importanza>.
Si
limitò a dire
Alec leggermente infastidito per quelle immotivate e fastidiose
attenzioni.
< Ma certo,
signore… prego, può accomodarsi su uno dei
divanetti. Glielo chiamo subito>
Rispose l’uomo, visibilmente contrariato, restituendo il
documento al
proprietario.
< Molte
grazie> Concluse il moro, facendo come gli era stato detto e
accomodandosi
su uno dei divanetti più vicini all’uscita.
***
Lentamente,
Alexander seguì l’uomo per quella che gli
sembrò un’eternità, e finalmente
giunse di fronte all’enorme bancone laccato in oro.
Immediatamente , davanti a
lui comparve un uomo alto e austero, vestito di un frac elegante quanto
vecchio. Aveva corti baffetti neri e portava un paio di occhiali dalla
montatura finissima.
<
Buonasera,
benvenuto allo Strand Palace Hotel, signor…?> chiese gentilmente quello,
un po’ interdetto
nel vedere quel ragazzo così stremato e sudato.
“Ma
cos’è, una
moda?!” Pensò Alexander, accigliato.
<
Sì, sto
bene. Vorrei una camera. Sono…>
Ma prima di
riuscire a terminare la frase, il giovane vide il ragazzo moro seduto
sul divanetto
alzarsi e correre all’impazzata verso di lui, gli occhi
violetti
incredibilmente sgranati , trascinandolo alla velocità detta
luce fuori
dall’Hotel. L’ultima cosa che riuscì a
cogliere mentre veniva trascinato via
dall’atrio, e infilato a forza in una piccola cinquecento
nera prima di svenire
per la stanchezza, furono gli occhi del giovane pieni di sorpresa,
frustrazione, ma anche di una rabbia profonda, disperata.
“Occhi
di chi
non ha niente da perdere” pensò. “ Come
me”.