[Il
sangue è vita. E
sarà la mia!]
(Dracula,
il film)
1890 d.C. Romania, Transilvania.
Quando la nebbia cadeva sulle notti delle foreste della Transilvania,
una terra
stretta tra l’abbraccio dei monti, l’immagine della
regione era un po’ più
simile a quel che descrivono, un po’ più maligna e
cattiva. L’epicentro di un
vortice di leggende.
Il demonio, oppure un figlio del demonio, si era insediato
lì, da qualche
parte, come un’ erba velenosa, al buio e nella nebbia, ad
aspettare di potersi
nutrire per continuare la sua insana esistenza.
Era appena risuscitato dalla letargia del giorno.
Non poteva davvero temere nulla perché nulla poteva
ucciderlo…quindi perché
turbarsi dell’ostilità degli abitanti verso la sua
persona?
Non erano forse un dolce pasto - anche se alcuni meno di altri -?
Aveva gusti molto delicati e particolarmente difficili: preferiva prede
che
almeno fossero maggiorenni, altrimenti il sangue sapeva di carente,
povero di
sapore, e di anni: dunque preferiva che fosse sottoposto ad
invecchiamento,
proprio come il vino, per essere mille volte più dolce sulla
lingua e nel
palato…
Naturalmente rispetto ad altri della sua specie aveva una natura
più pratica e,
guardandola dal punto di vista dei suoi sudditi e come gli piaceva
credere,
caritatevole.
Non uccideva mai più di quello che gli serviva, meno di
quanto gli spettava, ma
in fondo doveva anche tener conto dei ritmi della procreazione umana e
darsi
del tempo di digiuno.
Trattava, in effetti, come molto spesso si rendeva conto, il popolo di
Transilvania come un enorme pollaio, lo amministrava e poi rivendicava
diritti
sulla vita degli animali.
Dominava quella terra per diritto di forza, cosa c’era,
dunque, di sbagliato
per i suoi abitanti a sottoporsi a qualsiasi voglia del padrone, che
fosse
anche un’insalubre sete di sangue, per
l’eternità?
E perché per suo padre quella era una giustifica troppo
debole?
Una giovane fanciulla, di bell’aspetto, aggraziata, non
ancora ventenne,
camminava attardandosi lungo il confine della foresta mentre
l’ultima luce del
sole spariva dietro la montagna. Giocava con il suo cane, prodigandosi
per lui
in attenzioni e carezze, ricambiati dall’animale con una
sorta di gioia servile.
All’improvviso l’orecchio dell’animale
fremette in allarme nella sua
direzione.
Si liberò dell’umana che lo coccolava ed
iniziò ad abbaiare verso il ramo dove
lui stava
appollaiato.
L’odore dei cani lo ripugnava, ne aveva una profonda
avversione poiché non
riusciva a vederli come più che cibo scadente, ed ora, un
esemplare dal timbro
irritante gli rovinava anche i suoi giochetti.
In quei momenti di sete non capiva come facessero i suoi fratelli di
non-vivenza, a furia di volersi cibare di viventi come quello. Cosa
avevano
contro l’andamento della catena alimentare?
La ragazza si era irrigidita, ed aveva azzardato il primo passo
indietro.
Lui adorava la sua andatura da animale guardingo.
Se avesse aspettato ancora un po’ si sarebbe fatta
suggestionare e sarebbe
tornata in casa. Uno spirito maligno non avrebbe potuto varcarne la
soglia se
non espressamente invitato.
La giovane continuò il cammino a ritroso nella neve
abbagliante.
-Vieni qui, Dolly, torniamo a casa- fissò a lungo
l’albero verso cui Dolly
abbaiava con convinzione, ma questo rimaneva inerte, come appunto un
albero.
Sentì che Dolly si allontanava, che seguiva un altro odore.
Si voltò e quasi ebbe un colpo, si aggrappò alla
parte sinistra del petto come
per reggere il cuore che le veniva a meno. Piegata in due,
ansimò guardando le
scarpe del nuovo ospite.
-Mi dispiace di averla spaventata- l’uomo si toccò
l’ala del cappello, in segno
di saluto e riverenza.
-Lei…lei è molto silenzioso, perfino sulla neve-
la ragazza riprese fiato e
contegno lisciandosi la gonna lunga, prima di guardare direttamente in
faccia
l’uomo e rimanerne folgorata.
Era la cosa più bella che avesse mai visto; il viso
più perfetto ed angelico,
pallido come se esistesse un bellissimo bagliore sottocutaneo a
rischiararlo.
-Si?-
“Signore! Che si sia accorto che non ho chiuso la
bocca?” Come un automa
strinse le labbra e si ridiede un po’ di dignità
avendo la delicatezza di
arrossire in modo verecondo ed adorabile.
-Oh… ehm, scusatemi…-
-Dammi del tu- sorrise dolcemente e non c’era più
buio attorno a quel sorriso.
La ragazza rimase abbagliata prima di notare un leggero difetto
(assolutamente
perdonabile, naturalmente, nulla avrebbe intaccato quella
bellezza,
neppure la vecchiaia): i canini, forse, erano di quel poco
più appuntiti che
bastava per notarli.
Sbatté le palpebre, una, due volte, ed il piccolo difetto
sparì nel suo sorriso
da perfetto gentiluomo.
-Certo, certo, ti darò senz’altro del tu, il tuo
nome?- non sapeva se avrebbe
retto ad un altro dei suoi sorrisi sensuali.
Il giovane parve vedere nei suoi occhi quanto lo trovasse bello,
capì che era
facile esercitare l’ipnosi su un’ anima tanto
spensierata, e la ringraziò dedicandole un altro sorriso
particolarmente astuto.
-Edward-
-Edward- gli fece eco lei.
Le sembrò che la vista le si stesse affaticando sempre
più mentre lo fissava
negli occhi verdi. Aspettò che le chiedesse il suo nome, ma
l’uomo sembrava
assorto verso qualcosa che era alla base del suo collo.
-Cosa stai fissando?-
-Nulla, il suo…il tuo gioiello-
-Io…io non porto un gioiello, Edward, cosa stai dicendo?-
Il giovane si scusò distrattamente.
-Devo essermi sbagliato- era perfettamente cortese anche quando si
tradiva.
-Comunque… comunque, io sono Natasa- si affrettò
a dire.
Edward si distolse per un altro attimo dal punto che non aveva smesso
di
guardare e la fissò negli occhi.
-La cosa è del tutto irrilevante, Natasa, se avessi voluto
sapere qual è il tuo
nome te l’avrei chiesto-
Era un brusco cambiamento davvero! Doveva essere un tipo piuttosto
lunatico.
Si domandò se fosse alla base del suo collo il problema, e
visto che Edward non
smetteva di fissarlo frugò tra le pieghe del suo colletto,
ma vide solo la
pelle nuda ed intirizzita.
Guardò Edward e lo vide allargare le narici.
-Mi spiega cosa sta fissando?!- disse tornando bruscamente
all’impersonale
“lei”, sdegnosa, mentre la strana patina che le
copriva la vista si diradava e
lei componeva un passo con falsa fretta verso la sua casa.
-Tu hai un sangue molto profumato- disse tendendo un braccio per
bloccarle il
passaggio, con un sorrisino gentile, come se si aspettasse di vederla
reagire
ad un complimento –molto profumato davvero-
Natasa, atterrita dal quella frase, cercò un'altra strada
per aggirarlo, ma
anche l’altro braccio si mise tra lei e la casa, tra lei e la
vita.
Non aveva capito che quella bellezza stupefacente, quel non aver occhi
che per
le invisibili pulsazioni del collo, a tratti per quelle del polso, non
avrebbero
dovuto lasciarla indifferente.
Natasa fece di nuovo un passo a ritroso, ma non poteva far a meno di
guardarlo
mentre la sua bellezza scemava in adamantina crudeltà.
Ora era quel diavolo ghignante da cui era stata messa in guardia e
avanzava con
grazia languida e deliberata voluttà, a braccia aperte. Era
eccitante e
repellente insieme.
-Vieni da me- le alitò e sembrò un
sibilo – Ti desidero molto. Ho tanta gola.
Ho bisogno di ristoro- il suo tono era diabolicamente dolce e risuonava
fin nel
cervello con un tintinnio.
Natasa più che prima fu vittima di
quell’incantesimo e gli spalancò le braccia
a sua volta, con l’espressione persa nei propri sogni, tipica
dei sonnambuli.
Edward la afferrò bruscamente per l’avambraccio e
se la avvicinò al petto senza
incontrare resistenze.
Ormai il corpo della giovane sembrava obbedire a una volontà
suicida che veniva
dal vampiro, inarcandosi all’indietro e lasciandogli vedere
la gola.
Fu come se il collo fosse più bramoso di farsi mordere dai
denti che
i denti di mordere il collo.
Natasa sentì d’improvviso tanta pacificazione
dentro di sé che chiuse gli occhi
azzurri l’ultima volta.
Bisognava accontentare il vampiro. Altrimenti il vampiro sarebbe stato
infelice
e cose terribili gli sarebbero successe.
Non doveva accadere: bisognava obbedire, cedere. Invero era un piacere,
cedere.
Edward aveva fatto a brandelli la sua volontà. Non la
sentiva più nemmeno
lottare per reagire ai suoi istinti.
Nella sua gola la creatura vampira era talmente assetata che
denti
liberarono il veleno a fiumi spumanti prima ancora del morso e il
liquido giallo gli
colò dalla bocca aperta.
I canini si allungarono, tremarono, e gli dolsero di
un dolore che era anche un piacere.
La mascella si spalancò due volte quanto l’aveva
grande un uomo, e la bocca
umana ora pareva la bocca di un serpente.
Si chinò su di lei e il collo della giovane rispose venendo
incontro alla sua
bocca come se volesse un bacio.
La bocca sembrava eccitata e fremeva pronta ad attaccarsi al collo.
La giovane sentì il soffio freddo di un respiro deliziato
lambirle il collo e le spalle, che le vennero snudate con
strappi di
veste impazienti e frenetici.
Poi un dolore di
un momento, quando le vennero
piantati con foga i canini nel collo; il vampiro succhiò a
lungo e a fondo,
Natasa lanciò soffi estasiati - ringraziandolo del sangue
che le succhiava via
come un gatto ringrazia con le fusa per le carezze che gli vengono
fatte -
finché non si sgonfiò morendo tra le braccia che
la sostenevano.
Edward respinse il corpo nella neve con sanguinaria freddezza,
impaziente di
liberarsene, e con la manica si ripulì la bocca da ogni
traccia della sua vittima.
In quel momento Dolly mise il muso fuori dagli alberi.
Quando avvertì sentore di sangue ringhiò contro
Edward, lui emise un sibilo in
un digrignare di denti canini e il cane fuggì via.
La neve si tingeva di sangue attorno alle spalle di Natasa.
Una morte turpissima, che eppure per Natasa era stata bellissima, piena
di
pace: solo felicità e piacere, senza un pensiero.
Storse il naso assaporando in bocca il resto del sapore della ragazza.
Decisamente, dall’odore sembrava un pasto migliore.
Esitò ad andarsene fissando Natasa nella neve. Sentiva che
la fonte della sua
pietà non si era ancora del tutto seccata, e che per un
attimo infinitesimo
riprendeva vita per quella giovane.
Volle scappare, quasi con orrore, dalla scena della morte umana.
Quanto aveva avuto paura, da uomo, della morte?
Corse via, ma improvvisamente il
cielo notturno
così profondo e silenzioso fu percorso da un terribile urlo
acuto e metallico
come di pianto disperato.
In lontananza due creature dalle ali membranose volavano in cerchio
attorno
alla salma come avvoltoi. Le donne non-morte, dalle lunghe chiome,
bionda e
mora, erano in preda ad una rabbia ed un dolore che non poteva far a
meno di
essere violento.
-Quanto dolore dai al nostro padrone, Edward. Quanto dolore deve
sopportare
poiché lui è così buono e tu
così malvagio!-
Senza respiro, rigido col ventre pulsante di crampi famelici, il cuore
che
picchiava a colpi ansiosi il petto, veloce come dopo una corsa, stava
immobile
e nascosto dietro l’ombra come se la sua più
sincera ed intensa speranza fosse
quella di confondersi con la parete o di attraversala per fuggire.
Fece l’azzardo di sporgere un po’ la testa dalla
semioscurità della colonna e,
mentre cercava con gli occhi l’ombra del
pericolo, questi
gli restituì uno sguardo.
Ritrasse di scatto la testa nell’antro nero da dove
l’aveva sporta e dietro il
nascondiglio si fece più piccolo nel punto più
buio.
-Come ti chiami bimbo?-
Vide la testa di un monaco dall’aria austera e severa,
vestito di una toga
rossa e con un principio di calvizie, che si sporgeva oltre la luce.
Gli aveva posto la domanda con molta serietà.
Guardandolo meglio, l’uomo
ebbe un lieve scatto
per la sorpresa ed il bambino strizzò gli occhi, ritraendo il viso, in istintiva
difesa dallo schiaffo che si
aspettava, tenendo dietro di sè una collana, tanto stretta
tra
le dita che i
pugni gli tremarono per lo sforzo.
-Calma, calma-
Il bambino aveva la pelle di un bellissimo color bronzeo, occhi neri e
fondi, e
capelli altrettanto neri, un tempo dai ciuffi luminosi, ma che ora
erano
pieni
di polvere incrostata ed induriti dal fango, e sotto il saio si
sarebbero
potute contare le costole.
Un pellerossa.
Lo prese per le spalle tentando di rimetterlo in piedi, ma
anziché calma trovò
resistenza e rifiuto; era un
bambino tenace che gli scivolava dalle mani e si
contorceva come un anguilla.
-Basta, e chi ti tocca, fermati!-
A testa bassa, come una bestiola cieca e spaventata, il piccolo
caricò contro il
vecchio cercandosi un varco attraverso
le sue
braccia.
Venne bloccato di nuovo e preso sotto braccio mentre tirava calci e
pugni a vuoto.
-Basta!-
Partì lo schiaffò atteso che gli voltò
la faccia.
Dopo essersi calmato ed aver smesso di agitarsi tornò a
guardare il vecchio,
con gli occhi ed il naso umidi del bambino capriccioso ed offeso che
non sa
neppure lui per quale ragione è punito.
Venne posato a terra.
-Non te le tocco le tue cose- lo rassicurò, essendosi
accorto del luccichio che
difendeva nel
pugno.
Il bambino tirò su col naso e se lo pulì con la
manica, gli occhi bassi e
tristi.
Si teneva una mano dalle dita unte di liquido rosso appoggiata al
ventre con
evidente
sofferenza e più discrezione possibile.
-Cosa hai sotto la tunica, giovanotto?-
Il piccolo esitò, aveva molta paura di quel nuovo figuro, ma
si
indicò una macchia
rossa sul saio largo e sgualcito.
Il monaco dovette vincere altre resistenze per tirargli lievemente su
l’orlo
dell’indumento, scoprendo una piaga purulenta ed infetta che
pulsava di sangue
e pus giallo da una parte all’altra del fianco.
-Oh benedetto sia il Signore!- sembrava che un animale affamato avesse
tentato
di sviscerarlo.
Il piccolo si dibatté ancora, con una smorfietta di dolore,
poi diede un
calcione alle gambe del monaco e si rimise a posto il saio troppo
largo, con
una spallina caduta.
Aveva la febbre e non mangiava dai due giorni che era arrivato a Roma,
dopo essersi imbarcato clandestinamente su una nave mercantile e sulla
carrozza di un mercante.
Sotto il
saio era sudato, bagnato e insanguinato.
Non avrebbe potuto muovere un passo in più per andare
altrove a cercare
dell’acqua e pulirsi la ferita riaperta, ma il Signore di
questi cristiani non si sarebbe
dispiaciuto se
avesse usato l’acqua santa per darsi un po’ di
sollievo all’addome pulsante e
doloroso, no?
Era il momento che qualcuno facesse del bene anche a lui.
-Vieni, o tu schiatti, giovanotto, ma come ti chiami? Da dove vieni? Oh
Signore! E basta
agitarsi! Non ti voglio far niente, vieni qui mostriciattolo. Non ti
reggi in
piedi! Come te lo sei fatto, quello sfregio!?-
La collanina gli cadde di mano mentre il monaco lo strappava dalla
colonna a
cui era
aggrappato con le braccia, le gambe, mani, piedi ed unghie.
-No!- gridò con la sua voce acuta da bambino di sette anni.
Tirò i capelli al vecchio e gli diede un calcio nelle
costole nella totale
ignoranza e mancanza di rispetto per l’autorità
religiosa che rivestiva.
“Che forza prodigiosa!” pensò il monaco.
Poteva esser stato colpito da un uomo
fatto!
Il bimbo recuperò la collanina con la croce dorata e
l’altro ciondolo spesso e
circolare.
Cadde piegato a palla sui pugni stretti come a proteggerli dal monaco
malvagio.
No, il monaco malvagio non avrebbe mai avuto l’unica cosa che
gli aveva
lasciato la sua mamma, a costo di staccargli a morsi la sua mano ladra.
Mai e poi mai!
L’uomo si avvicinò con più cautela e
curiosità al piccolo selvaggio indiano
sporco e puzzolente.
-Don’t touch it! È mia!-
strillò voltandosi e mostrandogli i denti
in una smorfia molto ferina, quasi da scoiattolo –Non
l’ho rubata! È mia! It's from my parents! Not your
stuff, fuking italians!-
Per un momento, il silenzio regnò in chiesa, amplificato e
reso grave da tutto
l’ambiente solenne e religioso; era forte la sensazione che
Lo Sguardo
onnipotente guardasse in silenzio.
-Quello è il simbolo della religione cristiana, piccolo
selvaggio...- disse il religioso cautamente, ansioso di non essere frainteso, nella lingua dei coloni che aveva usato il piccolo, e indicò
con l’indice lungo e rugoso la
piccolissima croce dorata –...
il tuo gioiello più piccolo è la croce su cui
morì Cristo, tu lo sapevi questo,
non è così? You knew this, didn't you?-
Il piccolo la tenne stretta tra le due mani fino a farsene venire il
segno sul
palmo…
-No... and so?
E allora?-
-Posso vederla?-
Si irrigidì, e gli allontanò di nuovo la collana.
Il monaco se lo immaginò ringhiare per difendere il suo cibo
proprio come un
cucciolo emaciato ed affamato.
-Nel palmo della tua mano, naturalmente-
Il bambino dalla pelle bronzea si accucciò un po’
meno e si mise a sedere a
fatica, aprì leggermente le mani, abbastanza
perché la luce colpisse i
pendagli, ma anche abbastanza poco da richiuderle subito ad artiglio
sul tesoro.
-Vorrei vedere il secondo pendaglio, quello che non è una
croce-
Senza mai smettere di fissare la mano tesa dell’uomo,
aprì con un po’ più di
sicurezza lo scrigno delle sue mani in modo che il monaco potesse
sfiorare il
secondo ciondolo.
Lo vide armeggiare con un’apertura che lui non aveva mai
guardato, forzò
l’oggetto e lo aprì, il piccolo
sussultò allo scatto, accennando a richiudere
la stretta.
Dentro c’era un foglietto piegato e ripiegato su se stesso
tante volte da poter
entrare in uno spazio piccolissimo.
Il monaco lo spiegò.
Non ho saputo
far nulla per salvarlo e l’amore che avevo di quel piccolo mi
ha
impedito di abbatterlo per il suo bene, ma voi abbiate la
pietà di ascoltare la
preghiera di una straniera. Curatelo e non lasciate che la ferita si
infetti,
fategli ciò che è meglio in tempo, per non
lasciare che la maledizione si
impossessi completamente di lui. Ma se falliste non abbiatene paura
finché la
luna non brilli in tutto il suo cerchio. Fate che splenda su di lui in
luoghi
lontani da voi, dove possa aver sotto i denti solo animali e piante:
perché non
riconoscerà l’amico dal nemico e
cambierà la pelle con quella di una
bestia…”
Non
ringrazierò mai abbastanza la mia Betareader LunaDiInchiostro
che è
stata velocissima e bravissima^^.
P.S:
Mi prenderò
qualche licenza poetica per quanto riguarda gli ambienti ed i luoghi,
perchè
purtroppo dispongo solo di alcuni libri, cartine geografiche (ma sono
troppo
pigra per usarle) e della mia immaginazione. Perciò
scusatemi^^.
Ciauciao.