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Autore: Chibi Taryn Demon    26/09/2009    1 recensioni
Vedi, Aeris? Le fiabe possono diventare realtà. AU, in un certo senso.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nota: cercavo da tanto la storia perfetta per usare la citazione di Tam Lin – era partita come una Zack/Aeris, poi era diventata una Sephiroth/Aeris, e finalmente si è trasformata in questa storia, la mia prima fic in cui Tseng ha un ruolo tutt’altro che marginale. Sembrava adattarsi meglio alla situazione di Aeris. (Sì, mi piace tanto scrivere storie d’amore terrificanti come questa). È AU; la timeline è tutta scombussolata, come vedrete. La citazione “Had I known but yesterday…” (aka: Se solo avessi saputo ieri…) viene dritta dritta dal libro “The Dogs of Babel” (“I cani di Babele”), che raccomando caldamente a tutti voi. Infine, ho ascoltato molto Feist, Joshua Radin e i Third Eye Blind (la vecchia scuola!) mentre lavoravo a questa. Spero vi piaccia!

Nota necessaria su Tam Lin che non appartiene alla nostra cultura: Tam Lin è un racconto (fiaba, ballata…?) folcloristico scozzese tanto sconosciuto in Italia quanto apprezzato e famoso tra i paesi di lingua anglosassone, se non nordici in generale. Credo che la lettura di questa storia sia più chiara se si ha presente la (semplice) trama almeno a grandi linee, perciò vi rimando alle traduzioni di una versione della ballata e di una versione in prosa che ho trovato su internet; eventualmente per approfondire c'è anche la pagina inglese di wikipedia. Sono entrambi testi molto brevi, anche se io consiglio la prosa che si legge e si comprende più in fretta, così magari non vi passa la voglia di leggere anche la fic XD
Ah, il titolo originale è “Eyes of Clay”. Ma mi piaceva di più in italiano. :D



“Se solo avessi saputo ieri quel che so oggi, ti avrei strappato gli occhi grigi per mettertene due d’argilla. E se solo avessi saputo ieri che non saresti più stato mio, ti avrei strappato il cuore di carne per mettertene uno di pietra.” –La fiaba di Tam Lin

“Il folle amore era più amore che follia; lasciato solo a se stesso, esso prosegue nel vuoto del delirio.” –Foucault




Tseng trovò il pezzo di carta stropicciato tra le rovine del confessionale. Era vecchio, fragile e quasi strappato in due, ma se lo ricordava con una nitidezza che sorprese persino lui. Era un’illustrazione, la stampa pesante di una silografia tirata a lucido dall’inchiostro nero, e rappresentava una donna spaventosa. I capelli scompigliati le incorniciavano un viso a forma di cuore dagli occhi stretti e la bocca contorta dal dolore. Il braccio sottile era teso verso chi doveva trovarsi nell’altra metà del foglio. Indossava abiti magniloquenti e drappeggiati, carichi di gioielli, foglie e fiori.

Ma l’arista, il cui nome era andato perduto nel tempo e nell’indifferenza, aveva evidentemente amato più di tutto le impressionanti ali di farfalla: le partivano dalle scapole e incombevano sul capo della donna, striate come vetrate. Era feroce e tremenda, ma bella come una tempesta o una bestia da caccia.

Guardare quel foglietto gli fece salire un groppo in gola. Era un’illustrazione della regina delle fate, un’illustrazione che apparteneva a un libro di fiabe che aveva regalato a Aeris anni prima.

Frugando un po’, trovò il resto della pagina: una ragazza, che al confronto sembrava una stracciona, avvinghiata al petto di un cavaliere alto e bello. Le loro espressioni erano sconvolte, spaventate, un po’ insolenti, pietosamente umane in confronto alla sua immortalità. Delle tre, la figura della regina delle fate era decisamente la più dettagliata.

Tseng si sedette su uno dei banchi polverosi e fissò lo sguardo sui fiori gialli e bianchi e sulla pozza di acqua infusa col Lifestream.

Gli piaceva andare lì da solo, senza gli altri Turk, che non avevano conosciuto Aeris come e dal tempo che la conosceva lui. E non andava mai in presenza di Cloud o del resto del suo gruppo. Cloud sapeva delle sue visite, ma per un tacito rispetto a Aeris si evitavano in maniera discreta e pacifica. Per un periodo Cloud ci aveva addirittura vissuto, rendendogliele impossibili; da quanto poteva osservare adesso doveva essersene andato via, doveva essere andato avanti.

Riportò gli occhi all’illustrazione ricostituita, un sorriso ad accarezzargli le labbra. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva pensato a quelle fiabe.

Le fiabe preferite di Aeris non erano mai quelle che piacevano alle altre bambine – o piuttosto, quelle che immaginava piacessero alle altre bambine, visto che non aveva mai avuto molte occasioni per stare con loro, prima di lei.

Alle bambine normali probabilmente piaceva ascoltare racconti di principi avvenenti e coraggiosi a cavallo di chocobo dorati e di bellissime damigelle che venivano salvate dalle vite che avrebbero altrimenti trascorso a strofinare pavimenti. O di benevoli animali parlanti, o di bambini che imbrogliavano streghe orrende – storie che li sollevavano, seppur solo per un istante, dalla vita durissima che conducevano a Midgar.

Ma le fiabe preferite di Aeris erano quelle antiche, le macabre, quelle con le bestie dalla lingua biforcuta che ti si accoccolano sul letto quando la notte non riesci a dormire. Quelle in cui le persone morivano in modi fantasiosi e agonizzanti, in cui la stoltezza e la stupidità venivano punite, il bene non veniva sempre ricompensato e il male vinceva, e vinceva spesso.

Una volta le aveva chiesto, quando era ancora abbastanza piccola, perché preferiva quelle storie alle altre. Lei stava cercando di tenersi in equilibrio sui binari arrugginiti del cimitero dei treni, e aveva voltato solo la testa per guardarlo, gli occhi verde chiaro che brillavano come sempre.

“Perché sono veritiere.” aveva risposto con solennità. “Non cercano di presentarti la vita meglio di quanto non sia in realtà. Sono tristi, ma non fanno finta di essere felici… per questo sono bellissime.”

Quanti anni aveva mentre lo diceva, sette, otto? Sembrava aver sempre avuto una visione matura della morte, visione che lui si era sempre sforzato –senza riuscirci– di ottenere. Forse perché era stato la causa di innumerevoli brutte morti; lui era il lupo, era la vecchia megera cattiva. Forse perché lui era semplicemente umano, e lei era… di più.

Ciò nonostante, la sua risposta l’aveva accontentato, e perciò aveva continuato a leggerle le storie che sua madre si rifiutava di raccontarle. Quando il suo libricino si esaurì, Tseng cercò tanto e a lungo un libro che ne contenesse altre, e finalmente ne trovò uno sepolto tra i resti della biblioteca pubblica del Sector 3. Era un tomo vecchio, pesante, con la copertina di pelle, le pagine ingiallite e rigide e le illustrazioni di un nero sbiadito, ma Aeris lo adorò, proprio come pensava. I suoi occhi, ricordava, scintillarono – uno scintillio diverso da quello innaturale e inquietante degli occhi dei SOLDIER – con quel colore che si poteva facilmente trovare in natura. Era semplice ritrovarla nel Pianeta che aveva contribuito a salvare, gli occhi verdi come un placido laghetto in mezzo a una foresta, i capelli come vivida argilla ramata, le labbra come l’interno delle conchiglie. Anche da bambina era bellissima.

Torna alla storia, gli ricordava spesso lei, impaziente, quando i suoi pensieri divagavano. Tseng rideva tra sé. Aveva tante di quelle piccole manie, tanti di quei segreti – e Cloud pensava di averla conosciuta? Aveva a stento graffiato la superficie di quello che era Aeris. La condivisione delle fiabe era una di quelle cose di cui erano a conoscenza solo Tseng e Aeris, una di quelle cose insignificanti che arrivavano a definire una persona una volta morta. Quel libro non era stato che un altro aspetto di Aeris.

Alcuni racconti, ricordava, li conosceva fin da quand’era piccolo, ma il libro li aveva privati di tutta la loro lucentezza, riducendoli alle ossa spoglie e capricciose:

La dolce verginella Cappuccetto Rosso incontrava sì il lupo, ma non si trattava di un lupo vero – era un giovanotto impetuoso che la divorava in un modo molto diverso. Anche se c’era il cacciatore, rimaneva il dubbio che forse Cappuccetto non volesse essere salvata affatto. Non lasciava più i boschi oscuri, trasformandosi in un animale selvaggio quanto il lupo. O c’era la morte in quella storia? Forse Cappuccetto Rosso, per rabbia o lussuria, rivoltava le carte in tavola e uccideva e mangiava il lupo?

Una delle storie preferite di Aeris, tuttavia, gli era rimasta negli anni.

Una sirenetta salvava un bel principe da un naufragio e s’innamorava irrimediabilmente di lui. Dava la lingua a una strega del mare, ricevendo in cambio un paio di gambe. Camminare le arrecava un dolore infinito, come se avesse mille aghi nelle scarpe, ma ballava lo stesso per lui. Invano, perché lui amava un’altra – una ragazza del tempio, che credeva l’avesse salvato da quella notte di tempesta. E alla fine si sposavano, abbandonando tra le ombre l’ex sirena, incapace di parlare, incapace di piangere, un guscio vuoto. Ma ecco apparire le sue sorelle con un pugnale – se la sirenetta avesse assassinato il principe con quel pugnale sarebbe ridiventata una sirena, felice e protetta in fondo al mare. Lei aveva un cuore forte – un cuore sciocco? – e invece di ucciderlo tornava nell’oceano per morire. Diventava spuma marina che, libera da ogni pensiero, adornava l’orlo delle onde. Fine.

Aeris riusciva a malapena a respirare quando leggeva quella fiaba, paralizzata. Tseng la trovava un po’ pesante, specialmente per una bambina – la sirena senza lingua, il suicidio e la vendetta, la triste fine dell’eroina – ma d’altro canto, Aeris non era mai stata una bambina qualsiasi. Quegli occhi impenetrabili gli nascondevano il suo cuore, anche se essendo un Turk aveva imparato a leggere il linguaggio del corpo, i tic nervosi e i modi di parlare. Grazie alle frequenti osservazioni che faceva sapeva che era stata alienata dagli altri bambini dei sobborghi per aver parlato una volta di troppo delle voci nella sua testa e perché aveva predetto la morte dei loro parenti una dopo l’altra; aveva imparato a tenere queste incredibili informazioni per sé, anche adesso che la Shin-Ra le voleva ascoltare.

Attorno ai tredici o i quattordici anni Aeris aveva smesso di implorarlo di recitarle le storie, mentre il suo corpo cominciava a maturare per stare al passo con la mente e lei iniziava la fiaba della sua vita, con tanto di cavaliere in scintillante armatura, animali parlanti e cattivi. Tanti cattivi.

Torna alla storia, gli ricordarono i fiori e la pozza silenziosa, perché la sua voce non c’era più.

C’erano altre storie ancora più strane che nella sua memoria avevano lasciato solo pezzettini e frammenti che somigliavano agli echi di un incubo.

Per salvare i suoi fratelli tramutati in corvi, una ragazza viaggia fino al sole e alla luna e alle stelle, e arriva a un monte di vetro, e si taglia un dito per entrare nel loro regno nascosto.

La pancia di un lupo che viene aperta e riempita di pietre, per la gioia degli agnelli.

Ragazze che piangono lacrime di perle, o vengono trasformate in oche.

E una regina delle fate a cui viene rubato l’amore, un cavaliere umano, da una ragazza tenace. A quella lì era molto affezionato, e ora ne stringeva i rimasugli tra le dita.

Quando era finito anche quel libro, Tseng aveva cominciato a raccontarle alcune delle sue storie. Aveva un buon senso lirico e poteva attingere dai vecchi miti di Wutai. A volte lui faceva il mostro sotto il ponte o tra le nuvole; altre, si fregiava della parte del cavaliere. Reno era nato per essere il lupo, la canaglia, l’imbroglione. Aeris poteva fare la principessa, la sguattera, il gatto, la lepre, ma era sempre l’eroina.

Fece scorrere gli occhi sui banchi rotti, e sui fiori che galleggiavano sull’acqua pulita. La luce del sole s’infiltrava dai buchi nel soffitto, e per un istante quasi gli parve di vederla, con quel suo sorriso enigmatico e le braccia intrecciate dietro la schiena. La vergogna gli sgorgò dalle budella e risalendo gli artigliò la gola e gli punse gli occhi. Sbatté le palpebre e la ragazza svanì. Non sarebbe mai riuscito a farle dimenticare quello che le aveva fatto, anche se aveva provato a scusarsi, anche se al Tempio degli Ancient aveva provato a dirle cosa aveva serbato nel cuore per tanto tempo, aveva provato a spiegarle che tradendo lei aveva tradito se stesso e i suoi sentimenti – ma giustamente, lei aveva distolto lo sguardo. Era stata l’ultima volta che l’aveva vista viva.

All’epoca lei non aveva capito. Come avrebbe potuto? Ogni tanto lei dimenticava che lui era un Turk, e che vedere quello che sfuggiva ad altri era il suo lavoro. Lei non aveva mai saputo… Contro la sua volontà, ricordò quel primo giorno, una gelida mattina d’autunno in cui la luce chiara aveva velato tutto d’argento.



Un giorno, un giorno, pensava che lei avrebbe provato qualcosa per lui. Si sarebbe resa conto di tutto quello che aveva fatto per lei, di tutto quello che aveva messo a repentaglio per lei, e lei, innamorata e grata, sarebbe andata da lui. Nessuno avrebbe mai potuto esserle devoto quanto lui, lo sapeva con ogni fibra del suo essere. Forse lei non lo sapeva perché non glielo aveva detto. Doveva saperlo. Non glielo aveva dimostrato con ogni cosa che aveva fatto – o non aveva fatto – per lei?

Aveva smesso di credere a qualunque genere di dio molto tempo prima; in quel luogo c’era un angelo ancorato alla terra che riusciva a convincere i fiori a spuntare dal terreno. Una dea che non avrebbe mai potuto respingerlo perché era buona e gentile e senza di lei sarebbe sicuramente morto. Oppure…?

Tutti questi pensieri gli attraversavano la mente mentre avanzava tra le ombre dell’entrata della chiesa tenendo gli occhi castano scuro fissi su di lei. I suoi occhi verdi avevano quel luccichio intensamente luminoso e malizioso che acquisivano soltanto quando era pienamente a suo agio – un’espressione diventata sempre più rara di recente. La sua risata precipitò nella sala come gocce di pioggia e lui l’assorbì avidamente. Anche quella era rara come i fiori di Midgar.

La gelosia gli montò nel petto. Chi mai poteva renderla tanto felice? Malgrado la sua natura amichevole era una ragazza solitaria, e non portava mai nessuno alla chiesa. Improvvisamente individuò l’uomo, e il sangue, sempre freddo, gli ghiacciò nelle vene.

Non era in compagnia di quel SOLDIER a cui piaceva flirtare che la andava dietro da un po’ di tempo come un cucciolo smarrito, ma con il fiore all’occhiello della Shin-ra Electric Company: il Generale Sephiroth in persona.

Lo sguardo sul viso dell’uomo era icredibile. Tseng non lo aveva mai visto rilassato – solo freddo e vuoto, o carico della rabbia feroce che bisogna assimilare per non impazzire quando si vive su un campo di battaglia. Quelle labbra sottili e pallide erano anzi arricciate in un sorriso, un sorriso vero, per quanto esile potesse essere. Aeris, tutta vestita di bianco e con le mani immerse fino ai polsi nel suolo caldo, rideva e parlava dolcemente con lui. Di cosa mai potevano star parlando? Sephiroth rigirava storie di guerra per lei? O Aeris vedeva in lui una delle creature delle sue fiabe, una leggenda a pieno titolo?

Tseng non lo seppe mai, perché scappò via prima che potessero vederlo anche solo di sfuggita. Il petto gli faceva male come se gli avessero sparato e quando abbassò lo sguardo quasi si aspettò di trovare del sangue sulla camicia bianchissima. Nulla. Prese un profondo respiro e si sentì vuoto. Espirò.

Ma quando tornò la volta successiva, stavolta con un nuovo pacco di semi, il Generale era di nuovo lì. L’atmosfera piacevole del loro ultimo incontro si era dissipata: Sephiroth bloccava Aeris contro il muro con un braccio, la mano col guanto nero era serrata sul suo collo – lei era la farfalla e lui lo spillo. Lei stava parlando a bassa voce, a ritmo spedito ma non frenetico, come per convincerlo di qualcosa. Nell’aria vibrava potere, potere e una coltre di emozioni pesanti che non aveva voglia di chiamare per nome. Accigliandosi, Tseng portò tranquillamente la mano alla pistola, benché dubitasse che persino un colpo dritto alla testa potesse uccidere Sephiroth.

La voce di lei si fece ancora più sommessa, e Tseng s’immobilizzò, guardando sconvolto i piccoli viticci di vaporosa energia verde – Lifestream – che si alzarono dal suo letto di fiori per cingerle le gambe e accarezzarle il viso come aveva sempre voluto fare lui. Sephiroth fece un passo indietro, abbassando il braccio di colpo mentre la durezza del suo volto si corrodeva e lasciava il posto a una cosa di molto simile allo stupore. Aeris sorrise teneramente, fasciata dai capelli sciolti, e posò due polpastrelli delicati sulla mascella di Sephiroth; l’uomo sobbalzò come se avesse toccato un cavo elettrico, e le spinse di più la mano sulla guancia. In quel momento, Tseng capì di aver perso.

Aveva sempre visto Aeris come la creatura sovrannaturale delle sue fiabe, la regina delle fate. Solo che, certo, lei non aveva mai perso nessuno su cui avesse messo gli artigli; chiunque lei volesse era suo. Persone migliori di assassini e generali sarebbero caduti in disgrazia davanti allo sguardo luminoso di quegli occhi verdi. Questo faceva quindi di lei l’avida ragazza umana, che si faceva influenzare con troppa facilità dai cuori infidi?

Tseng non lo sapeva e non gli importava, non più. Si voltò con una smorfia, non osando guardarsi indietro. I suoi pensieri si strinsero fino a ridursi a un’unica idea, piccola e affilata; era strano che fossero le parole di una fiaba a gorgogliargli in gola, quando non pensava a loro da anni. La scena: la regina delle fate s’infuria quando la ragazza umana si stringe al suo cavaliere, ma alla fine deve adeguarsi. Prima di girare il suo chocobo bianco e svanire nella foresta, inchioda con gli occhi il cavaliere e dice due frasi, solo due frasi che racchiudono tutti i suoi sentimenti, due frasi che erano rimaste latenti dentro di lui fino a quel momento, piene di dolore e rabbia:

Se solo avessi saputo ieri quel che so oggi, ti avrei strappato gli occhi grigi per mettertene due d’argilla.

Si concesse di immaginarsi per un attimo gli occhi verde brillante di Aeris offuscati per sempre dalle sue mani, occhi che non avrebbero più rivisto fiori. Sarebbe stato meglio toglierle la vista che permetterle di guardare con amore qualcun altro. Sarebbe stata l’eroina di una storia tutta sua, gli occhi strappati da un amante respinto. Le sarebbe piaciuto, no…?

Tseng ingoiò l’ultima frase e tutta la propria ira. Aeris non si toccava; in quel senso, era veramente la regina delle fate. Non avrebbe mai potuto farle del male fisicamente – non avrebbe potuto portare a termine il poema. Ma poteva portarla da Hojo, finalmente, un tradimento più viscido di una morte diretta. Almeno, nella morte nessuno sentiva dolore.

Il giorno in cui fu distrutto il Sector 7 tornò alla chiesa. Estrasse la pistola e la puntò dritta alla fronte della bambina. Aeris, inizialmente leziosa, dalla creatura disumana che era, capì presto che quel giorno sarebbe stato diverso. Gli occhi di Tseng erano dischi piatti, blocchi di ghiaccio; era come se non la conoscesse. Avrebbe voluto che fosse così. In cambio della vita di una bimba, la regina delle fate si fece incatenare e umiliare e rinchiudere in una prigione di vetro e metallo.

E lui adorava quella situazione. Vederla umiliata, alla sua mercé, lo inebriava da morire – finalmente! Finalmente, sarebbe stata costretta a provare qualcosa per lui, fosse stato pure solo odio. Finalmente era lui quello col coltello dalla parte del manico. La adorava, quella situazione. Rigirò con più forza il coltello. E le diede uno schiaffo in pieno volto.

Mentre lei si accartocciava nel sedile, una mano sulla guancia, Tseng bisbigliò finalmente la frase finale che aveva tenuto nascosta nel profondo del suo debole cuore. Il rancore gli colò dalle labbra come miele.

E se solo avessi saputo ieri che non saresti più stata mia, ti avrei strappato il cuore di carne per mettertene uno di pietra.” disse, sorridendo.

Aeris soffocò un singhiozzo, gli occhi ancora più grandi e atterriti. Poi li distolse e appoggiò la testa contro il vetro, più bianca della neve.

Era la spaventosa dichiarazione di un amore egoista e vendicativo, una di quelle che lei non avrebbe mai voluto sentire.



Tseng sospirò, e si chiese se non avesse dovuto sedersi piuttosto in quel che rimaneva del confessionale, visto che quel ricordo non era che uno dei suoi tanti peccati. Era come se ogni volta che si trovava accanto a Aeris un certo tipo di follia riuscisse a sopraffarlo; qualsiasi emozione provasse in quell’istante s’intensificava e gli sfuggiva di mano. Il suo amore per lei era una semplice passione disperata. Non che questo attenuasse i rimpianti che lo assalivano quando pensava a lei, e al modo crudele in cui l’aveva trattata.

Se solo avesse saputo anni prima quello che sapeva oggi, a furia di guardare Cloud Strife e la sua allegra combriccola proseguire per la loro strada senza di lei, non l’avrebbe mai picchiata a bordo dell’elicottero. Non ce l’avrebbe neanche fatta salire su quell’elicottero, e lei sarebbe stata felicemente al suo fianco, lontanissima da Midgar. Avrebbe fatto tutto per bene. Se solo avesse saputo.

Tseng poggiò l’illustrazione sul banco, la appiattì un po’ ma si rifiutò di guardarla ulteriormente. Gli tremavano le mani.

Non avrebbe mai dovuto morire; lei non aveva età, come l’oceano. Se c’era qualcuno che meritava una morte violenta, quel qualcuno era lui, che aveva ucciso tanti e già stava affogando sotto il peso di tutti i sensi di colpa. Ma sarebbe morto prima di rivelare ad anima viva i segreti che aveva visto svolgersi all’interno della chiesa; sapeva di essere il solo a sapere della relazione di Aeris e Sephiroth, di qualunque tipo fosse stata, e se la sarebbe portata nel Lifestream quando sarebbe finalmente giunta la sua ora. Cloud, che vedeva il mondo diviso nettamente tra bene e male, non avrebbe mai compreso lo strano magnetismo che era esistito, anche se solo per un breve periodo, tra un Generale e una fioraia.

Adesso che ripensava a tutto, si rese conto di essersi completamente sbagliato – Aeris non era la regina delle fate. Non era il cavaliere, non era la disperata ragazza umana. Lei faceva parte di tutta un’altra storia. Era una creatura del mare arenata sulla terraferma che, incapace di sollevare il pugnale e colma di troppo amore per un cuore mortale, era tornata nelle acque fredde. Tseng guardò la chiazza di cielo visibile, e immaginò cos’avrebbe potuto dire in quel preciso momento se non fosse stata spuma marina, che danzava solitaria sull’orlo di onde grigie in un luogo molto lontano.

Torna alla storia, alla tua storia, mormorò, sorridendogli prima di svanire nella marea.



NDT: e mi sono fatta pure la Sephiroth/Aeris accennata, via XD Anche questa l’avevo tradotta per spammare il contest Tserith di ValyChan… :D Ce ne sarebbe anche un’altra, ma l’autrice non la trovo quindi basta XD
Questa storia è, effettivamente, un po’ incasinata pure dal punto di vista dei tempi verbali. Durante la prima parte non sapevo se usare il passato remoto, l’imperfetto o il trapassato… Ma spero sia risultata comprensibile e non troppo sgradevole D:
Alla prossima, e viva le fiabe.
youffieh.
   
 
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