Autore: slice.
Frase scelta: “si
muore una volta sola ma per tanto tempo” Molière.
Titolo:
vivere nella cenere.
Personaggi: Shikamaru, Kiba, Ino, Chouji,
Shino, Hidan, Kakuzu.
Pairing(s): Shikamaru/Kiba.
Genere:
drammatico, romantico, triste.
Rating: arancione.
Avvertimenti:
AU, yaoi. Alcune scene possono essere un tantino forti, ma il rating è
arancione perché niente di quel che ho scritto mi ha fatto
pensare al rosso.
Breve introduzione alla storia: Kiba è un
semplice ragazzo che fa il poliziotto, nella stessa centrale dove
lavorano madre e sorella, per pagarsi gli studi universitari.
Shikamaru è un vampiro, un ragazzo morto secoli prima che ha
perso speranze e fiducia in quasi tutto, specialmente nell'umanità.
Non hanno niente in comune, apparentemente, ma scavando un po' si
scopre che entrambi stanno cercando qualcosa di preciso, qualcosa che
troveranno nell'altro. A farli incontrare ci penserà una serie
di eventi ed omicidi notturni.
Note dell’autore: le vicende
sono trattate in tre capitoli distinti. Il momento in cui si
incontrano, le circostanze e il rifiuto di Shikamaru ad ogni
contatto, tratto poco di loro due assieme in questo primo capitolo,
ma molto di più singolarmente e nel loro ambiente, la loro
'famiglia'. Mi è servito a mostrare il loro reale
comportamento, il loro essere, al naturale, per poi far risaltare
l'anomalia comportamentale quando nel secondo capitolo si vedranno
assieme. Nel terzo ho tirato le somme, credo di averlo fatto senza
fretta, facendovi gustare anche quello che è di contorno senza
per forza farlo prevalere, ma mi rimetto alla Giudicia. Altre
vicende, apparentemente inutili, sono servite da contorno e da
piedistallo per la storia che regge il pairing. Il secondo capitolo è
meno segmentato e più vissuto dai due, più intenso e
decisamente pregnante, il terzo non può che essere denso di
colpi di scena e ovviamente risolutivo. Credo di aver esagerato con
le comparse, ma sono convinta anche del fatto che togliendoli avrei
reso la storia più sterile e meno affascinante. Magari è
una cosa soggettiva e la riscontro solo io, ma nel dubbio ho
preferito gestire la storia in termini più ampi, e rischiare
di andare fuori tema, piuttosto scrivere qualcosa che non sentivo
fluire bene, che non sentivo mio. Tanto sarei arrivata comunque
decima u.u!
Non mi appartiene niente e non c'è lucro.
Prologo
L'aria
gelida venne inquinata da uno sbuffo di fumo, l'oscurità della
notte si screziò di tentacoli chiari, la sigaretta ebbe un
fremito e della cenere cadde sul manto bianco dell'inverno; un
piccolo animale, forse una lepre o un coniglio, fece frusciare dei
cespugli vicini prima di scappare rincorso solo dalla sua paura.
Dita
magre, che stringevano il filtro, si avvicinarono nuovamente alle
labbra di un ragazzo che ad occhio e croce non avrebbe potuto avere
più di una ventina d'anni.
Un lieve alito di vento
scompigliò le cime degli alberi che, guardiani di tanta
quiete, non osarono lamentarsi.
La maglia scura a maniche lunghe
creava un netto contrasto con la neve, che invece andava a sposarsi
con la pelle candida del suo ospite; l'abbigliamento semplice e
blando per quel freddo avrebbe dovuto far tremare il ragazzo, invece
lui sembrava curarsi solo dello sfrigolio che gli investiva le
orecchie, ogni volta che aspirava una boccata di fresco veleno.
Passi
leggeri si unirono a quel suono sedante e poco dopo una seconda
figura fece la sua comparsa.
“Non dovresti stare qui, è
quasi l'alba. - Sussurrò quello che, sotto un mantello nero
con annesso cappuccio, sembrava essere un ragazzo in carne più
o meno della stessa età - Lei si preoccuperebbe se sapesse.”
L'altro dette l'impressione di smettere anche di respirare per
un'istante, la temperatura sembrò scendere ulteriormente.
“E
tu non dirglielo.” Sbuffò in fine senza poggiare gli
occhi sul suo interlocutore, troppo impegnato a guardare le stelle
sopra la sua testa, oltre le fronde appesantite di gelido
candore.
“Dico davvero Shikamaru, dovremmo rientrare.”
Guardò con sconsolato rammarico il cielo che andava
schiarendosi ad est, prima di voltarsi ed incamminarsi verso un luogo
più buio e nascosto di quanto avrebbe voluto.
“Chouji...
- la sigaretta lasciò le sue dita e sì posò
senza rimbalzo sulla neve con un ultimo agonizzante sfrigolio, le
spalle si staccarono dal tronco dell'albero, ma il ragazzo non si
mosse, come non tolse il suo sguardo dalla volta ancora stellata -
Cosa daresti per vedere l'alba ancora una volta?” L'altro si
fermò senza voltarsi.
Il silenzio quasi li corrose in quei
pochi attimi in cui l'aria andava riscaldandosi leggermente, in cui
tutto si illuminava di vita. Chouji chiuse gli occhi e si morse il
labbro, aggrottando le sopracciglia in un'espressione addolorata,
alzò il viso permettendo a quella poca luce di sfiorargli i
lineamenti paffuti.
“Morirei.” Scandì prima di
riprendere a camminare, lasciando quella risposta nell'etere, come se
avesse avuto troppa poca importanza ciò che lui avrebbe
voluto.
Vivere nella cenere
di slice
Capitolo 1
Indubbiamente odiava la scuola. Senza possibilità di
eccezioni, la odiava, tutta. Odiava i professori, i supplenti, gli
stupidi pochi gradini per entrare in mensa. Odiava anche le aule e
quelle porte odiosamente scassate dei bagni che non si chiudevano
mai, o all'occorrenza ti ci intrappolavano dentro e neanche i
pompieri potevano sperare di aiutarti. Odiava il portone che nelle
mattine più sonnolente gli appariva come una bocca piena di
denti aguzzi ed odiava, odiava, odiava lui. Più di
tutti, odiava quell'essere strano che continuava a strusciarsi
impunemente sulle sue preziose gambe.
“Va via, maledetto
gattaccio.” Sibilò, scocciato.
Il gatto si limitò
a sbadigliare e prese in pieno un adorabile calcio nei
denti.
“Kiba.” Venne ammonito dall'ameba che lo
accompagnava da che avesse ricordo. L'ameba, come lo chiamava
scherzosamente da anni, era il migliore amico per eccellenza, quello
delle fiabe e dei film, la classica persona che per te si getterebbe
nelle fiamme, ma anche un pizzico atipica con quell'aria impassibile
ed impossibile che predominava sulla sua indole. Cosa avessero in
comune quei due sfuggiva alla comprensione umana.
Shino, l'ameba,
era un ragazzo alto, moro, con gli occhiali da sole incollati al
viso; era buono oltremodo e pacato all'inverosimile. Una di quelle
persone calme, che si prendono tutto il tempo necessario e anche
qualcosa di più per fare ogni genere di cosa, dal bere il
caffè a scrivere una relazione, uno di quei tipi che possono
snervare fino a farti venire le bolle, ma che poi ti rendi conto non
vorresti cambiare con nessun altro, tanto meno qualcuno più
nevrotico.
“Senti, se le cerca. Con tutta la gente e lo
spazio che c'è, perché cavolo deve sempre venire tra i
piedi a me che lo odio?”
Kiba invece era il classico
casinista, l'anima della festa e assolutamente non aveva niente di
pacato, nemmeno i capelli, che sembravano andargli in ogni direzione
senza tanti sforzi o aiuti gelatinosi. Anche lui l'amico delle fiamme
che si butta per te nei film... ma solo dopo un paio di gin tonic e
una serata in discoteca, perché prima di morire è
d'obbligo. Spesso veniva soprannominato cagnaccio perché
passava dall'adorazione per il sonnellino fino ad arrivare
direttamente al maniacale bisogno di movimento, saltando tutto ciò
che ci poteva essere nel mezzo.
Kiba, inoltre, sembrava avere
l'olfatto e l'udito un po' più sviluppati del normale e
spesso, quando erano bambini, il loro gioco preferito era nascondersi
e farsi trovare da lui bendato, per mettere alla prova i due sensi
anomalmente più presenti.
“Forse si è
innamorato.” L'occhiataccia che seguì fu assorbita con
invidiabile e snervante calma.
“Sai cosa dovresti fare tu?
Provare a correre come un invasato per tutto il cortile, urlando a
pieni polmoni qualcosa come 'vi odio tutti e quando meno ve lo
aspetterete sarò lì per gioire pacatamente del vostro
dolore, inflitto ovviamente da me e la mia schizofrenia latente',
secondo me rimorchieresti di brutto!” Ci fu un attimo di quasi
assoluto silenzio rotto soltanto dalle fusa del gattaccio,
poi la campanella della prima ora
suonò.
“Magari un'altra volta.” Rispose
quello alla fine evitando di scomporsi.
La notte perdura anche nel giorno se si sceglie come dimora una
cripta di un vecchio cimitero fuori da ogni qualsivoglia centro
abitato.
I pochi lembi di luce in quell'atmosfera spettrale erano
delle candele; il loro tremolio, grazie a qualche spiffero, creava
giochi di luce sulle pareti grezze e spoglie, fredde, cupe. Una
bellissima tomba deflorata con molto poco rispetto per chi ormai non
temeva più ire divine.
Una stanza fredda con due giacigli e
un sacco di libri più o meno vecchi che formavano pile, a
volte fino al soffitto, comunque non troppo alto, era tutto quello
che si potevano permettere di avere e dopo qualche decennio non era
nemmeno poi così male. Una piccola porta di un legno marcio e
bucherellato che odorava di muffa, come solo la muffa stessa poteva
fare, era l'unica cosa che spiccava. Pochi scalini, che formavano una
leggera curva, portavano ad una seconda piccola stanza. Qui la porta
rimaneva sempre chiusa e da dietro di essa spesso arrivavano strani
lamenti; forse il vento giocava con le fessure del legno malconcio,
oppure qualcuno cantava una nenia, a far compagnia a chi non vedeva
la luce da secoli.
Un letto somigliante ad un vero baldacchino,
nonostante fosse stato creato con un materasso vecchio, cuscini vari
e teli di ogni genere, stava al centro della stanza dove la
concentrazione di candele andava diminuendo e la nenia cresceva
d'intensità.
Shikamaru si avvicinò aspettando di
essere notato e, poco dopo, infatti, la canzone cessò.
“Ciao!”
Molta enfasi per un tono fin troppo lieve, quasi
impercettibile.
“Ciao. - Non c'era allegria nella sua voce
anche se davvero avrebbe voluto che ci fosse, magari solo per un
momento - Dovresti dormire, è l'alba.”
“Vieni!”
La voce soave della fanciulla si fece udire ancora, soffice come una
brezza calda in quella stanza morta.
Lui le si avvicinò
piano e prese delicatamente la pallida manina scarna che fuoriusciva
dalle coltri. Ciocche chiare macchiavano d'oro le federe dei cuscini
di un rosso molto scuro, come piaceva a lei.
Ino un tempo era una
ragazza allegra, solare, vivace in modo quasi irritante, forse a
volte un po' ingenua, ma indubbiamente semplice e genuina, di
un'intelligenza fine e volutamente poco sfruttata. Figlia di un
personaggio di spicco nel suo amato villaggio, aveva un occhio di
riguardo ovunque e da chiunque anche dal momento che era la veggente
di corte.
Una notte, tornando a casa dopo un importante seduta con
il Daymio, Ino si era trovata davanti, all'alba dei suoi vent'anni,
una persona malvagia e poco incline a voler vedere il suo splendido
sorriso. Il suo insegnante Sarutobi Asuma sentendone le grida cercò
di soccorrerla, ma ottenne solo lo stesso trattamento della giovane.
Shikamaru e Choji amici d'infanzia della ragazza, ed entrambi
cresciuti sotto l'ala dello stesso maestro, dopo attenta e irritante
vivisezione della faccenda, chiesero a gran voce la stessa fine per
mano proprio di quest'ultimo: mai avrebbero lasciato sola la piccola
Ino, mai avrebbero permesso che vivesse un'eternità
accompagnata solo dai suoi ricordi.
Asuma purtroppo non ebbe vita
lunga: il villaggio aveva iniziato già da tempo a dare la
caccia a quelli come loro, e l'uomo si frappose proprio tra
gli abitanti muniti di forconi e la fuga dei propri allievi.
“Come
ti senti oggi Ino?” Le capacità della ragazza, mischiate
con il nuovo sangue e i nuovi poteri, avevano creato come un
sovraccarico nel minuto corpo della ventenne, dando inizio ad una
penosa malattia senza fine grazie all'immortalità della sua
specie.
Tutto ciò che successe dopo fu uno scappare da una
parte all'altra del globo fino a quando le notizie su di loro non
divennero semplici leggende, innocue favole tramandate per
sollecitare il sonno dei propri pargoli.
“Come sempre, ma
grazie di continuare a chiedermelo.” Due occhioni blu come solo
– Shikamaru lo ricordava a stento - il mare di giorno poteva
essere, fecero capolino da dietro una pesante coperta dello stesso
colore dei cuscini.
“Forse dovrei smettere e vedere che
succede, magari allora staresti meglio.” Accennò un
sorriso, contento di scorgere il suo viso illuminarsi, mentre una
risata di bambina riecheggio gioviale e corroborante in quel nulla
che loro chiamavano casa.
“Dovrei rigargli la macchina.” Kiba si stiracchiò
contro lo schienale di una delle tante panchine del parco che
frequentava di solito con gli amici, nel dolce-far-niente del
doposcuola. Un autobus si fermò poco distante da loro e un
ragazzo biondo ne uscì con una ragazza mora subito al
seguito.
“Dovresti metterti a studiare.” Shino aveva
un modo unico di fare dell'ironia, tanto che spesso Kiba pensava
neanche fosse vera ironia, probabilmente il suo era umorismo
inglese, vai a capire. L'irrequieto ragazzo si voltò con
un sopracciglio alzato, mentre i due nuovi venuti si scambiavano
tenere effusioni prima di unirsi a loro.
“Ma tu da che parte
stai?” Chiese al compagno di peripezie, guardando male la mano
del suo amico Naruto sul sedere della vecchia compagna di giochi,
Hinata. Chissà che espressione avrebbe fatto il padre della
suddetta davanti ad una scena del genere?, pensò
distrattamente prima di venir preso dalle parole dell'amico.
“Era
solo un'idea.” Shino celò un po' di disappunto dietro ai
suoi spessi occhiali da sole, per la solita mano di Naruto, ed evitò
di guardare i lineamenti del compagno deformati da una smorfia
d'incomprensione.
“Le tue idee fanno schifo.” Decise
quello, prima di salutare i due piccioncini ormai divisi da ben dieci
centimetri di neutra aria.
Naruto ed Hinata si sedettero in mezzo
ai due vecchi amici.
“Allora?, questa festa? Eh?” La
voce squillante ed inconfondibile del biondo fece sorridere un poco
Shino, che si parò nel suo giubbotto visto solo dalla piccola
Hinata, la sola a cui erano concessi certi privilegi.
“Ci
sarà ovviamente! Il prossimo Venerdì sera, tra una
settimana esatta, al capannone alle nove. Non è obbligatorio
portare niente, ma se proprio devi, fa' che siano alcolici!”
Sbraitò quasi Kiba ampiamente dimentico di tutto il resto e
soprattutto del brutto voto appena ricevuto.
“Fantastico! Ci
saremo! Hinata ha detto a casa che dorme da un'amica, eh!”
Hinata
era figlia del famoso imprenditore Hiashi Hyuga e ovviamente 'decoro'
era la parola d'ordine, dove questa si collocasse nell'immagine
d'insieme che offriva il biondo non era affar loro.
“Grande
Hina-chan! Perfetto allora, ci vediamo là!”
Effettivamente dire che aveva pensato ad altro per tutta la settimana
oltre che alla festa, era davvero ridicolo, per lui, ma anche per gli
altri che conoscendolo non ci avrebbero creduto nemmeno per mezzo
insignificante secondo.
I due piccioncini si alzarono, di nuovo
pronti ad un'altra lunga serie di effusioni e si incamminarono per il
loro sdolcinato giro nel parco, mano nella mano.
Breve ma intenso,
avrebbe detto Shino se la voce di Naruto non fosse stata ancora ad un
volume coprente, anche a decine di metri di distanza, mentre li
salutava.
“Hinata la sentivamo poco già prima:
adesso, con Naruto intorno che urla la metà del tempo, e solo
perché l'altra metà mangia e dorme, credo che non la
sentiremo parlare mai più.”
Kiba sorrise, erano
cambiati tutti: dalla piccola Hinata che balbettava prima di svenire
al solo nominare il suo principe azzurro, a quell'imbecille del suo
amico che ora spiccicava qualche parola in più.
“A te
non succede mai.” Ecco, qualche parola di troppo, a
volte.
“Quasi quasi rigo la tua di macchina.” Sorrise
ferino l'Inuzuka, senza preoccuparsi dell'aura omicida che emanava
l'amico.
Tsume Inuzuka era una donna in gamba, di carattere non per forza
dittatoriale, ma con il pugno indubbiamente di ferro. Era stata anche
dolce e permissiva un tempo, più di quanto fosse diventata con
l'abbandono da parte del marito per lo meno. Lo era stata con i suoi
figli e col marito stesso, ma evidentemente non era bastato a farlo
rimanere.
Era successo tutto piuttosto in fretta: Kiba aveva
ricordi confusi perché era ancora troppo piccolo, mentre sua
sorella maggiore Hana si ricordava tutto molto bene. Era maggio e
c'era un leggero tepore, nonostante in quel luogo non ci fosse mai
una temperatura tale da poter chiamare caldo. C'era mamma che
piangeva sul letto e c'erano le valigie di papà vicino alla
porta. C'era un silenzio fastidioso e c'erano due occhioni e un pollice in
bocca tra le sue braccia. Kiba se ne stava lì a guardare il
padre osservarli con rammarico per un'ultima volta, attraverso le
fessure del legno delle scale che portavano al piano di sopra. Il
ragazzo aveva ben chiaro in mente quel momento, perché stava
correndo ad abbracciare suo padre e magari chiedergli di rimanere con
loro. “Sarò più buono, non ti disturberò!”,
aveva già detto qualche ora prima, tra le lacrime. Invece la
sorella lo aveva preso in braccio a metà scalinata e si era
seduta lì a guardare il genitore con malcelato odio,
stringendo sempre di più il bambino che, rimasto senza
lacrime, stanco e triste, si succhiava il pollice e faceva di tutto
per non far cedere le palpebre su una visuale così buia e
liquida.
Erano passati più di quindici anni, ma ancora
tutto ciò bruciava, dentro, nascosto, ma presente.
Kiba
raggiunta la maturità, per pagarsi gli studi universitari
senza gravare sulle spalle della genitrice single, aveva fatto
domanda con successo nel corpo della polizia, nella stessa stazione
della madre e della sorella.
Il ragazzo entrò nell'ufficio
della donna con l'irruenza tipica della loro famiglia e le lanciò
un foglio sulla scrivania, proprio sotto al naso.
Tsume lo guardò
con sospetto, lesse le prime righe e dopo lo accartocciò.
“Te
lo scordi.” Soffiò riprendendo a leggere alcuni rapporti
datati.
Kiba arricciò il naso, sapeva già che
sarebbe stata quella la prima reazione, si era preparato.
“Ragiona.
Ti serve aiuto, hai pochi uomini a disposizione, senza contare che io
e mia sorella abbiamo già un'intesa particolare, per ovvie
ragioni; conosco il caso, perché ho duplicato le chiavi dello
schedario l'altra settimana. Non fare quella faccia. Siamo all'inizio
dell'anno scolastico ed ho tutto il tempo che vuoi. Infine, invece di
pensare alla mia inesperienza e basta, pensa a quanto ti possono
essere utili il mio fisico ed i miei riflessi di ventenne.”
Ci
fu un attimo di silenzio in cui il figlio prese fiato e la madre lo
trattenne.
Il caso sembrava orribilmente semplice: c'era uno
squilibrato che se ne andava in giro a dissanguare persone nel cuore
della notte, con cosa lo facesse o perché le mordesse prima,
era ancora un tremendo mistero. All'inizio avevano ipotizzato fosse
opera di un animale di grossa taglia, magari scappato a qualche zoo o
circo, ma nessuno ne aveva denunciato la fuga; in più, le
indagini che seguirono non rilevarono impronte ferine nella neve
fresca, ma bensì umane. Le autopsie, inoltre, avevano
confermato che quella che rimaneva sul collo delle vittime, morse
sempre nel solito punto, era saliva umana. La ricerca nel database
non aveva però dato nessun riscontro del DNA e si brancolava -
era il caso di dirlo - nel buio assoluto.
Sua madre sembrò
pensarci su, non era andata così male dunque?
“No.
- Rispose alla fine con un tono che non ammetteva repliche - Esci,
devo lavorare.” Irremovibile, come sempre.
“Già!
- Borbottò il ragazzo, uscendo sconsolato - Anch'io, in
teoria.” Ma non fece in tempo a chiudere la porta a vetri con
su scritto “Capitano”, che la voce della donna lo
richiamò.
“Kiba, delinquente, lascia qui le chiavi
che hai duplicato.” Meno male che ne aveva fatte più di
una copia, si disse, mentre poggiava quelle che aveva dietro, sulla
caotica scrivania della madre.
La città era un grumo di luci, rumori e frenesia che
rimaneva su uno sfondo scuro e stellato, silenzioso ed immobile.
Spesso stavano delle ore a fissare i grattacieli più alti: le
piccole lucine che indicavano le finestre, spegnersi poco alla volta
e i fari sulla cima dove, se erano abbastanza fortunati, potevano
scorgere un elicottero atterrarvi. Il rumore aveva un ché dei
primi fucili che la storia aveva partorito, ma era anche così
lontano da risultare quasi rilassante.
Shikamaru sbadigliò
indolente, cercò di scorgere la figura dell'amico, ma di lui
non trovò alcuna traccia. Era convinto fosse nei paraggi.
Si
stiracchiò allora e fece per alzarsi, pur contro voglia,
deciso ad andargli incontro, ma non fece in tempo a raddrizzarsi che
Chouji gli si presentò davanti; il respiro veloce, doveva aver
corso, e un'espressione decisamente pocoda buona notizia.
Nara
aggrottò la fronte in una muta richiesta di
chiarimenti.
“Ino... è scomparsa.” Il viso del
giovane uomo mutò rapidamente da perplesso ad angosciato, e
poi tornò ad essere perplesso.
“Scomparsa? Chouji,
Ino è malata. Non so neanche se i suoi muscoli siano in grado
di tenerla eretta, com'è possibile che sia scomparsa?”
L'altro pensò un momento, freneticamente; scosse la testa,
infine si arrese con aria di incredibile dispiacere.
“Non so
cosa dirti Shikamaru: a letto non c'è, nella cripta non c'è,
ho girato tutto il cimitero e non c'è, o almeno, non riesco a
trovarla.” Concluse più irritato e sconvolto di quanto
potesse trasparire.
“Ok, senti, analizziamo la situazione:
nessuno sa che siamo qui, non possono averla rapita, senza contare
che avrebbe comunque cercato di difendersi e avremmo sentito il
fragore dello scontro. Magari si è svegliata, non c'era
nessuno e aveva fame o semplicemente, senza i suoi due simpatici
carcerieri“Di sicuro non può essere
lontana?” Chiese tra il retorico e il fiducioso. Shikamaru si
guardò intorno prima di cogliere l'ansia nel tono
dell'altro.
“Non preoccuparti, la troveremo; magari si è
stancata troppo e si è fermata per riposarsi un momento. Se
non dovessimo trovarla tornerà lei, in ogni caso l'alba è
lontana. Dividiamoci.” Chouji annuì ancora, l'aiuto del
Nara era sempre stato prezioso come la loro amicizia e da secoli la
sua presenza, non faceva altro che rassicurarlo. E, Chouji non aveva
dubbi, rassicurava anche lei.
“Che seccatura...” Sentì
il Nara sbuffare ed uscì dalla nebbia di pensieri e
preoccupazione in cui la sua mente lo costringeva, poi avvertì
lo spostamento d'aria che segnalava il salto spiccato dall'amico e
l'inizio delle ricerche.
C'erano un sacco di porte che davano su quel corridoio, buio e
deserto grazie all'ora tarda, ma lui conosceva l'esatta ubicazione di
ogni singolo ufficio e/o spogliatoio. Si guardò rapidamente
attorno prima di spingere la porta, una volta dentro chiuse piano e
tirò fuori la torcia. Non che gli servisse poi a molto, dal
momento che conosceva anche la posizione dell'armadietto di sua
sorella, infatti ci si diresse a colpo sicuro e lo aprì. La
combinazione era da sempre, nonostante il suo proclamato odio per
quell'essere, la data di nascita di loro padre.
All'interno
l'armadietto era spoglio, privo di foto o qualsivoglia monito
cartaceo, non c'erano cianfrusaglie, ma solo oggetti in dotazione o
comunque utili al servizio. E anche un infinità di proiettili
di scorta, un po' nascosti dietro il giubbotto anti-proiettili, ma
c'erano. Era proprio da Hana: semplice e indispensabile.
Sua
sorella era di pattuglia quella sera, assegnata allo stesso caso che
avrebbe voluto lui; prese un piccolo blocco, insignificante, adagiato
nella desolazione di quell'armadietto, e lo sfogliò alla
ricerca di dettagli. Si annotò mentalmente un paio di strani
avvenimenti ed altrettante descrizioni delle vittime, poi udì
delle voci in avvicinamento.
Ripose il blocco, chiuse l'armadietto
senza fare alcun rumore e, spegnendo la torcia, si nascose nella zona
docce. Un secondo dopo la porta si aprì e la luce fu
accesa.
“Quel dannato moccioso ci farà diventare
matte entrambe.”
“Non lo pensi, tua madre è
sempre felice di averlo intorno e quando si allontana un po' di più
diventa insopportabile. Solo che tu e tua madre vi assomigliate molto
e dovete per forza ringhiare a tutti.”
“Vuoi un pugno
Hatake? Dillo subito invece di girarci intorno.” Hana agitava
un pugno nella sua direzione, quando vide dei ciuffi castani oltre il
muro che separava la zona spogliatoio dalle docce.
“No no,
grazie, mi accontento di guardarlo da qui. Senti che ne dici se
andiamo subito invece di attendere?”
“Ci sto... Come
mai così arzillo oggi Hatake? Stai attento a non tirarmi
brutti scherzi.” Ed ecco di nuovo quel famoso pugno davanti al
suo naso.
Kakashi tirò su le mani in segno di
resa.
“Promesso!” Disse sorridendo e socchiudendo gli
occhi.
Mentre uscivano Kiba pensò che chi sopportava sua
sorella avrebbe avuto bisogno di un incentivo statale oltre che di un
aiutino divino. Poi, realizzando che lui era tra i candidati, si
passò una mano sugli occhi, teatralmente affranto.
Uscì
con discrezione e si diresse verso la zona della periferia indicata
dagli appunti del mastino.
Davanti a lui si ergevano le prime abitazioni, dopo la desolazione
e la bellezza della campagna, la periferia sembrava così
caotica da non volerci entrare nemmeno sotto compenso; girava infatti
intorno ad essa, avvicinandosi e poi ritraendosi, come un animale che
studia il nemico. Così poco abituato a tutta quella vita si
agitava sbirciando nelle vie senza davvero guardarci, come se avesse
potuto nuocergli. Come se da tanto fervore non potesse venire niente
di buono.
La città di notte, addormentata nei mesi più
freddi, diveniva un formicaio nelle serate più calde e così
anche la periferia vomitava in strada stormi di ragazzi e ragazzini,
più o meno spensierati. Settembre era un mese che sfornava
un'aria ancora mite e, in quell'ultimo sprazzo d'estate, le feste dei
giovani si trovavano, confusionarie ed alcoliche, un po'
ovunque.
Avevano regole precise nel loro piccolo e strambo gruppo:
nessun contatto con esseri umani, eccezion fatta per casi estremi e,
se succedeva, gli altri dovevano essere messi al corrente.
Avevano
visto l'umanità crescere, evolversi e smarrire la strada
sempre di più, sempre più lontani da un qualsivoglia
buon senso, sempre più vicini ad essere massa piuttosto che
individuo. Si erano fidati poche volte e, pur fornendo il loro
sovrannaturale aiuto, l'unica moneta di ricambio era sempre stata la
persecuzione; e, forse per distinguersi dallo sfacelo umano, si erano
impegnati per imparare dagli errori decidendo a conti fatti di
volerne, o doverne, rimanere fuori. Il loro intervento in quell'epoca
non sarebbe stato nemmeno giusto, loro non avrebbero dovuto esistere,
non avrebbero dovuto essere lì e quindi interagire avrebbe
significato alterare il corso degli eventi. Di contro, Shikamaru
credeva ché entrare nel mondo dei viventi un privilegio che a
loro non spettava più. In fondo erano solo vampiri, si
nutrivano di quella stessa vita tanto bramata, come parassiti. No,
Shikamaru ne era convinto, non sarebbe stato giusto.
Il suo
istinto gli diceva che Ino era là in quei campi coltivati a
materialismo e consumismo, forse era davvero uscita a farsi due
passi, ma allora perché non avvertirli?
Prese a camminare
verso quel marasma di frivolezze e luci al neon, sbuffando e
imprecando a denti stretti; non aveva mai adorato particolarmente il
caos dei centri abitati, nemmeno quando il sole poteva rischiarare la
sua pelle senza procurargli l'incenerimento della cute, con
conseguenti dolorose ustioni.
L'aria fredda e l'oscurità
facevano sì che dalle sue labbra uscisse del vapore molto
somigliante al fumo.Perché fingere?, pensò
infilandosi una sigaretta tra le labbra.
La radio dava solo schifezze a quell'ora e, all'ennesima
canzoncina rigurgitata dalle classifiche di venti o trenta anni
prima, decise che ne aveva avuto abbastanza; portò la mano in
basso, e fece per spegnere, quando qualcosa attirò la sua
attenzione. Un uomo ed una donna, abbastanza anziani, correvano,
abbracciati e singolarmente scossi.
Kiba accostò la
macchina, accese la torcia e si diresse nel vicolo da cui aveva visto
uscire i due.
C'era abbastanza luce, ma essa veniva tagliata
bruscamente, creando una fetta di oscurità dal momento che il
lampione stava al di là del muro di cinta di una villetta. A
terra un uomo era riverso a faccia in giù in una pozzanghera,
poco sangue aveva dato una tinta rosea all'acqua stagnante.
Dissanguato. Un altro. E il ragazzo era arrivato decisamente troppo
tardi.
Nel rammarico e la frustrazione del momento, il piccolo
rumore che seguì gli sembrò un enorme frastuono. Si
voltò di scatto, puntando la torcia e l'arma d'ordinanza in
faccia ad una ragazza bionda, coetanea avrebbe detto, seminascosta
dietro ad un palo della luce.
“Ciao. Tutto bene? - Fece
qualche passo verso di lei, dopo aver riposto l'arma, cercando di
avere un tono il più gentile possibile, scrutandola per vedere
se aveva segni di maltrattamento sulla sua esile persona - Stai
bene?” Chiese ancora, sentendo il silenzio addensarsi ed
appesantirsi nelle orecchie. Si fermò poi vedendola
indietreggiare, gli parve così fragile che si meravigliò
stesse in piedi da sola. Piedi. Solo ora notava la ragazza fosse
scalza. Inoltre la veste di seta che indossava, per quanto graziosa,
non doveva essere stata una scelta azzeccata per la temperatura.
“Sei
al sicuro adesso, sono della polizia, non avere paura.” Kiba
tese una mano senza avvicinarsi oltre, lasciandole intuire che poteva
decidere lei se prenderla o meno, ma la ragazza rise, realmente
divertita e l'Inuzuka pensò che era davvero una risata da
bambina, solo un po' più fine e composta.
“Come ti
chiami?” Chiese all'improvviso la giovane.
“Kiba. -
Attimo di smarrimento - e tu?” Si sentì chiedere prima
ancora di capire cosa c'entrassero le presentazioni.
“Mi
piace il tuo nome.” Non vi fu risposta, ma un'altra risata
gioviale e composta, poi quando tornò il silenzio, lei si
appoggiò al palo e finse un mancamento.
L'Inuzuka,
preoccupato, le si fece subito vicino per sorreggerla, abbracciandola
quasi.
Ino sorrise tra il dolce e il birichino, appoggiò le
mani sugli avambracci del ragazzo, lo annusò sul collo
avvicinando le labbra ad esso.
“Ino.”
La voce di
Shikamaru risuonò bassa e monocorde nel vicolo scuro e freddo,
tanto che Kiba sentì un brivido correre amorevolmente lungo la
spina dorsale.
La ragazza tra le sue braccia sembrò
rimpicciolirsi e quasi guaire, dispiaciuta di qualcosa che sfuggiva
al poliziotto, la vide rintanarsi al suo petto, ma senza paura
alcuna.
Si voltò fissando l'oscurità da cui aveva
sentito provenire quella voce atona.
“La conosci?, credo sia
sotto shok: è pallida e chiaramente in stato confusionale.”
Un movimento nel buio catturò la sua attenzione.
Shikamaru
lo guardò a lungo, con sospetto, prima di entrare nel
fascio di luce del lampione.
Kiba lo osservò a sua volta,
camminare lentamente mentre scrutava la vittima e una nota stonò:
non sembrava allarmato, spaventato o scomposto alla vista del
cadavere. Questo lo insospettì.
“È molto che
siete qui?” Domandò con tono pacato.
Nara non
rispose, ma seguì i suoi movimenti mentre cercava di sostenere
meglio Ino senza rischiare di toccare dove non avrebbe dovuto. Ma
notò anche che questo non era motivo di imbarazzo per il
poliziotto.
“Sentite, dovreste venire in centrale con me.
Niente di strano, solo qualche domanda.” Kiba contemplò
il viso di Ino che le era così vicina e alla quale ancora non
aveva prestato la dovuta attenzione. Aveva una fisionomia graziosa,
con qualcosa di audace nel nasino all'in su e nelle guanciotte rosee
rispetto all'incarnato pallido. Era una ragazza molto magra, non
anoressica, ma indubbiamente con qualche problema alimentare, stava
per chiederle se mangiava abbastanza quando venne interrotto
bruscamente.
“No.”
Kiba ci mise qualche secondo a
riprendere il filo del discorso poi, passandosi una mano sulla
fronte, sospirò comprensivo.
“Lo so che non è
stata una serata da ricordare, ma sareste d'aiuto per le indagini.”
Neanche chiuse la bocca che l'altro sbuffò, quasi fosse
annoiato da tutto quello.
“Non ci interessa aiutare, non è
affar nostro.” L'Inuzuka storse il naso, stordito da
quell'affermazione, ma come se l'altro stesse giocando sulla
tempistica del suo comprendonio, non ebbe tempo di aprire bocca. Lo
vide avvicinarsi alla ragazza e di contro sentì lei
irrigidirsi e ritrarsi leggermente, emettendo un altro mugolio
dispiaciuto.
“Ino. Non sono arrabbiato. Andiamo.” Lei
ridacchiò mettendo la sua piccola manina candida in quella
dell'amico.
Kiba assistette a tutto con una strana sensazione
addosso, come se fosse di troppo, come se stesse vedendo qualcosa che
non avrebbe dovuto.
Vide i lineamenti del ragazzo distendersi,
forse rasserenato dal sorriso dell'amica e pensò di getto che
fosse davvero molto carino. Lo sentì rilassato al punto che,
gli venne il dubbio, prima fosse teso perché l'amica era tra
le sue braccia.
“Sono un poliziotto. E anche se non lo fossi
stato... Che volevi che facessi?” Mormorò credendo di
averlo solo pensato. Si riscosse vedendo i loro occhi su di sé
e riprese il filo della conversazione con le risatine della ragazza
nelle orecchie ed uno strano gridolino che assomigliava troppo ad un
“ pensa che sei davvero molto carino”.
“Come
sarebbe? Non vi interessa prendere lo squilibrato che sta facendo
questo?- Domandò quasi retorico, ignorando forzatamente la
ragazza e indicando il cadavere ad un paio di metri da loro -non
volete aiutare la polizia a proteggere i civili?”
“No.”
Kiba si stranì ulteriormente.
“Vuoi dire che la cosa
non ti tange minimamente? - Chiese ancora, facendo qualche passo
verso la vittima - Lo hai guardato prima, ho visto che lo hai
guardato. Ci sono dei fori sul collo. Contusioni su tutto il corpo,
segno che era ancora vivo quando lo hanno aggredito ed ha cercato di
difendersi. Quest'uomo non sembra aver bisogno di aiuto per
difendersi. Tutti i cadaveri sono stati ritrovati in periferia, non
oltre. Quindi, ricapitolando, abbiamo un uomo, perché mi
rifiuto di credere che una donna possa avere tanta forza, un uomo ben
piazzato, un camionista forse, che nella sua follia non vuole destare
sospetti... un maniaco depressivo con manie di persecuzione? Un
gigantesco maniaco depressivo con manie di persecuzione che morde le
sue vittime sul collo.” Ci fu un attimo di silenzio in cui i
due ragazzi si guardarono in faccia, come studiando l'altro.
“Non
ci prendiamo in giro. Non può esistere, non regge, per quanto
mi sforzi, e sembri incredibilmente assurdo, non riesco nemmeno a
trovare spiegazioni razionali, ma solo logiche: non è umano. E
questo è semplicemente ridicolo.”
Ino sobbalzò
leggermente nel blando abbraccio di Shikamaru ed iniziò a
piagnucolare e a strofinare il viso sulla spalla dell'amico.
“Se
dovete dirmi qualcosa, sarebbe bene voi lo faceste ora, prima che
capiti di nuovo. - Kiba guardò la ragazza prima di aggiungere
qualcosa che fece stringere i denti a Shikamaru tanto da fargli male
- Prima che possa succedere a qualcuno che conoscete.”
In
quel preciso istante la sirena di una volante in avvicinamento fece
voltare la testa all'Inuzuka di riflesso, lasciando il tempo al Nara
di levare le tende. Quando Kiba tornò su i due strani
individui trovò solo il vicolo deserto davanti a lui.
L'ascensore avrebbe scricchiolato e cigolato e ruggito abbastanza
da svegliare tutto il palazzo, così prese le scale, con grande
gioia dei suoi piedi doloranti.
Girò la chiave con
lentezza, cercando di fare meno rumore possibile, quando la serratura
fece il suo dovuto scatto, entrò senza accendere la luce. Si
richiuse il portone dietro con la stessa calma e la stessa
accortezza.
“Dove diavolo sei stato?” La luce si
accese e lui quasi cadde a terra incespicando nella coda di Akamaru,
suo fedele ed inimitabile compagno di giochi, ozio e
passeggiate.
“Che cavolo, che ci fai ancora alzata?”
Tsume digrignò i denti mentre suo figlio guardava ovunque
tranne che nella sua direzione.
“Non cambiare discorso
Inuzuka, dove sei stato?” Le unghie curate e un po' lunghe
picchiettarono velocemente, a scalare dal mignolo all'indice sul
bracciolo della poltrona di pelle.
“In giro.”
Temporeggiò, accarezzando il fidato amico perpetuamente
scodinzolante.
“In quel tipo di giro che ti fa portare
appresso arma e torcia? Ti avevo detto di starne fuori, mi
sembra.”
Kiba sbuffò spostando di poco il deretano
del peloso quadrupede e sedendosi sul divano. Fin da piccolo gli era
sempre sembrato che quella poltrona fosse usata per incutere timore,
sua madre ci si sedeva sempre per sgridarlo e anche sua sorella negli
ultimi anni aveva preso a rompere dall'alto di quell'accozzaglia di
stoffe floreali. Oltretutto quel pezzo stonava col resto
dell'arredamento, quindi il motivo per il quale ancora si ergeva in
quel suo tetro angolino, era per incutere un po' di sano timore. Solo
un po', perché il resto ce lo metteva volentieri quel
soldato sadico che era sua madre.
“Perché non posso
semplicemente essere stato a fare un giro con Shino e gli
altri?”
“Perché Shizune-san e Tenzo-san ti
hanno visto correre via dalla scena dell'ultimo delitto.”
“Uffa...
Chi è di turno stasera a parte loro?”
“Non sono
affari tuoi. Comunque Hana è stata incaricata di parlare alla
famiglia e di farsi dare informazioni, magari le vittime sono scelte
in base ad una qualche logica.”
La luce tremò e lo
sguardo di entrambi si posò su una falena, con il suo sbattere
le ali vicino alla luce creava forme strane sul muro.
“O
magari no.” Borbottò il ragazzo osservando la farfalla
appoggiarsi sul pezzo di stoffa dell'abat-jour.
Tsume lo guardò
aggrottando le sopracciglia. Si grattò la testa ed
ispirò.
“C'è qualcosa che non so e che dovrei
sapere?” Indagò senza tanti preamboli, facendo
sobbalzare il figlio che si alzò dirigendosi verso la sua
stanza.
“No no, dicevo così, per dire.”
“Certo.
Kiba. - La donna lo richiamò con un filo d'apprensione nella
voce e lui si fermò lanciandole uno sguardo neutro ed
assonnato - Sta’ molto attento. E non voglio assolutamente che
tu e i tuoi amici andiate in giro da soli di notte, anche in centro,
potrebbe essere solo un caso che le vittime siano state ritrovate in
periferia. Sono stata chiara?”
“Sì, signora.”
“Non è questo il punto Ino.” Urlò guardando la
compagna arretrare e imbronciarsi, miagolando scuse.
“Avevi
detto di non essere arrabbiato.” Gli ricordò, con una
nota di fanciullesco risentimento nella vocina leggera.
Il ragazzo
si massaggiò una tempia respirando a fondo e pentendosi di
aver alzato la voce.
“Lo so. Ed è vero! Scusa, non
dovevo alzare la voce.” Le disse, realmente dispiaciuto, mentre
le prendeva una manina portandosela oltre il collo e la abbracciava,
con la sua risatina felice e senza tempo nelle orecchie.
All'incirca
quattro ore più tardi Ino dormiva nella sua stanza, dopo aver
mangiato. Il sole era ormai sorto da una decina di minuti. Chouji,
incaricato di far provviste, aveva svolto bene il suo compito e si
era messo ad ascoltare tutto con malcelata apprensione, prosciugando
un intero piccolo ed indifeso capriolo. Shikamaru seduto davanti a
lui aveva riassunto l'episodio con una strana espressione sul viso e
non aveva toccato cibo.
“Quindi fammi un favore Chouji: -
stava finendo di dire il Nara - Non lasciare sola Ino per nessun
motivo, a maggior ragione quando sarò fuori, dobbiamo trovare
chi miete vittime in tempo, prima che la cosa diventi troppo grande e
faccia scoprire anche noi.” Il ragazzo cicciottello di fronte
smise improvvisamente di ingozzarsi e, tutto sporco di sangue, pose
una domanda irritante:
“Allora intendi aiutare davvero
quell'umano?”
Shikamaru si toccò la fronte e il suo
sguardo vagò per la stanza. Al centro della suddetta un raggio
di luce filtrava dal tetto crepato della vecchia cripta; spesso
veniva circondato da pile di libri o da cerchi di candele più
o meno alte per evitare di incapparci, magari sovra pensiero, ma a
volte niente recintava quello spruzzo di luce che, come fosse
animato, illuminava un minimo quell'antro buio.
Quell'umano
sembrava davvero come quel raggio di luce e, qualcosa nel suo
insieme, lo attirava quasi più del sangue, che
perdeva attrattiva al confronto con il suo odore.
“Che
seccatura.” Soffiò, facendo sorridere l'altro anche al
ricordo di quello che Ino aveva detto, a proposito dei pensieri
dell'umano.
Nell'oscurità di una fognatura qualcosa si muoveva,
agitandosi e grugniva, scontento.
“Smettila di fare tutto
questo baccano idiota, mi stai irritando.” La voce bassa e
pacata non destava però sicurezza, ma intensi brividi, a volte
persino al suo compagno di viaggio.
“Kakuzu! Non penserai
che oltre a mangiare poco debba anche evitare di lamentarmi?”
Un pugno si agitò nell'aria con distinta ferocia.
“Ho
fame anch'io, ma non per questo sbraito e mugolo tutto il tempo.
Inoltre credevo di averti spiegato che siamo già troppo in
vista così, senza fare decine di vittime come vorresti tu.”
Il tono spazientito e leggermente più veloce, unico segno di
alterazione, venne ignorato dall'interlocutore.
“Una volta
non era così...” Piagnucolò ancora, lasciandosi
scivolare sul pavimento umido, chiudendo gli occhi su un fascio di
luce che filtrava da un tombino poco più in là.
“Hidan,
una volta non eravamo nel ventunesimo secolo.” Puntò gli
occhi al cielo, soffiando però un tono invariato.
“Mi
piacevano di più quei tempi! Era anche semplice cavarsela, un
gioco da ragazzi!” Sorrise quello, mettendosi seduto e
ricordando forse bei tempi andati, fatti di luoghi da scoprire e
carneficine a cui partecipare.
“Parla quello che si è
fatto staccare la testa.” Hidan in un attimo si fece serio.
“E
sta’ zitto. - Sbraitò tornando sdraiato -anche senza
testa ce l'ho fatta ad evitare il paletto.”
“Complimenti.”
Commentò con poca intonazione e nemmeno il minimo interesse,
il gigante seduto accanto a lui.
Fuori di lì l'aria andava
riscaldandosi.
Sono arrivata ultima T.T ergo mi servirebbe un po' di supporto morale (leggersi: vi prego, commentate!). Grazie.