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Autore: Adrienne    27/09/2009    7 recensioni
E cerco su di me la tua pelle che non c'è...
Una storia piena di dolore, ma soprattutto di amore. E pelle.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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è facile sai

è facile sai
averti
se chiudo i miei begli
occhietti spenti

 

 

La tua presenza è qui, è costante, è un'abitudine. Una dolce, dolcissima, abitudine a cui non potrei mai stancarmi. Tu non sei un pensiero, non sei un'ossessione, non sei qualcuno che amo ma sei semplicemente il sangue che pompa dal cuore alle vene, sei respiro, sei labbra che si mordono e sei raggi di sole che colpiscono occhi chiari. Sei pelle. Tutto si spegne se tu non ci sei, tutto crolla, e se non ci sei diventi il vuoto nel mio cuore, il vuoto nei polmoni e nell'esofago, labbra secche e oscurità, iridi nere e grandissime.
E tu lo sai, oh, e fai finta di esserne ignaro.

“Aurora,” mi disse, “Vieni qui.”
Mi allontanai dalla finestra e mi voltai a guardarlo. Era lì, bellissimo, ed era lì per me.
Lo raggiunsi e lui allungò le braccia, avvolgendomi in un abbraccio. Mi lasciai cullare dalle sue braccia forti e ormai familiari, stringendolo a mia volta.
“Andrea...” sussurrai, vicino al suo orecchio.
Senza un perché, senza avere motivazioni, senza capirne il senso, spinti dal bisogno o non so cos'altro, senza ragioni comprensibili, il mio corpo si adagiò sul copriletto di ciniglia rosso, e il suo, di corpo, si poggiò sul mio. Entrarne in contatto fu come prendere la scossa, per me, anche se di certo non era la prima volta. Allungai le braccia lungo il letto come per dichiararmi innocente e lui mi afferrò delicatamente i polsi. Mi scrutò a lungo negli occhi, e scosse la testa.
“Forse non è giusto... Io...” cominciò.
“Se è con te, è sempre giusto.” gli dissi, con una semplicità e una sincerità disarmante.
Andrea mi fissò ancora a lungo, per me avremmo potuto continuare così per ore.
Ma chiusi gli occhi e mi abbandonai al fruscio dei miei vestiti che abbandonavano il mio fragile corpo pallido; al bruciore che lasciavano i suoi baci sulla mia candida pelle.




e cerco su di me
la tua pelle che non c'è

 


Essere una fotografa è più difficile di quel che si pensi.
Non si tratta solo di aver qualcosa da fotografare e di premere un pulsante, ma è questione di magia e di chimica. E' emozione, è paesaggio, è persona; amore, dolore, luce, buio, tutto e  niente. E' ottenere l'attimo perfetto, catturarlo dentro un obiettivo da 50mm, e poi poterlo racchiudere in un pezzo di carta plastificata capace di scaturire emozioni.
Stavo armeggiando con alcuni vecchi rullini, quando il mio cellulare squillò. Mi irritai: dimenticavo sempre di spegnerlo quando lavoravo. Lo estrassi dalla tasca e risposi senza neanche guardare il numero.
“Pronto?” risposi.
“Ehi, disturbo?” mi disse. Mi conosceva meglio di chiunque altro, e quindi sapeva dal mio tono di voce che ero scocciata.
Improvvisamente mi calmai. “No, no. Ciao, Andrea.” sospirai, socchiudendo di poco gli occhi.
“Ciao, Aurora.” disse, e seppi che stava sorridendo. “Che stai facendo?”
“Stavo lavorando.”
“Allora ti disturbo davvero!”
Risi. “No, Andrea, quante volte devo dirtelo? Non mi disturbi mai.”
Il suo sorriso, se possibile, si fece ancora più largo; sapevo anche questo.
“Allora, più tardi che cosa farai?” chiese, allegro.
“Non lo so... Fra qualche ora mangio un panino veloce, lavoro ancora fino a stasera. Tu?”
“Oh, niente, devo passare dall'università fra una mezz'oretta, ma più tardi non ho nulla da fare. Ti andrebbe di andare fuori a cena con il sottoscritto? Ha aperto un nuovo ristorante che...”
“Andrea,” lo interruppi, la mia voce si fece triste, “Mi dispiace, ma non posso.”
Lui esitò per qualche momento, rimase in silenzio. “Cosa c'è che non va?” chiese soltanto, ma dal suo tono di voce sapevo che aveva già capito.
“Io non posso... Credo che ci sarà Luca, stasera, a casa.”
Silenzio.
Sapevo che Andrea aveva deglutito con difficoltà e non sorrideva più, anzi.
“Mi dispiace.” ripetei, dato che ancora lui non diceva nulla.
“Non importa,” mi rispose, con un tono di chi faceva finta che davvero non importasse nulla, “Non ti preoccupare. Sarà per un'altra volta. Ci vediamo presto.”
Io avrei voluto ancora chiacchierare, ma forse non era più il caso. Ogni volta che si parlava di Luca, Andrea diventava strano. Forse era normale, del resto... Era così che doveva andare; ma per me, era solo fastidioso.
Andrea mise giù senza aspettare che lo salutassi. Sospirai triste, appoggiai il cellulare sul bancone e osservai la composizione di polaroid appese al muro, immobile sul mio sgabello di legno.
Chi era Luca?
Luca era il mio ragazzo.




poi ti entro, in fondo
dentro, lo sai
soltanto per capire chi sei



Gli anni del liceo. Sono spensierati, per quanto non possa sembrarci così, quando li viviamo.  Lo studio, i professori, il pensiero costante della maturità, gli amori non corrisposti, brufoli, vestiti, scritte nei diari, le prime sbronze colossali, evidenziatori gialli, amiche, uscite, sigarette. Era così, la mia vita. E poi, c'era Andrea.
Avevo diciotto anni e frequentavo un liceo classico. I miei capelli erano lunghissimi e avevo sempre un fermaglio sul lato destro della testa. Ero bella, almeno così dicevano, e terribilmente insicura di me. Non mi piaceva studiare, mi affannavo sui libri per raggiungere la sufficienza, e non vedevo l'ora di uscire da quel carcere minorile, da quello che io credevo fosse l'inferno. Scattavo un sacco di foto con la mia Canon digitale; cose, persone, luoghi. La punta rotta della matita. Il cane che abbaiava. Il lampione arancione. Il libro di filosofia. Due ragazzi che si baciavano nell'atrio della scuola. Mia madre che sbraitava contro mia sorella. Un paio di occhiali con la lente rotta. Le nuvole rosa dopo il tramonto. I ricci neri di Andrea. Ecco, era su queste cose che volevo perdere il mio tempo, come mi ripetevano i miei genitori almeno una volta al giorno. Mi rendevano felice.
Andrea non frequentava il mio stesso corso, era stato bocciato al terzo anno ed era il classico ribelle scansafatiche. Si faceva le canne nel bagno del maschi ogni tanto, portava un giubbotto di pelle nera tutto l'anno - finché almeno non faceva troppo caldo - e aveva dei ricci neri che gli cadevano sugli occhi di un verde chiaro. Portava un anello d'argento al pollice sinistro ed aveva un sorriso capace di stenderti all'istante, anche a chilometri di lontananza. Era un idolo per le ragazzine del primo e del secondo anno, che scrivevano il suo nome ovunque sui muri della scuola. Era degno di rispetto per alcuni ragazzi, un coglione strafottente per altri. Ma chiunque, chiunque, parlava di lui. Tutti lo conoscevano. E non importa se bene o male, l'importante è che se ne parli.
Io l'osservavo da lontano, nei corridoi o alle assemblee d'istituto. Sembrava sempre fuori posto, come se fosse capitato lì per caso, ed era proprio per questo che mi piaceva: perché sembrava essere come me. Ero innamorata di lui, come tutte, ma sapevo che Andrea sarebbe solo rimasto un sogno dentro la mia testa, un nome dentro il mio cuore: sarebbe stato solo delle immagini di brividi inesistenti, baci mai dati e di sguardi mai ricambiati.
Una mattinata di gennaio, presi a calci la macchinetta delle merendine al secondo piano, perché mi aveva fregato un euro senza darmi nulla in cambio. Lui mi aiutò, le diede un ultimo – ottimo - calcio e alla fine mi offrì un caffè, da un'altra macchinetta.
Parlammo a lungo mentre bevevamo i nostri caffè dai bollenti bicchierini di plastica marrone. Era terribilmente bello, e simpatico, e scoprii anche che era intelligente; forse un tipo del genere non poteva essere altrimenti.
Ero innamorata di lui, come tutte, con la differenza che riuscivo a nasconderlo perfettamente agli occhi di tutti, specialmente ai suoi, perché non volevo che mi considerasse una delle tante. E soprattutto perché sapevo che non mi avrebbe mai ricambiato, forse per lui ero l'ennesima ragazzina in fondo; quindi era meglio stare al sicuro, non sbilanciarsi, non dire nulla. Non avrebbe avuto senso.
Nonostante la mia insicurezza, fu spaventosamente facile parlargli e ridere con lui, era tutto molto naturale. Per qualche strano motivo, disse di trovarmi simpatica e cominciammo a passare molte ricreazioni e ore buche insieme.
Da quel giorno io e Andrea diventammo amici. Migliori amici. Parlavamo di film e fumetti, bevevamo litri di caffé, facevamo finta di studiare e ci chiudevamo in camera mia ad ascoltare i vecchi vinili di Hendrix di mio padre. Passavamo notti insonni sulla terrazza di casa sua, guardavamo le stelle fumando sigarette o, saltuariamente, canne. Discutevamo di sogni, facevamo progetti, desideravamo visitare insieme paesi e luoghi che avevano vissuto solo dentro la nostra testa. La nostra amicizia era fatta di speranze, di musica, di promesse e di risate e mi bastava, eccome se mi bastava. Era troppo perfetto per essere vero. Entravamo raramente in contatto fra di noi, ma era come se un filo invisibile ci collegasse. Non c'era bisogno di toccarci, eravamo in sintonia. In collegamento.
I primi di giugno ci fu una festa, nella nostra scuola, per tutti i maturandi. Quello era il nostro ultimo anno lì e pensai che molto probabilmente sarebbe stata la mia ultima festa per chissà quanto tempo. Non avevo intenzione di andare all'università, studiare non faceva per me. Andrea voleva frequentare la facoltà di Lettere Classiche, se gli riusciva, nonostante il suo temperamento anticonformista.
Dopo molte indecisioni, io e Andrea andammo alla festa. Fu mediamente divertente, c'erano molte facce simpatiche e conosciute, tanta birra e musica un po' troppo scadente. Andrea era circondato da ragazze e vedevo che si divertiva, sapeva di avere fascino e sapeva di essere al centro dell'attenzione. Era magnetico. Aveva il controllo su tutti, l'aveva sempre avuto, e lo sapeva.
Una ragazza bionda si strusciò su di lui e lui le mise una mano attorno alla vita. Per allontanarla o attirarla a sé, questo non lo saprò mai. Quella vista mi fece venire voglia di piangere e mi voltai di scatto, allontanando quella visione rivoltante dai miei occhi, e andando a sedermi in un angolo della sala. Accartocciai il mio bicchiere di plastica ormai vuoto in una mano. Non avevo mai visto Andrea con una ragazza, non me ne aveva mai neanche parlato, di ragazze! Ero arrabbiata ma, allo stesso tempo, tremendamente triste. Per qualche strano motivo, consideravo Andrea mio, di mia proprietà, anche se sapevo che non era così, non stavamo insieme, eravamo solo amici. Ma questo non cambiava le cose: ero gelosa. Gelosa, e sicuramente ai suoi occhi dovevo anche sembrare brutta, stupida, grassa, idiota, una pianta ornamentale, e in fondo lo ero veramente. Non avevo mai neanche baciato un ragazzo.
Abbassai lo sguardo sulle mie gambe e quasi cominciai a piangere, quando sentii delle dita picchiettarmi la testa. Rialzai lo sguardo e incrociai gli occhi verdi di Andrea.
“Ehi, che ci fai qui?”
Il suo sguardo mi disarmò. Ordinai ai miei occhi di smettere di luccicare per le lacrime, e non seppi che rispondere. “Niente!” dissi, dopo qualche attimo di esitazione, sulla difensiva.
Andrea mi scrutò, capì che c'era qualcosa che non andava. Mi alzai dalla sedia, standogli di fronte. “Che aborto di festa,” commentai guardandomi attorno velocemente, “Io me ne vado.”

“Perché?” chiese lui, aggrottando la fronte. “E' ancora presto, dai, rimani con me.”
“Non mi va più di stare qui,” dissi, sfuggendo ai suoi occhi che, ancora, mi fissavano.
Andrea rimase in silenzio, sapevo che non ci sarebbe voluto molto tempo prima che avesse capito cosa mi stava succedendo, ma ero ancora arrabbiata e non riuscii a fermarmi.
“E poi tu non hai bisogno di me per stare qui. Hai la tua ragazzetta bionda con cui stare, no? Allora stacci, non avrai bisogno di me!” sbottai, ritornando a guardarlo, con un'espressione a metà fra il triste e l'arrabbiato.
Ovviamente Andrea capì e con mia grande sorpresa, scoppiò a ridere.
“Ridi pure?” gli chiesi, offesissima. Feci per allontanarmi ma Andrea mi trattenne per un braccio. La musica pulsava attorno a noi ed era troppo assordante, mi faceva male lo stomaco.
Andrea mi fissò sorridendo. “Sei gelosa.” disse, e ovviamente non era una domanda.
“Io? Ma quando mai?” dissi istericamente, ma sapevo che ormai mi ero tradita.
Andrea rise di nuovo. “Sei gelosa... E tanto, anche.”
Non dissi nient'altro, era vero. E lui me lo leggeva negli occhi. Che senso aveva contraddirlo ancora? Avrei voluto ribattere con qualcosa di terribilmente intelligente ma avevo la lingua impastata e allo stesso tempo sentivo che la rabbia stava diminuendo.
“Non ti devi assolutamente preoccupare, Aurora,” continuò Andrea, lasciandomi il braccio e mettendo una mano sulla mia spalla. “Non corri nessun rischio. Lo sai già, io ti appartengo.”
E anche in questo caso avrei voluto dire qualcosa, ma non mi fu possibile. Andrea poggiò l'altra sua mano sulla guancia e si avvicinò al mio viso per baciarmi.
Le sue labbra si unirono alla mie, e tutto scomparve. Avrei voluto avere la mia macchina fotografica, mettere l'autoscatto e immortalare quel momento per l'eternità. Ma sapevo già che dentro il mio cuore, dentro la mia mente, avrei rivissuto quel lungo, infinito attimo tutte le volte che ne avrei avuto voglia. Non l'avrei mai, mai più dimenticato.
Fu un bacio lungo e tanto, tanto dolce. Ecco, in quel momento trovai il mio posto nel mondo. Era lì, accanto ad Andrea.
Ero innamorata di lui, come tutte, con la differenza che io lo amavo davvero.
E che anche lui amava me. Me.

 

 

forse sei un congegno che
si spegne da sé

 

Prendemmo il diploma, finalmente. Ora davanti a noi c'era un'estate da poter passare assieme, senza alcun pensiero, l'ansia degli esami svanita nel nulla. Ci divertimmo, ovviamente. E ora che eravamo finalmente entrati in contatto del tutto, fra di noi, non riuscivamo più a farne almeno.
Mare, sabbia fra le dita e i capelli, tanti vinili e crêpes alla Nutella. Baci, baci violenti, baci a fior di labbra, baci con la lingua, baci sul collo, baci sul seno, baci sul ventre. Milioni di fotografie stupide, bellissime ed inutili appese sui muri. Cocktails colorati, ombrellini di carta, e sempre lo stessa canzone di Hendrix nelle orecchie.

“Per sempre.” mi sussurrava talvolta Andrea vicino all'orecchio, scostandomi quei lunghi capelli che ancora non mi ero decisa a tagliare.

Stavamo meravigliosamente bene assieme ed avevamo la convinzione che sarebbe durato davvero per sempre, come lui aveva detto. L'amore, quella prima volta sul suo grande letto matrimoniale, di notte, il silenzio della città a tenerci compagnia, rimanere nudi a parlare e a ridere, il mio sorriso totalmente felice ed incancellabile sulle labbra, la sua mano che scorre lenta lungo il mio braccio.
Sulla strada statale a centocinquanta chilometri orari con i finestrini abbassati e Jim Morrison con la sua The End.
This is the end beautiful friend, this is the end my only friend. Nessuno dei due, specialmente io, poteva sapere che quella canzone descriveva perfettamente quello che dietro l'angolo, ansiosamente, ci aspettava. Lei, la fine. Rovina sempre tutto.
Andrea ad agosto mi comunicò che doveva partire. Aveva deciso di frequentare una facoltà fuori sede, perché quella più vicina era pessima, perché non aveva e non voleva di certo raccomandazioni per passare gli esami ed andare lontano era l'unica soluzione per studiare tranquillamente.
Dovevamo dividerci. E le spese che avrebbe fatto – appartamento, tasse, affitto - non gli garantivano di poter venire a trovarmi tutte le volte che voleva. Era troppo difficile. E non sapeva se una storia a distanza avrebbe funzionato.
Of our elaborate plans, the end. Of everything that stands, the end. No safety or surprise, the end: I'll never look into your eyes, again.
Avevi ragione, Jim.
Quella era la fine, e fu come morire. Mi abituai ad una vita senza Andrea. Fu strano: ormai il fatto che la mia esistenza girasse attorno a lui era una cosa normalissima. Ma non era più così, e la cosa più terribile è che non potevo fare assolutamente nulla per cambiare le cose. Dovevo accettarlo.
“Forse è meglio per tutti e due,” aveva detto Andrea.
Quella frase mi aveva fatto passare la voglia di propormi di essere io, ad andarlo a trovare, ovunque fosse andato, e non gli dissi che avremmo dovuto continuare a stare insieme nonostante tutto, e che una soluzione l'avremmo trovata, che i soldi non erano un problema. No, semplicemente mi morsi la lingua e accettai tutto quello passivamente, ma col dolore nel cuore. Forse non mi voleva fra i piedi, pensai. Forse era felice di farsi una nuova vita, senza di me.
Forse era meglio per tutti e due.
Poco tempo dopo, mentre facevo delle foto in giro per la città, incontrai Luca.
Luca era un ventenne pieno di vitalità, con grandi occhi azzurri e capelli biondo cenere. Era un figlio di papà, schifosamente ricco, futuro erede di una ricca società Italiana, ma con un umorismo e una carica travolgente. Stava sempre in movimento, ed era una persona ottimista e solare - ormai ne rimanevano davvero poche.
Si innamorò di me la prima volta che mi vide, là, con la reflex in mano, la fronte corrugata per la concentrazione. Almeno così mi disse, tempo dopo.
Cominciai lo stesso ad uscire con Luca. Mi portava in posti esclusivi e raffinati e mi sentivo sempre più fuori posto, come se fossi ritornata al liceo. Pensavo all'abisso delle due situazioni: quando c'era Andrea, avevo finalmente capito qual era il mio posto. E adesso, invece, mi sentivo più inadatta che mai ed ero ormai sicura che niente sarebbe più tornato come prima.
Io e Luca ci baciammo per la prima volta nella veranda del suo grande attico in centro città, con grandi coppe di costosissimo champagne in mano. Fu bello, sarebbe da stupidi non ammetterlo, e per un secondo mi sentii felice, perché sapevo che Luca mi amava, perché sapevo che qualcuno mi poteva amare ancora. Ma io, io sarei riuscita ad amare ancora?
Da allora diventammo una coppia fissa, mi presentava a uomini e a colleghi importanti di suo padre come la sua ragazza, mi presentò persino ai suoi genitori – io non lo presentai mai ai miei, inventavo sempre ridicole scuse – e vedevo nel suo modo di guardarmi, di studiarmi, di fissarmi, qualcosa che andava oltre l'amore, qualcosa che rasentava l'adorazione.
“Voglio stare con te per sempre.” mi diceva.
Per sempre? Quelle parole facevano davvero molto male.
Era triste. Quel che provavo per Luca non era comparabile a quello che sentivo per Andrea, a  quella sensazione per cui mi sembrava di farmi totalmente trascinare dalla sua essenza, dai suoi gesti, dal suo essere, come se fossi malleabile tra le sue mani, pronta a farmi modellare. Luca era una persona totalmente diversa, e mi stava facendo scoprire un altro lato dell'amore, un lato diverso e strano al quale non ero abituata. Non era travolgente, passionale, non mi lasciava senza fiato, non sentivo i brividi quando mi toccava o mi diceva qualcosa di carino. Stavo con lui semplicemente perché mi ero rassegnata, perché pensavo che fosse tutto quello che ora la vita aveva da offrirmi, dopo aver perso uno come Andrea, e che era meglio se lo accettassi. Alla fine, era meglio che non avere niente. Non ero fatta per stare da sola.
Luca mi chiese di comprare un appartamento e di andare a vivere con lui. Accettai, a patto che anch'io avessi fatto la mia parte e che quindi avessimo pagato a metà. Era ricco, ma io non ero una persona viziata o accondiscendente. Luca permise che pagassi un quarto del tutto, e solo questo significò lapidare i miei risparmi.
Era un appartamento molto carino e Luca mi chiese di arredarlo come meglio volevo. Non badò a spese quando scelsi tappeti costosi o lampade stranissime, quando volli le mattonelle della cucina rosse e una stanza oscura per le mie foto. Per questo, lo ringrazio ancora ogni giorno.
Lui era molto felice ed io mi sforzavo di esserlo.
“Sei felice, Aurora?” mi chiedeva ogni tanto.
“Ma certo, Luca, perché non dovrei esserlo?” mentivo.
Luca non diceva nient'altro, non insisteva, ma sapevamo entrambi che quella risposta non lo soddisfaceva mai.
Passarono i mesi, tutto procedeva tranquillo. Mi sbronzavo di champagne costoso insieme ai suoi amici, che ormai erano anche i miei, alle cene non avevo problemi ad ordinare ostriche e gamberi freschi, Luca mi regalava abiti firmati e accessori per la reflex da cifre da capogiro. Avevo una vita adagiata, senza dubbio, ma ancora non riuscivo ad essere felice, perché non era di certo attraverso gli oggetti che avrei potuto ritrovare la felicità, ovviamente. Ormai mi ero abituata a quella perenne situazione di incontentezza, di instabilità. Le uniche cose costanti erano le milioni di foto sparse in giro per casa. A Luca piacevano molto, appoggiava totalmente questa mia passione che ormai era diventata un lavoro, ed adorava farsi fotografare da me.
Un giorno qualunque un numero sconosciuto apparve sul display del mio cellulare.
Risposi e sentii solo silenzio. Silenzio, nient'altro.
E lo riconobbi.
“Andrea...?” sussurrai, con la voce spezzata.
“Aurora...” sussurrò di rimando quella voce dall'altra parte della cornetta.
Piansi. Piansi tutte le lacrime che non avevo avuto il coraggio di piangere. Era come un fiume in piena, una volta iniziato era difficile – quasi impossibile – smettere. Andrea ascoltò pazientemente tutte le mie lacrime, non osò dire nulla mentre mi sfogavo.
Quella sera stessa ci incontrammo.
Ci abbracciamo per mezz'ora, immobili, senza dire nulla. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che ci eravamo visti e non era per niente cambiato, era stupendo come sempre, ricordavo ancora bene le sfumature dentro le sue iridi verdi. Mi disse che ero bellissima anche con quei capelli così corti.
Cenammo insieme, chiacchierammo. Era come tornare a casa dopo una lunga vacanza, perché mi sentivo tranquilla e al sicuro. Mi disse che si era stancato della vita che aveva condotto fino a quel momento e aveva ottenuto il trasferimento per poter continuare gli studi lì, dove io ancora vivevo; mi disse che aveva raccolto abbastanza soldi lavorando come cameriere da potersi permettere un affitto più o meno decente perché voleva continuare a vivere solo, anche se i suoi genitori lo stavano aiutando molto.
“E' semplicemente meraviglioso.” commentai soltanto, gli occhi mi luccicavano dalla gioia, e vedevo il mio viso riflesso nei suoi. Non mi riconoscevo più in quel modo.
Ci baciammo a lungo. Chi era Luca? Me ne dimenticai, non l'avevo mai sentito nominare.
“Ti amo, Aurora. Perdonami di tutto.” disse all'improvviso Andrea, mentre ci baciavamo.
Mi strinsi di più a lui, affondando una mano sui suoi ricci sulla nuca. Lo fissai triste.
“Anche io ti amo, Andrea. Ti amo più di ogni altra cosa e persona al mondo.” risposi.
Lui sorrise e mi poggiò una mano sul viso. “E perché lo dici con quell'aria triste?”
Tutto quello era davvero bellissimo, ed ero finalmente felice, lo giuro. Ma dovevo affrontare la realtà delle cose, e lui doveva sapere.
Sospirai, facendo una pausa. “Io... io non so da dove cominciare. Forse prima c'è il tuo viaggio. L'università. Le foto. L'appartamento. No, no. C'è... Luca.”
Raccontai, vomitai tutto. Andrea mi ascoltò per tutto il tempo. Non disse niente mentre parlavo, la sua espressione non mutò. Quando finii, stavo per mettermi a piangere di nuovo, quello era troppo per me.
“Dove sta il problema, Aurora? Lascialo.” disse soltanto.
“Non posso!” dissi automaticamente.
“Perché non puoi? Non hai detto di amare me?” ribatté, corrugando la fronte, contrariato. Era già geloso?
“Amo tutti e due. E non voglio che soffra, lui sarebbe perso senza di me.”
Non potevo lasciare Luca. Tutto si sarebbe rovinato, Luca avrebbe sofferto come un cane per causa mia. Non avrei semplicemente dovuto mettere in scena quella farsa sin dall'inizio: era troppo tardi. Non speravo più che Andrea si sarebbe fatto vivo, era come se fosse morto e sapevo che non l'avrei mai avuto più indietro. E adesso? Cosa dovevo fare? Fissai Andrea negli occhi, e piansi ancora. Mi abbracciò.



E puoi maledire la tua bocca

se sbagliando mi chiama

quando lui ti tocca

Io e Andrea diventammo quel che normalmente vengono definiti amanti.
Io, piuttosto, preferivo definirci innamorati.
Luca la sera era spesso fuori, impegnato col lavoro del padre che ormai diventava vecchio, oppure con qualcuna delle solite cene mondane a cui io non partecipavo poiché dichiaravo un insolito mal di testa.
Fuggivo da Andrea quasi ogni sera, andavamo in posti dove sapevamo che nessuno che ci conosceva ci avrebbe visto, spesso finivamo sul suo letto rosso a fare l'amore, ci spogliavamo e le ore volavano così, a scambiarci tutto quello che ci eravamo persi, a coprire le distanze, a sfamarci. Soffrivamo entrambi quando eravamo separati, ma in quelle ore in cui ci vedevamo era come se tutto fosse come una volta, prima che lui andasse via. Non esisteva nient'altro e nessun'altro.
La mia impossibilità di lasciare Luca ci faceva diventare matti, specialmente era lui ad impazzire. Non doveva essere facile sapere che avrei condiviso lo stesso letto con qualcun'altro, che avrei baciato qualcun'altro, che magari avrei fatto sesso con qualcun'altro che non era lui.
Ma sfuggivo e mi sottraevo a Luca quando stavo con lui, e non era una cosa nuova. Lo facevo spesso. Luca sapeva che ero alquanto lunatica e non protestava mai. Non diceva mai niente se ero taciturna a tavola, se piangevo senza senso, se ero nervosa e gli rispondevo male, se lo scostavo bruscamente quando provava a carezzarmi, se non facevamo più l'amore da mesi interi ormai. Lui mi amava, e nel tempo aveva imparato ad amare tutte le mie stranezze e i miei difetti, e soprattutto tutta quanta la mia bizzarra, incomprensibile tristezza.
Andrea mi faceva regali che ero costretta a nascondere in fondo all'armadio. Andrea mi lasciava succhiotti sul collo che ero costretta a coprire con chili di fondotinta e cipria. Andrea mi lasciava il suo profumo addosso ed ero costretta ad infilarmi sotto la doccia per cancellare qualsiasi traccia di lui, una volta tornata a casa. Stavamo attenti agli orari e facevamo in modo che non fosse mai troppo tardi, che non rischiassi di tornare a casa dopo di Luca. Fortunatamente lui non rientrava mai prima di mezzanotte, e se lo faceva mi chiamava al cellulare. Allora eravamo costretti a volare via, a darci frettolosi baci d'arrivederci e a soffrire in silenzio.
Non parlai mai a Luca di Andrea, era meglio che ignorasse del tutto la sua esistenza, neanche come mio migliore amico. Avrebbe evitato qualsiasi sospetto, qualsiasi probabile cedimento da parte mia. Diceva sempre di amarmi e io gli rispondevo con un sorriso. Non ero neanche più in grado di mentire, di mormorare anch'io. Mi sentivo un verme nei confronti di Luca. Ma Andrea era tutto per me, era la mia croce e la mia delizia, e se avessi rinunciato ancora una volta a lui, sarei morta sul colpo.
Le mie foto erano brutte e vuote, e dopo averle sviluppate, le osservavo, cercando di trovarci qualcosa che fosse buono. Facevano schifo. Tutto quello che mi stava succedendo, tutto il dolore e l'ansia, tutto si riversava nelle mie foto. Prendevo l'accendino e le osservavo ancora mentre bruciavano, ricordi dissolti, errori cancellati. Avrei voluto dare fuoco al mio più grosso errore con quell'accendino, così come facevo con le mie fotografie. Poi le buttavo nel lavandino della cucina, aprivo l'acqua e il fumo si espandeva per la stanza. Piangevo lacrime amare chiedendomi dove fossi finita, che cosa avessi mai fatto, e concludevo col pensare che non meritavo tutto quello, che stavo sbagliando, che forse avrei dovuto uscire allo scoperto e basta.
Andrea asciugava le mie lacrime, era l'unico che potesse farlo, che capisse da cosa erano scaturite. Il suo sorriso aveva capacità curative. Questa semplicità era disarmante e l'abbracciavo e basta, non avevo forza per fare o dire nient'altro.
Andrea ogni tanto mi ricordava che avrei sempre potuto lasciare Luca. Ma dal mio sguardo, sapeva che aveva fatto male a parlare. Non potevo lasciare Luca. Ci provavo, davvero, ci provavo ma poi le parole rimanevano bloccate in gola quando incrociavo il suo sguardo e mi inventavo stupide scuse come Niente, hai il nodo della cravatta fatto in maniera sbagliata, vieni qui che te l'aggiusto. In una maniera distorta ed incomprensibile, avevo anche bisogno di lui, e del pallido sentimento che provavo per lui, che di certo non era amore, ma forse era affetto. Non lo sapevo con esattezza neanche io.
Spesso io e Andrea ascoltavamo di nuovo il vecchio vinile di Hendrix, che avevo portato con me nella mia nuova casa, e fumavamo sigarette, come ai bei vecchi tempi. Sorridevamo di nostalgia, sembravamo due vecchi pronti alla pensione o non so che altro.
Insomma.
La composizione di polaroid faceva un po' schifo, ma Luca aveva insistito tanto perché l'appendessi. Del resto era inutile protestare: nell'ultimo periodo non ritenevo nessuna mia foto bella. Ancora una volta la tristezza era piombata su di me. Mi affrettai a cancellare le chiamate di Andrea sul registro del cellulare, e in quel preciso momento sentii aprirsi la porta di casa.
“Amore,” disse la voce di Luca, “Ci sei? Sono a casa.”
Luca quel giorno era strano. Era sfuggente, freddo, sembrava nervoso. Gli chiesi se fosse successo qualcosa, mi rispose che andava tutto bene. Non capivo e cominciavo a sudare freddo. Che avesse sospettato qualcosa? Che sapesse?
Aveva anche fatto la spesa e sbirciai fra i sacchetti di plastica appoggiati al bancone della cucina.
“Ehi, ma cosa hai comprato?” chiesi, sembrava esserci veramente un sacco di roba, ma Luca mi spinse via.
“Torna di là, Aurora. Stasera ho in programma di prepararti una bella cenetta, ti chiamo quando è pronto, ok?” disse, con un sorriso.
Mi rilassai un po'. Era impossibile che sapesse, allora. Gli sorrisi e uscii dalla cucina. Mi feci un lunghissimo bagno caldo, asciugai i capelli, mi vestii, stetti un po' al computer e poi finalmente Luca mi chiamò, dopo un tempo che mi sembrò interminabile. Il profumo che aleggiava per la casa prometteva bene.
“La cena è servita!” disse non appena entrai in sala di pranzo.
C'era la tovaglia bianca di lino. Il tavolo era stato apparecchiato con i piatti di porcellana, le coppe di cristallo, una candela accesa al centro. I tovaglioli, anch'essi di lino, le posate d'argento, una rosa rossa accanto alla candela. Rimasi senza parole, lo guardai sbigottita.
“Hai intenzione di rimanere là? Dai che si raffredda!” disse Luca con una risata, divertendosi nel guardare la mia reazione.
Mi avvicinai al tavolo, Luca mi spostò galantemente la sedia facendomi posto ed io mi sedetti, poi lui mi imitò. Eravamo uno di fronte all'altra.
“Non so cosa dire... A cosa devo tutto questo? Ho dimenticato qualche ricorrenza importante?” dissi sinceramente, fissandolo. La fiamma della candela rifletteva sui suoi occhi e lo guardai attentamente. Era davvero bello quando sorrideva in quel modo, però. Mi prese una mano che avevo appoggiato sul tavolo e la strinse nella sua.
“Volevo solo stare un po' con la mia bellissima fidanzata, non lo facevamo da tempo ormai.” disse.
Deglutii sonoramente e poi gli sorrisi. “Già, hai ragione. E' bellissimo, Luca. ”
Meglio cambiare subito discorso. Mi appoggiai il tovagliolo sulle gambe e guardai il mio risotto alla zucca. Aveva un aspetto delizioso. “Wow, sei sicuro d'aver cucinato tutto tu?” lo presi in giro.
“Spiritosa!” commentò lui, e ridemmo entrambi. Per la prima volta dopo la ricomparsa di Andrea, sembrava esserci un po' di serenità fra me e lui. Ma sapevo che c'era qualcosa che non andava, lo sapevo, avevo una bruttissima sensazione addosso. Magari sapeva tutto e il cibo era avvelenato...
Parlammo tranquillamente, durante la cena. Lavoro, gli ultimi pettegolezzi, cose semplici e banali. Però fu abbastanza piacevole e il cibo era squisito, Luca era davvero un ottimo cuoco, sicuramente migliore di me. Poi arrivò il dolce: profiterole al cioccolato con panna.
Luca me lo mise davanti e avevo già afferrato il cucchiaino per divorarlo, quando parlò, con voce seria.
“Aurora.” disse soltanto.
Conoscevo quel tono: stava per dirmi qualcosa d'importante. Alzai lo sguardo su di lui, posai il cucchiaino accanto al piatto e deglutii di nuovo.
“Luca, dimmi.” dissi, sostenendo il suo sguardo, fissandolo seriamente.
“Ecco, in realtà, c'è un altro motivo, per cui ho fatto questa cena...” disse lentamente.
Non parlai, ricominciando a sudare freddo. Sentivo una sgradevole sensazione di disagio e preoccupazione proprio all'altezza della bocca dello stomaco.
“Sarebbe?” incalzai, dato che non diceva più nulla.
Luca fece un sorriso quasi imbarazzato, smise di guardarmi e frugò nella tasca dei suoi jeans. Ne estrasse una scatolina di velluto blu, che mi porse tenendola sul palmo aperto della mano.
La guardai senza dire nulla, poi guardai lui. Luca mi sorrise speranzoso. Adesso tutta la cena mi ribolliva nello stomaco: per poco non gli vomitai tutto addosso.
“Io...” mormorai, ma Luca mi zittì.
“Aspetta. Aprila.”
Con mani tremanti mi costrinsi a prendere la scatolina fra le mani e ad aprirla.
Un anello mi brillò davanti gli occhi. Il brillante era scintillante – e sicuramente costosissimo! -  e sentii la scatolina terribilmente pesante fra le mie mani, che quasi temetti che mi sfuggisse dalle mani e cadesse sopra il profiterole.
Deglutii di nuovo, la gola era secca, la lingua incollata.
“Io...” riuscii a dire di nuovo, in maniera quasi inudibile.
“Vuoi sposarmi?” mi chiese Luca.
Tutto si fermò. Qualcosa mi ronzò in testa, forse erano i residui dei miei neuroni che si sforzavano di trovare un perché a tutto quello, ed a quella fottuta domanda. Sposarlo... Mi aveva chiesto di sposarlo! Che pazzia era mai quella?
Non dissi niente, alzai lo sguardo su di lui, mi sorrideva ancora, il suo sguardo era pieno d'amore. Socchiusi gli occhi e piansi. Le lacrime mi sfuggirono inevitabilmente, non riuscii a trattenerle.
Luca si alzò dal suo posto, fece il giro del tavolo, mi levò la scatola dalle mani e mi abbracciò. Lo abbracciai forte, le lacrime scorrevano ancora sul mio viso, gli stavo sicuramente bagnando la camicia.
“Accidenti Aurora, non immaginavo che ti saresti messa a piangere addirittura... Scusa...” mi sussurrò Luca fra i capelli.
A quelle parole mi lasciai sfuggire anche un gemito di dolore. Luca pensava che quelle fossero lacrime di gioia... Lacrime di gioia di una coppia innamorata che sta per unirsi, lacrime di gioia di una vita per sempre insieme, lacrime di gioia di un progetto di una famiglia felice.
Immaginai me e Luca all'altare, una cerimonia sontuosa, i miei e i suoi genitori che si stringevano le mani. Gli anelli che si infilavano nelle nostre dita, i suoi sorrisi spontanei davanti all'obiettivo, i miei stentati, per una volta dall'altra parte della macchina fotografica. Immaginai la mia pancia che si gonfiava, Luca che parlava a quell'esserino che cresceva dentro di me, una corsa all'ospedale, un neonato raggrinzito e urlante fra le mie braccia. Il frutto del nostro amore che cresceva, Luca gli insegnava ad usare il vasino, ad andare in bicicletta, io gli firmavo le giustificazioni e la mia pelle era piena di rughe.
E Andrea, Andrea, che da lontano spariva, andava via, mi voltava le spalle e si allontanava, ed io non potevo più raggiungerlo.
No Luca mi dispiace, non posso sposarti, non voglio sposarti, io non ti amo e non ti amerò mai, ti voglio bene quasi come un fratello ma non voglio stare con te per sempre, io amo Andrea, e tu non sei lui. Vattene via, o lasciami andare.
Era questo, quel che avrei voluto dire, mentre Luca mi lasciava andare e, dopo aver asciugato le lacrime residue sulle mie guance, poggiava entrambe le sue mani sul mio collo.
“Sì.” dissi, invece.
Avevo capito che un no sarebbe stato un omicidio grave tanto come quello di lasciarlo. Luca fece un sorriso da un orecchio all'altro e mi baciò sulle labbra. Prese l'anello dalla scatolina e me lo infilò nell'anulare sinistro.
“Ti amo.” disse mentre lo faceva.
Lo guardai, mi sentivo gli occhi rossi e gonfi di pianto. Feci un sorriso stiracchiato.
Come diavolo poteva amarmi? Come poteva amare una persona orribile e schifosa come me? Ma non lo vedeva? Non lo sentiva, che non c'era amore in me, nei miei gesti, nel mio sguardo? Com'era possibile tutto quello?
Se solo avesse saputo quale razza di mostro ero, non mi avrebbe più amato e mi avrebbe tolto l'anello strappandomelo via dalla mano con violenza. E proprio quella mano, la mia mano sinistra, era pesantissima. Tutto pesava, anche il mio povero e straziato cuore.
Luca riprese a baciarmi, poggiando le mani di nuovo sul mio collo. Posai le mie sui suoi polsi, baciandolo a mia volta. Non c'era alcuna emozione, e strinsi forte gli occhi, respirando un profumo così diverso da quello che adoravo respirare.
Forse era quella la soluzione. Chiudere gli occhi, abituarsi a qualcosa di diverso, fare finta che per Luca provassi le stesse cose che provavo per Andrea. Fare finta. Avevo finto per così tanto tempo, e così abilmente, ormai ero una maestra; si trattava di un ultimo, grande sforzo.
Andrea, pensavo, mentre Luca mi prendeva in braccio, non smettendo di baciarmi.
Andrea ti amo, pensavo, mentre Luca si dirigeva verso la camera da letto.
Andrea non so come dirtelo, pensavo, mentre Luca mi depositava sul morbido e prezioso letto con la testata in legno di ciliegio.
Andrea perdonami, pensavo, mentre Luca si appoggiava accanto a me, mentre la sua lingua percorreva la curva del mio collo.
Andrea io e Luca ci sposiamo, pensavo, mentre Luca mi spogliava, mentre mi sollevava la maglietta.
Andrea questa è la fine, this is the end, non aspettarmi più, pensavo, mentre allungavo le braccia in alto per lasciare che Luca mi sfilasse la maglietta.
Andrea sono una stronza, dimenticami, pensavo, mentre il bottone del mio jeans abbandonava l'asola.
Andrea ho dovuto farlo, ho dovuto dirgli di sì, non capisci?, pensavo, mentre i jeans scivolavano lungo le mie cosce e si fermavano ai piedi.
Andrea ti amerò per sempre, non sarò felice, ma almeno cerca di esserlo tu, ti prego.
Luca mi spogliò quasi del tutto, sospiravo, stavo soffrendo, volevo sparire. Ero immobile, lasciavo che Luca provasse ad amarmi, io non l'avrei mai amato e non sarei mai stata felice con lui, ma lui poteva amarmi ed essere felice con me, in fondo se lo meritava, non meritava di stare male, non meritava di soffrire, era fantastico. Ma una sola domanda mi attraversava la mente: Perché mi amava?
Lentamente sbottonai la camicia di Luca, e gli levai i jeans, continuando a tenere gli occhi chiusi, sforzandomi di non guardare: se avessi guardato avrei perso quella poca forza che mi rimaneva e lo sapevo.
Luca si chinò su di me, mi baciò dappertutto, si soffermò sulle cosce, poi in mezzo alle gambe.
Quasi contro la mia volontà gemetti leggermente, gli occhi più chiusi che mai.
Andrea, oh, Andrea.
Luca usò la lingua e gemetti un po' più forte. Gli afferrai i capelli biondi con una mano, e poi con due, cercando di concentrarmi, ma la mia mente correva veloce.
“Andrea... Andrea.” chiamai, in maniera chiara e udibile, forte.
L'aria sembrò improvvisamente diventare terribilmente fredda, capace di essere tagliata con un coltello. Tutto si fermò, anche la città e i tutti i suoi rumori sembrarono fermarsi in quel momento preciso. Un senso di distruzione mi invase, mi pietrificai all'istante, Luca si bloccò a mezz'aria.
Riaprii gli occhi, trovai lo sguardo assente e furibondo di Luca a fissarmi. Si scostò da me.
“Andrea? Chi cazzo è Andrea?” chiese subito, con rabbia.
Andrea è l'uomo che amo, pensai.
Nei miei incubi peggiori immaginavo la sua reazione esattamente così.
Si alzò dal letto, si rivestì alla meno peggio, mi puntò l'indice addosso.
Era inequivocabile. Nessuna chiama il nome di un altro uomo quando sta per fare l'amore col suo ragazzo, no?
Mi fai schifo, ti odio, ora ho capito tutto, come hai potuto farmi questo, che razza di schifo di persona sei? Non ti vergogni? Io ti amo davvero e tu mi hai tradito, mi hai preso in giro per tutto questo tempo. Puttana, ecco cosa sei, io amo una puttana a cui non è importato mai un cazzo di niente di me. Sparisci, non voglio più vederti, magari te la farò anche pagare. Sai che ti dico, Aurora? Non sei degna neanche di stare con me sotto lo stesso tetto, e in questa casa di merda non ci voglio stare, che schifo. Me ne vado.
Lo disse mentre piangeva, la sua voce era piena di rabbia e di dolore, la vena della fronte sembrava essere pronta a scoppiare. Non dissi nulla, semplicemente lo guardai, incassai ogni parola ed ogni insulto senza reagire. Mi meritavo ogni singola parola, in fondo.
Luca prese un vecchio borsone dall'armadio, ci infilò dentro qualche vestito, il suo portafoglio, lo spazzolino e il dentifricio e uscì di casa senza neanche voltarsi, sbattendo la porta.
Mi ritrovai completamente sola e ancora seminuda in mezzo al letto scombinato.
Piansi ancora, disperatamente, poi mi sfilai l'anello e lo lanciai con tutta la forza che avevo contro la parete di fronte a me. Quello rimbalzò e atterrò accanto al comodino. Mi presi il viso fra le mani e piansi ancora, e ancora, e ancora.


Cercherò su di me
la tua pelle che non c'è



La mattina seguente mi svegliai molto, molto tardi. Il sole era già alto nel cielo e inondava di luce la camera da letto. Il cuscino sul quale ero appoggiata era tutto umido di lacrime.
Mi alzai dal letto, mi infilai dei vestiti presi a caso nell'armadio, afferrai la borsa e feci per uscire. Passai accanto al tavolo della sala da pranzo, i resti e gli avanzi della cena della sera precedente erano ancora lì a marcire. La scatolina di velluto blu vuota e aperta giaceva accanto al mio bicchiere. Strinsi le labbra e mi rifiutai di toccare qualcosa.
Uscii di casa, l'aria della città mi fece bene, il sole mi riscaldava.
Camminavo spedita per il marciapiede, e pensavo.
Ero esattamente lì dove avevo voluto per tutti quei mesi. Ero libera: Luca mi aveva lasciata, anzi, mi aveva abbandonata. Io e Andrea avremmo potuto stare assieme.
Forse ero incontentabile, ma stavo male se pensavo a Luca. Io gli volevo bene, all'inizio di tutta quell'assurda storia pensavo seriamente che con uno sforzo avrei anche potuto amarlo. Invece mi ero accorta che sarebbe stato impossibile, e che ero stata solo capace di deluderlo. Gli avevo stracciato il cuore. E poi l'avevo mangiato e sputato.
Luca stava soffrendo per me e forse pensava che io fossi felice che mi avesse lasciato, ma non era del tutto così. Non avrei mai più potuto cancellare le ultime parole di Luca, le sue lacrime. Quella scena aveva straziato anche a me. Facevo schifo, aveva ragione. Non volevo che venisse a sapere la verità in quel modo orrendo, ma... Era successo.
Adesso avevo un bisogno disperato di vedere Andrea e di parlargli.
Un quarto d'ora dopo, entrai nel suo palazzo e velocemente mi diressi verso il secondo piano. Suonai al campanello.
Nessuna risposta.
Ci riprovai una, due, tre volte, bussai anche, provai a chiamarlo al cellulare ma era spento.
Che cosa stava succedendo?
Ero sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, quando una signora sulla quarantina fece capolino dalla porta dell'appartamento accanto.
“Mi scusi, sta cercando quel ragazzo che vive qui?” mi chiese.
La guardai speranzosa. “Sì,” dissi, “Cos'è successo?”
Ero sicura che fosse successo qualcosa.
La donna mi guardò con aria grave e triste. “Stanotte l'hanno portato via, adesso è in ospedale.”
Ospedale.
Ospedale.
Ospedale...
Mi sentii di nuovo pietrificata, per la seconda volta in meno di ventiquattro ore. Ringraziai la donna in maniera frettolosa, e con le gambe che mi tremavano, schizzai giù per le scale e, una volta fuori, praticamente iniziai a correre, anche se mi reggevo in piedi per miracolo.
L'aria asettica e l'odore tipico dell'ospedale mi invase le narici. Le pareti erano di color verde morto e le immagini e i colori scorrevano senza senso davanti ai miei occhi. Chiesi in giro di Andrea, Andrea, lei chi è, la sua ragazza, è un parente, no, sono la sua ragazza.
Andrea aveva avuto una colluttazione con un uomo, a notte fonda, nel suo appartamento.
Si era fatto male, volevano controllare se non ci fossero problemi gravi come un trauma cranico, o non so cos'altro mi dissero. Non lo ricordo.
Chi era l'uomo con cui si è picchiato?, chiesi.
Quando sentii il nome di Luca, fu come ricevere un pugno in pieno stomaco. Il fiato mi mancò per qualche secondo. Scossi la testa.
“Non è possibile.” dissi.
Avevo troppe cose dentro di me, così tanto da scoppiare come una bomba ad orologeria.
Scoprii che quella notte era intervenuta la polizia. Pensai che fosse superfluo, ma quella idiota della vicina – che intanto mi aveva anche dato la dritta giusta, se non fosse stato per lei sarei stata ancora a bussare alla porta di Andrea – aveva sentito voci alterate e rumori sospetti ed aveva pensato di chiamarli. Poi Andrea era messo male e avevano chiamato l'ambulanza.
Lo vidi. Stetti con lui per qualche minuto. Dormiva, i suoi capelli neri impiastrati con del sangue. Aveva il labbro spaccato e lo zigomo gonfio. Mi venne da piangere, poi mi dissi che dovevo essere forte almeno in quella situazione, e non lo feci.



Ti entravo in fondo dentro lo sai
soltanto per capire chi sei



Pioveva.
Anche in una grande città ci si incontra quando meno lo si aspetta o lo si vuole.
Strinsi la mano che teneva il mio ombrello quando vidi Luca che mi veniva incontro, sul marciapiede bagnato e scivoloso sotto le mie scarpe, in mezzo a tanti sconosciuti all'ora di punta.
Aveva le occhiaie ed era triste, si vedeva.
Ovviamente mi fermai di fronte a lui, attendendo. Un insulto o un sorriso, non lo so. Vederlo lì mi faceva uno strano effetto, come se non lo conoscessi davvero, come se non fosse lui quello che fino a poco tempo prima avevo baciato, quello che mi aveva visto nuda un sacco di volte, quello che mi aveva detto tante cose brutte, ma vere. Aveva un piccolo taglio al centro del labbro inferiore. Magari avrei dovuto semplicemente andare via, perché lui aveva tutto il diritto di picchiare anche me, ma non potevo farlo, non potevo ignorarlo.
“Lo sapevo,” disse lui come prima cosa, abbassando lo sguardo, fissandosi i piedi. “Lo sapevo, lo sapevo già, ma ho ignorato tutto.”
Non capii il senso di quelle parole, alzai un sopracciglio, interrogativa.
Con difficoltà, perché anche lui teneva in mano un ombrello, prese un foglietto ripiegato dalla tasca dei jeans. Sembrava che fosse stato ripiegato e stropicciato un milione di volte, era rovinato. Mi avvicinai a lui, lo presi e lo spiegai per leggerlo. Non appena lo aprii, capii cos'era, a cosa si riferiva, e mi chiesi perché Andrea lo teneva in tasca anche in quel momento. La sensazione allo stomaco si fece risentire, mentre una goccia di pioggia cadeva su quella scritta e l'inchiostro nero si scioglieva, come una lacrima.
Era un biglietto di Andrea, l'avevo nascosto sul fondo di un mio cassetto, sepolto da tantissimi maglioni colorati che non mettevo mai.
“ Sei la mia pelle.”
Semplici parole, che forse non potevano significare niente, ma in realtà dicevano tutto.
Mi strinsi il biglietto al petto e sospirai, ritornando a guardare Luca, senza difese. Era un biglietto che Andrea aveva appeso nel sacchetto dell'ultimo regalo che mi aveva fatto. Non avevo voluto buttarlo ovviamente, e l'avevo conservato precariamente nel cassetto perché ogni tanto lo uscivo fuori e lo rileggevo. Quelle parole strane mi rendevano felice e mi facevano sentire meglio, mi ridavano le forze. Non avrei mai pensato che Luca avesse ficcato le mani in quel cassetto in cui, per giunta, neanche io guardavo quasi mai. Oltre a non metterli spesso, i maglioni erano decisamente troppo pesanti per quel periodo.
“Sapevo già che c'era qualcun'altro nella tua vita, non scrivo mica biglietti senza accorgermene, non credi?” chiese retoricamente Luca, un sorriso ironico ma triste sulle labbra.
“Perché...?” cominciai a chiedere, ma non avevo un filo di voce. Mi schiarii la gola e ci riprovai. “Perché non mi hai mai detto nulla? Perché volevi sposarmi?” gli chiesi.
Luca fece spallucce. “Ci puoi arrivare. Speravo di sbagliarmi, speravo che fossero solo mie stupide fantasie, speravo che... Che tu riuscissi finalmente ad amarmi, come amavi la persona che ti aveva scritto questo foglio. Non avresti conservato un biglietto scritto da me con la stessa cura.” osservò, ancora quel sorriso amaro.
Abbassai lo sguardo. “Hai ragione.” dissi. “Luca, davvero, mi dispiace.”
“No, Aurora, sono io a dispiacermi. Mi dispiace per le cose che ti ho detto, mi dispiace per quello che ho fatto a lui, e mi dispiace di averti amato così tanto e, forse, di essermi illuso da solo.”
“Ti ho illuso anche io. Mi dispiace di non essere riuscita ad amarti come avresti voluto. Mi dispiace di averti preso in giro così. Non te lo meritavi.” dissi senza fiato, riguardandolo.
Luca fece di nuovo spallucce, sembrava non avere più le parole adatte per rispondermi. “Credo che la fine sarebbe arrivata, prima o poi, in qualsiasi caso.”
Annuii. La fine. Ecco, là, c'era sempre lei a fregarmi, a fregarci. Ma quella che per Luca era un fine, per me avrebbe significato un inizio.
Prima di non rivederlo mai più, ebbi il suo consenso per vendere l'appartamento. Del resto, neanche lui sapeva cosa farsene ormai, e io volevo cominciare tutto daccapo.
“L'amore fa veramente molto male.” aggiunse alla fine lui, con quello sguardo che lo rendeva sempre bello, e sapevo che aveva ragione. Poi sparì, e da allora non so più niente di lui.
Quello che era stato era stato, adesso avevo un futuro da vivere. Ero stanca di fingere, volevo una vita. Una vita vera, senza più menzogne, preoccupazioni, ansie. Volevo vivere, come volevo io.



forse sei un congegno che si spegne da sé...

Sapevo che sarebbe andata così fin dall’inizio. Lo sapevo, dentro il mio cuore, fin dall’attimo in cui le mie dita si adattarono dolcemente alla plastica marrone di quel caldo bicchierino di caffè.
Guardavo i suoi occhi, e sapevo che il destino che mi attendeva – che ci attendeva – non poteva essere altro che quello. Non poteva andare altrimenti, eravamo come due pezzi di puzzle che sapevano – dovevano – di incastrarsi perfettamente. Avevo aspettato la mia metà per così tanto tempo; qualcuno che adoravo, amavo, veneravo, ma non solo. Qualcuno che avrei fissato dicendo “E’ lui”. Qualcuno che, appoggiando la testa sulla mia spalla, sarebbe stato comodo. Qualcuno che avrebbe carezzato il mio corpo e si sarebbe sentito finalmente felice.
Sapevo che sarebbe andata così fin dall’inizio.
Sapevo che con Qualcuno mi sarei svegliata, mi sarei girata dall’altro lato e l’ avrei visto. Tu, Qualcuno. Ti avrei visto mentre dormivi ancora: effettivamente io sono sempre stata mattiniera, tu no. Ti avrei scrollato dolcemente, poi con più forza quando non avresti dato alcun segno di vita. Avrei sussurrato: “Che palle, svegliati!”, scostando il piumone azzurro e sarei uscita dal letto morendo di freddo. Avrei infilato le pantofole trovando un leggero sollievo e ciabattando avrei raggiunto la cucina. L’odore del caffè avrebbe invaso la casa mentre ritornavo in camera da letto. Tu finalmente ti saresti stiracchiato e sarei saltata addosso a te, sul letto, abbracciandoti e volendo già trasmetterti tutto l’amore di cui ero capace. “Buongiorno!” avrei esclamato vedendoti socchiudere gli occhi. Avrei finalmente trovato le tue braccia ad avvolgermi la schiena e mi sarei sentita ancora più felice. ”Buongiorno”, avresti bofonchiato tu, con la voce impastata di sonno, attutita dal mio corpo addosso al tuo.
Poi ci saremmo baciati e avremmo dimenticato il caffè che fischiava sul fornello acceso.
Avremmo fatto colazione con brioches prese dal bar sotto casa. Mordendo la mia, il cioccolato sarebbe schizzato sul piatto e tu avresti riso prendendomi in giro. Lentamente ci saremmo vestiti, parlando del più e del meno, trovando sempre qualcosa di cui chiacchierare. Le risate avrebbero echeggiato felici nel corridoio. Ci saremmo dati un lungo bacio e poi ci saremmo divisi. Io allo studio di fotografia, tu all’università o al lavoro. A pranzo ci saremmo telefonati, per poi rivederci all’ora di cena. Mi sarei tolta le scarpe, afflitta da una stanchezza assoluta, appena entrata in casa e mi sarei buttata sul divano massaggiandomi le tempie. Sarei sprofondata nel silenzio di quelle quattro mura e, chissà, mi sarei addormentata. Poi di soppiatto tu saresti entrato, non muovendo le chiavi di casa per non fare rumore, e mi saresti saltato addosso spaventandomi. Io avrei urlato e tu avresti riso, per poi soffocare le mie labbra con un bacio. Ti avrei dato un pugno mentre le mie labbra correvano sulle tue, mentre la mia lingua delineava il profilo perfetto delle tue labbra, mentre la curva di esse aderiva con estrema precisione e dolcezza alla mia. Poi avremmo preparato la cena assieme e avresti detto “Attenta a non tagliarti!” mentre con un grosso coltello affettavo la carota per l’insalata. Avremmo cenato parlando della nostra giornata, spettegolando, ridendo o mentre discutevamo di qualche notizia che stavamo sentendo alla televisione. Avremmo visto un dvd accoccolati sul divano, mentre mi accarezzavi i capelli. Poi a mezzanotte passata avremmo deciso di andare a letto e ci saremmo buttati su di esso a corsa, mi avresti sfilato i vestiti e tra baci e dolci sospiri avremmo finito col fare l’amore. E poi, la giornata sarebbe cominciata da capo.
Qualcuno... Qualcuno per cui sarei morta, qualcuno che per me era perfetto, qualcuno che avrei amato fino alla fine, qualcuno che adesso dormiva accanto a me, mentre questi pensieri rifluivano nella mia testa.
Il sole inondò la camera. Mercoledì, un altro giorno. Nota a me stessa: passare a ritirare le foto. Mi girai dall’altro lato, e trovai Andrea, che dormiva, come al solito. Sorrisi. Mentre lo fissavo, vidi le sue labbra allargarsi in un sorriso. Era sveglio, incredibile.
”Buongiorno, ti amo.” sussurrò al mio orecchio, mentre sotto le coperte mi cercava, abbracciandomi.
Sorrisi ancora, estasiata, felice di tanta felicità. Meravigliata, stupefatta, ma consapevole della perfezione di quell’attimo. Lo sapevo che sarebbe andata così fin dall’inizio.
Qualcuno, quel qualcuno, era Andrea.
E ora, tutto era realtà.
Ora, quei per sempre avevano finalmente un senso.
Sorrisi perdendomi sulle certezze che gustavo persino sulla sua pelle.



























 

 





La canzone è "Pelle" degli Afterhours. Spero che abbiate gradito la lettura. :)
   
 
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