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Autore: Rorat    25/09/2009    2 recensioni
Disteso su una branda lurida, Ryo sognò l’inferno anche quella notte, finché una voce non lo destò; il richiamo sembrava venire dal nulla, nascere così, nell’aria buia, solenne e stanco. Sulla soglia della tenda apparve Shin Kaibara, quasi un fantasma, pallido e trasandato. Nello sguardo che lanciò a Ryo c’era tutto, compassione, odio, amore, ironia, sprezzo, dolorante affetto paterno.
Genere: Drammatico, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ryo Saeba/Hunter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
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Quel giorno avevano marciato per kilometri con chili di attrezzi sulle spalle e un’arma in mano.

Le armi erano sacre in guerra, prolungamenti naturali delle braccia, protesi, parti vitali dello stesso essere.

Camminare, strisciare, correre, nonostante la fame, la sete e i muscoli doloranti; da quando ne aveva memoria, Ryo non aveva fatto altro.

Per sopravvivere in  quel mondo di mercenari e guerriglieri aveva dovuto imparare a cancellarsi dal mondo, a convertirsi in ombra, acquisendo la vista, i sensi, l’istinto di un animale; tutto riflessi, muscoli, pelle. Sempre all’erta, anche quando dormiva, poiché ogni sospiro, ogni fruscio, tintinnava come un campanello  nel silenzio che lo circondava.

Gli incubi si confondevano con la realtà; pioveva sangue da cieli di polvere, il nemico non aveva volto, era un mostro, un demonio. Uccidere o morire mentre l’odore di morte ti si appiccicava addosso come una seconda pelle.

Disteso nella sua branda lurida, Ryo sognò l’inferno anche quella notte, finché una voce non lo destò; il richiamo sembrava venire dal nulla, nascere così, nell’aria buia, solenne e stanco. Sulla soglia della tenda apparve Shin Kaibara, quasi un fantasma, pallido e trasandato. Nello sguardo che lanciò a Ryo c’era tutto, compassione, odio, amore, ironia, sprezzo, dolorante affetto paterno.

“Ho bisogno di parlarti,” disse. Il ragazzo uscì dalla tenda; un cielo privo di nuvole, un manto di stelle, si aprì ai suoi occhi.

 I due guerriglieri presero a camminare l’uno di fianco all’altro, senza dire una parola, dirigendosi verso la riva di un fiumiciattolo che scorreva nelle vicinanze dell’accampamento, sino a quando il silenzio della notte non fu rotto dallo sciabordare dell’acqua sulla riva.

Sfinito, Kaibara si sedette a terra con un movimento goffo e lento. La protesi che aveva preso il posto della sua gamba aveva annientato la sua agilità nei movimenti. Ryo lo osservò colpevole e l’uomo se ne accorse.

“Questa gamba” sussurrò non appena si fu seduto “non so ancora gestirmela bene...” 

Era accaduto non molto tempo prima; Kaibara, contravvenendo agli ordini, aveva rischiato la propria vita per salvare quella di chi considerava un figlio. Aveva perso la gamba, ma la persona a cui era legato da profondo affetto era viva. 

Ryo doveva molto a quell’uomo, lo ammirava, lo stimava, gli voleva bene, aveva fiducia in lui.

“Che pace in questo luogo, non trovi, Ryo?”

Il ragazzo annuì. Tacquero a lungo, ascoltando l’acqua scorrere placida, guardando la vegetazione densa di ombre che li circondava, il firmamento buio e punteggiato di stelle, aspirando l’aria della notte che sapeva di orchidee.

Non servivano le parole, Ryo capiva cosa provava in quel momento l’animo di Kaibara: era stanco, stanco di combattere una guerra che sembrava non poter più cessare, di tendere l’orecchio all’ascolto dei movimenti nemici, di assistere alla morte dei compagni; desiderava un po’ di tranquillità e riposo; aveva bisogno di pace.

Il silenzio rotto dalla musica dell’acqua, il fruscio delle foglie, la luce della luna e delle stelle, quegli attimi incerti e precari di serenità servivano a ricaricare la voglia di vivere, a dar forza, per poter continuare ad andare avanti, anche in quel mondo fatto di sangue e sofferenza, ma quegli effimeri istanti non erano più di giovamento allo spirito di Kaibara. Indebolito da anni e anni di lotta, persa fiducia nella forza dei compagni e nella loro motivazione a combattere, l’aveva riposta in qualcosa di più potente e distruttivo: la Polvere degli Angeli.

Kaibara sospirò, esausto. Il suo viso parve invecchiare di colpo. Decise di accendersi una sigaretta e tra una boccata e l’altra confidare al ragazzo ciò che gli tormentava l’animo.

“Sono stanco di fare questa vita, Ryo. Quegli stolti… proprio non riescono a capire quanto la Polvere degli Angeli possa aiutarci a mettere fine a questa maledetta guerra.”

“Ma Doc dice che è pericolosa e che…

“Non dirmi che credi alle eresie di quel medico?”

Io…” riuscì a balbettare Ryo in risposta a ciò che sembrava essere stato più un rimprovero che una domanda.

Gli occhi di Kaibara si infiammarono di determinazione, oppure, chissà, forse era follia: i sentimenti hanno confini talmente labili, che si finisce con l’attraversarli senza rendersene conto.

“Ryo, non capisci... la Polvere degli Angeli rende invincibili, chi la assume non sente la fatica, la paura, il dolore delle ferite, chi la assume diventa un dio!”

Lo sguardo esaltato di Shin trafisse il volto esitante del giovane guerrigliero e si fece cupo, una palude densa di dolore, pazzia e inquetudine.

“Devi aiutarmi, Ryo. Devo dimostrare agli altri di avere ragione. La Polvere degli Angeli ci condurrà facilmente alla vittoria. Mi serve la tua abilità di guerriero per farli ricredere, per dar loro una dimostrazione pratica. Quando vedranno con i loro occhi i risultati, si ricrederanno.”

“Io... Non sono sicuro che...”

“Mi deludi .” Le due parole rimbombarono nel silenzio.

L’aria si fece opaca e immobile.

Shin stava vendendo Ryo alla Morte. Una morte indolore, onorevole, gloriosa. Perché in fondo la vita, la morte, che significato potevano avere in quella terra dimenticata da Dio? In quel conflitto fatto di imboscate, attacchi a sorpresa, grida, lamenti? La solitudine e la violenza conficcavano schegge di ferro nell’anima, facendo perdere la capacità di amare, di amarsi. In quel tragico teatro di guerra erano la paura e la rabbia a dominare. Paura del dolore, di impazzire, di cadere prigioniero, di dormire, di sognare, di assuefarsi al male, al sudiciume, alle urla. Negli occhi di Ryo Shin leggeva i suoi stessi tormenti, il suo stesso terrore.

Ryo, il bambino che aveva accolto tra i guerriglieri, che aveva cresciuto come un figlio, che aveva addestrato a combattere contro l’esercito governativo, il ragazzo che aveva visto diventare troppo presto un adulto. Quegli occhi grigi che in quel momento lo osservavano perduti quanto orrore avevano visto? Occhi pieni di lacrime che non potevano più scorrere. Come avrebbero potuto quegli occhi continuare a guardare avanti? Stava dando a Ryo la possibilità di cambiare le cose, di fare la differenza, in un mondo in cui gli uomini erano solo pezzi di carne. Lo stava sacrificando per una causa più grande: la vittoria, la fine della guerra, la pace. Lo stava liberando. Lo avrebbe inviato a combattere contro un’intera squadra di mercenari. Solo, contro decine di uomini, imbottito fino al midollo di PCP, la Polvere degli Angeli, la droga che inghiottiva l’anima in cambio di forza e resistenza sovrumane. Ryo avrebbe vinto, li avrebbe sconfitti, perché era abile, perché era suo figlio, perché non lo avrebbe mai deluso.

Kaibara osservò se stesso nel volto di Ryo ancora per qualche istante prima di pronunciare le parole che, ne era certo, avrebbero condotto il giovane dalla sua parte.   

“Pensi che potrei mai farti del male?”

A Kaibara Ryo doveva tutto, anche la vita. Aveva fiducia in lui, non l’avrebbe mai tradito. In quel mondo fatto di violenza Shin era tutta la sua famiglia. Kaibara c’era sempre stato, tutte le volte che si era sentito spacciato, quando le pallottole fischiavano e il mondo esplodeva. Non poteva più esitare; ogni ombra di incertezza svanì.

 

  
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