Salve a tutti, lettori abituali e nuovi!
Non avevo in programma altre fanfic prima di iniziare
i miei corsi all’università, però questi giorni sono stati alquanto prolifici
per la scrittura e ho voluto concluderli in bellezza. L’ispirazione mi è
ronzata in testa mentre guardavo uno dei nuovi episodi del Dottor House (che
grandissima serie!), e quindi non aspettatevi qualcuna delle mie solite fic
allegre e coinvolgenti, perché credo risulterà alquanto pesante, specie
all’inizio. D’altronde suppongo abbiate dato un’occhiata ai generi
nell’introduzione.
Buona lettura, spero vi piaccia.
La voglia di non desiderare mai più nulla.
Sentire di non poter provare più niente, nemmeno il
dolore.
La più cupa apatia in cui va a rifugiarsi un cuore che
si trascina, stanco, a battere ormai solo per abitudine, non per voglia di
vivere.
La sua era scomparsa, insieme a tutto il suo mondo.
Insieme a lui.
I rumori dell’ospedale sono distanti e vaghi, come le
pareti della sua stanza fossero insonorizzate.
Disperazione, rabbia, rimpianto, sofferenza, sono come
quei suoni, atoni: bussano flebilmente alle porte di un anima in cui avrebbero
tutto il diritto di entrare, ma non apre loro. Non ne ha la forza, ed è la sua
più grande fortuna.
Guarda il soffitto, la lampada sul comodino accanto il
suo capezzale, le sue mani, il suo corpo coperto dal lenzuolo bianchissimo come
fossero la stessa cosa, e le procurano la stessa identica sensazione di
indifferenza.
In fondo il suo non era un caso così speciale: la vita
è crudele, tanti e tante altre, come lei, l’avevano vista ridursi a vuota
recita drammatica in un battito di ciglia. Ci pensava per tirarsi un po’ su, ma
senza riuscirvi.
Il giorno più felice della sua vita si era trasformato
in quello più orrendo.
Era stato ieri.
Ventiquattro ore o forse meno distesa sul letto senza
alzarsi, rinchiusa tra i bordi di una scatola con una finestra vista tramonto.
Nella scatola accanto, ventiquattro ore
prima e forse più aveva urlato con quanto fiato aveva in corpo, aveva
affrontato la prova più dura della sua vita: lui non era però lì con lei.
Eppure, nonostante il suo sole fosse altrove, aveva
dato tutta sé stessa per farcela, perché non voleva mai deluderlo, perché
voleva, quando finalmente sarebbe arrivato da lei, trafelato per la corsa e
mortificato per il ritardo, sentirsi dire da lui quanto era stata brava mentre
le carezzava una mano.
Poi si sarebbero baciati, ed anche se esausta avrebbe
avuto la forza di tenere gli occhi aperti per guardare, e le braccia sollevate
per abbracciare il fiore del loro amore appena sbocciato.
Invece, appena dopo il parto, quando con la testa che
ancora girava per il sollievo, aveva chiesto
dov’era suo marito, non aveva ottenuto risposta.
Evidentemente la notizia era già giunta ai medici. E
si era subito rifiutata di capire.
Poi, recata da una messaggera fidata affinché fosse
meno amara, la crudele medicina era stata somministrata anche a lei, non senza
la commossa partecipazione di quanti lì intorno avevano pena di lei, povera
disgraziata, o avevano tanto ammirato o amato lui quando era in vita.
Ma nessuno lo aveva mai amato quanto lei.
E le urla, e i tentativi di calmarla respinti a feroci
unghiate e gemiti sempre più forti furono la conseguenza più logica e più
insensata: la scena madre immancabile quanto folle.
Passata la tempesta era giunta la calma piatta. Il
vero motivo per cui si trovava in quell’ospedale passò totalmente in secondo
piano nella mente di tutti.
I suoi amici, la sua maestra, i suoi parenti: venivano
con ordine a farle visita, sgombrando dal loro cervello le congratulazioni
gioiose e a volte spiritose che avevano pensato nei giorni precedenti,
scoprendo con sorpresa che le parole per consolare si trovano con più facilità
di quelle per far ridere. La vera difficoltà sta nel pronunciarle. E nel
mettersi in testa che sono del tutto inutili.
Si avvicinavano a lei ed avevano tutti la sensazione
che una rete di filo spinato la circondasse.
Qualcuno andò via muto e a testa bassa, qualcuno a
denti stretti, qualcun altro che ancora cercava di farle pervenire qualche
buona parola, arrivando persino ad urlare; e lei le lasciava uscire dall’altro
orecchio.
Ventiquattro ore senza ascoltare.
Ventiquattro ore senza parlare.
Senza mangiare.
Senza bere.
Forse anche senza pensare.
L’unica riflessione che in quell’eternità le aveva
tenuto compagnia era che dopotutto doveva aspettarselo.
Lui aveva vissuto per dimostrare che si può cambiare
il proprio destino. E ci era riuscito.
Aveva vinto il proprio
destino di uomo e di forza portante.
Ma non era scampato al
proprio destino di Hokage.
La sua paura più grande.
Che errore era stato dimenticarla.
Non è scritto che un Hokage possa morire in pace, nel
proprio letto, circondato dall’affetto della moglie, dagli amici di una vita,
dai figli e dai nipoti, la discendenza di cui è stato fiero e che lo conforta
nell’ora dell’addio, mostrandogli come la sua esistenza sia servita a qualcosa.
No, si ripeteva.
Arriverà la guerra, prima o poi. Arriverà il pericolo
per cui ci sarà bisogno di sacrifici; ed essere il più forte e il più
importante, o solo una brava persona, anche la migliore del mondo, non ti
esenterà dall’immolarti sull’altare di un mondo profondamente ingiusto con una
storia inevitabilmente violenta e crudele.
Una volta aveva pensato a queste cose, ne aveva
parlato anche direttamente con lui; per rassicurarla avevano fatto l’amore,
tipico di lui che non voleva mai si preoccupasse, che l’aveva sempre difesa con
tutte le sue forze dal dolore col suo sostegno a lei così caro.
A sua volta non mancava di sdebitarsi, facendosi anche
lei sostegno per lui in quei momenti in cui la sua maschera sicura e
infaticabile cedeva ai colpi del dubbio e della stanchezza e veniva fuori il
ragazzo bisognoso che era dentro. Riconoscere di dipendere da ciò che gli
donava con tutto il cuore fu proprio ciò che lo portò ad innamorarsi.
Quanto era stata grande la sua gioia quando era
arrivato ad amarla.
Tutti quegli anni che aveva perso per paura di
esprimere ciò che sentiva, e tutte quelle sere a sospirare per il rimpianto:
finalmente anche lei veniva ripagata! I suoi sforzi per cambiare sé stessa
ricevevano la giusta ricompensa.
Essere ricambiata.
Ora cosa le restava?
Qualche anno vissuto felicemente prima che glielo
portassero via; ma quando i ricordi felici diventano dolorosi che via di scampo
si ha?
Quando tutto si conclude nel modo peggiore, dopo si
può, ancora una volta, rialzarsi?
Entrambi avrebbero risposto con sicurezza: si.
Lei, rimasta da sola, osava dare quella stessa
risposta.
Ora cosa le restava?
Le avevano detto, e le avrebbero ripetuto fino alla
nausea, la loro o la sua, che era morto per compiere il proprio dovere, per ciò
in cui credeva, per ciò che amava.
Buffo, erano parole che lei stessa avrebbe certamente
rivolto ad un’amica nelle stesse condizioni.
Ma ora che era lei la destinataria di quelle
bellissime frasi fatte, e ribolliva di collera a sentirle, capiva quanto il
dolore renda egoisti anche le persone come lei che hanno fama di essere
sensibili e dolci.
Ora cosa le restava?
Una gran voglia di dimenticare. Di far finta di non
trovarsi lì, di non aver mai partorito, di non essersi mai innamorata di un
tale di nome Naruto. Una gran voglia di star lì distesa, immobile e zitta con
gli occhi spenti, fino a che il mondo non si fosse dimenticato di Hinata Hyuga.
Si, ora che era diventata egoista lo sarebbe stata
fino in fondo: avrebbe continuato ad ignorare le visite, a lasciare che il
pranzo si raffreddasse e che la polvere si accumulasse sulla bottiglia d’acqua
e sui bicchieri di plastica, finché di fronte alla sua ritrosia si sarebbero
stufati anche di nutrirla per endovena, e finalmente l’avrebbero lasciata in
pace.
In pace.
In qualche momento di lucidità si era detta che non
ragionava. Che i suoi pensieri erano quelli di una pazza. Che stava rinnegando
l’insegnamento più grande che Naruto le aveva dato.
Credi.
In te stesso.
Nella bontà altrui.
In Dio magari.
Nella fortuna che torna a girare
Nel futuro.
-Quale futuro?- si domandò
Batté le palpebre sui suoi occhi congestionati
dall’incapacità di piangere: dopo l’eclatante sfogo seguito allo shock del
giorno prima non aveva più versato una lacrima.
Le batté ancora, e i suoi occhi restarono secchi e
continuarono a bruciarle.
Quegli occhi, dono della sua famiglia, potevano vedere
ogni cosa, oltre le cose, attraverso di esse.
Lei guardava oltre, attraverso il suo futuro, e non
vedeva che una donna distrutta, troppo debole e affranta, troppo macerata dai ricordi
dell’amore perduto per vivere in serenità il tempo che le restava.
Già si vedeva, icona di desolazione, rampicante senza
più sostegno destinata ad appassire, di nuovo insicura e fragile, troppo per
prendersi cura della sua bambina.
Che razza di madre sarebbe stata?
Meglio non provarci. Quella bimba che in quel momento
doveva starsene dimenticata da tutti a dormire in qualche culla del reparto
maternità non era la risposta. Né lei faceva al caso suo.
I suoi occhi, non le mostravano nulla.
Si accorge che sta arrivando. Il suo arrivo è sempre
anticipato da un forte rumore di tacchi: più facevano rumore e più la cadenza
era rapida, più era arrabbiata.
Si tratta di una persona che coi nervi a fior di
pelle riesce a intimorire chiunque.
Non che questo basti a smuovere una che si è messa in
testa di non sentire più niente. La testa le ondeggia appena un po’ sul
cuscino, e quando la porta di botto si apre non è lei a sobbalzare, ma Sakura
ad impressionarsi del gelo che si prova semplicemente dando un’occhiata dentro.
Hinata guarda fisso innanzi a sé. Con la coda
dell’occhio la scorge appena, e non si degna di girare il capo anche di un solo
centimetro nella sua direzione.
Può capirla, del resto era quella che le aveva portato
la notizia.
Ma non è per lei che vuole che si giri, non è per lei
che deve farlo; così si fa avanti, e compare a forza davanti i suoi occhi velati.
È imponente, anche grazie ai sandali neri con il
rialzo alto della suola: il camice da medico scende fino alle ginocchia e
drappeggia ad ogni suo passo, insieme ai lunghissimi capelli rosati.
“Guardami.”
Ha un fagotto di fasce tra le mani, e la sta puntando
con gli occhi verdi stretti in una maschera di collera: sembra incarnare quanto
di vivo vi sia tra le mura di quella scatola.
“Guardami, Hinata!”
Ha alzato troppo la voce, e il fagotto si mette a
piangere rumorosamente.
Sakura ora tace, ma non cambia espressione.
Neanche Hinata.
In compenso, almeno un po’, si gira.
“Ti decidi a reagire?”
Ventiquattro ore di inerzia depressiva totale non sono
serviti a scoraggiarla dunque, pensa la Hyuga.
Come solo accenna a guardare verso la finestra lei
urla di nuovo.
“Ho detto guardami!”
Sbuffa in risposta, è infastidita.
“Anzi, guarda lei!”
D’un tratto il tramonto lì fuori non è più così
interessante.
“Questa, Hinata, è tua figlia.”
Scandisce ogni parola. Le parla come una maestra che
insegna all’alunno i nomi delle cose che non conosce.
Ma l’alunna non sembra affatto curiosa.
Il pianto intanto continua, sempre più acuto. Piccole
mani mulinano a scatti nel vuoto in cerca di qualcosa, di qualcuno.
Sakura avanza: digrigna i denti, e attraverso essi
articola poche semplici parole.
“Questa è tua figlia, ed ha fame.”
Ormai le sono accanto: la dottoressa sua amica e cara
compagna di suo marito, e la morbida massa di carne e cartilagine che le ha
fatto patire l’inferno mentre usciva da lei.
Il pianto ormai è nelle sue orecchie: attraversa la
sua sgombra mente come un chiodo nel suo cranio. Non lo sopporta. Stringe i
denti anche lei, e non guarda.
“Ha bisogno di te.”
Per un istante
gli occhi pesti di una nottata insonne si sgranano, e alla dottoressa questo
non passa inosservato. Prende coraggio e prova a parlarle senza digrignare
troppo le zanne.
“Fa ciò che devi fare.”
Un ordine gentile. Un incoraggiamento. Una preghiera.
Hinata finalmente guarda la bambina.
Gliela sta porgendo.
Dallo sguardo, Sakura sembra pronta ad afferrarle i
polsi e costringerla a prendere quel fardello, ma non ce n’è bisogno.
Timidamente, le mani, tremolanti per la mancanza
d’energie, si alzano, e le braccia avvolgono con incertezza. Come sorpresa da un
tocco nuovo la piccola si interrompe, ma è una pausa breve.
La guarda, per la prima volta da quando è piombata lì,
per la prima volta non chiude in faccia la porta a chi le sta accanto: è
confusa, implora per un altro aiuto.
L’amica allora inizia a sbottonarle la camicetta; le
afferra i polsi, ma non c’è nessuno strattone: con tanta cura la guida, fa si
che porti la piccola dove vuole arrivare.
A quel punto fa tutto lei: l’intraprendente neonata
muove la testolina verso il capezzolo e finalmente tace.
Ora che i suoi lamenti non le spaccano più il cranio,
la osserva più attentamente mentre sugge da lei. Sembra morbida, ma sgraziata,
come fatta di palloncini annodati.
È tutta rossa, ma ha qualche piccolo filo giallo
paglia che spunta dalla testolina.
Non le sembra poi questo granché: una piccolissima
scroccona che, in cuor suo, non sa ancora con che occhi guardare.
Mentre sta ancora decidendosi, lei la anticipa.
Improvvisamente le ciglia nere si sollevano, e due
occhietti si spalancano, molto lentamente.
Colta come da un improvviso giramento, allenta la
presa.
Sakura è sgomenta.
Gocce cadono sulle lenzuola.
Non è latte.
Lacrime.
Escono come fosse cosa naturalissima. Senza
singhiozzi, senza far rumore, come gocce leggere di pioggia scorrono su un viso
senza ombra di tristezza, ma sconvolto dalla sorpresa.
L’aveva sentita nutrirsi grazie a lei, aveva sentito
le sue labbra contente.
Ma soprattutto, aveva visto.
Azzurri! Aveva gli occhi azzurri!
Due tondini color del cielo che si erano spalancati su
di lei. Curiosi e circospetti avevano incrociato il suo sguardo e quando era
successo aveva sussultato ed aveva iniziato a piangere senza accorgersene.
Occhi appena arrivati, non bianchi che guardano
attraverso, ma azzurri che guardano avanti, e quando c’è un ostacolo lo scavalcano,
illuminati di fantasia e di speranza.
Occhi come i suoi.
Vivi, vispi: le erano bastati pochi secondi prima che
le palpebre cadenti li nascondessero di nuovo per capire tutto questo. Quel
brevissimo sguardo le aveva ridato la possibilità di pensare a un futuro: un
futuro in cui non era sola, in cui l’amore della sua vita continuava a viverle
accanto.
Il tocco di una mano sulla spalla la svegliò dal sogno
nato dall’incubo.
“Molto brava, Hinata… Brava.”
Fu allora che il suo pianto divenne degno di tale
nome: forte, strozzato dai singhiozzi, liberatorio; e la spalla di Sakura fu lì
ad accoglierlo in un abbraccio.
I singhiozzi spezzavano i gemiti, i gemiti non
spezzavano il suo sorriso rinato: lo rivolse alla sua creaturina,
dedicandoglielo insieme a tutta la sua vita da quell’istante in poi.
Il viso sorridente di Naruto si focalizzò nitidissimo
senza arrecarle alcun dolore.
Le rammentò che l’insegnamento più grande che le aveva
dato, credi, non aiuta chi rinuncia.
Naruto non si arrendeva mai.
La piccolina succhiava senza fermarsi.
E nemmeno lei la lasciava andare.
Non mollare, devi credere.
Credi, non devi mollare.
“Dai, non vuoi aprire ancora una volta i tuoi begli
occhietti?”
Angolo dell’autore
Sto pensando
di modificare leggermente questa storia per farne un’altra versione
“realistica”, non ambientata nell’universo di Naruto ma nel nostro mondo, dove
cose di questo genere possono benissimo accadere.
Ho voluto
mostrare come le esperienze negative, specie quelle che ci provengono da un
fato cinico, possano indurre nelle persone, anche quelle più altruiste, un
rifiuto totale del mondo che li ha delusi, una chiusura a tutto, anche a ciò
che potrebbe salvarci. Ma fin tanto che intorno a noi avremo persone pronte a
darci una mano, e troveremo il coraggio di credere in loro, i nostri occhi si
riapriranno sempre. Ho cercato di trasporre qui quelle che sono le grandi
lezioni che questo manga mi ha ispirato, tra cui appunto credere che nell’altro
puoi trovare conforto, stima, e motivazioni per vivere, accettando sia il bene
che il male.
Hinata ha
visto negli occhi della figlia il suo futuro e il suo passato, Naruto, che
credeva perduto (da cui il titolo), e si è resa conto di aver sbagliato a
credere di aver perso tutto. La sua vita continuerà, e il mondo avrà ancora un
esserino biondo con gli occhi azzurri a rallegrarlo e a spronarlo verso nuovi
migliori traguardi.
Sono riuscito
a commuovervi, cari lettori? ^__^
Pensate un
po’ che per immedesimarmi nell’atmosfera ho sentito a ripetizione “Stacks”, di
“Bon Iver”, la canzone che sta in sottofondo nella puntata di Dottor House in
cui muore la fidanzata di Wilson (una delle poche volte che ho pianto davanti
la tv): la musica resta un’impareggiabile fonte di ispirazione! Spero di non
aver recato confusione con i tempi verbali: a scanso di equivoci, la fic è
narrata al presente, tranne quando ovviamente si parla degli avvenimenti
passati rievocati dalla protagonista.
PS: NARUTO X HINATA ORA E SEMPRE!