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Autore: Sad Angel    06/10/2009    0 recensioni
Calore, tutto intorno. Sdraiata nel letto, in posizione fetale, sonnecchiavo, esausta dalla frenetica giornata che avevo appena vissuto finché, all’improvviso, non sentii sul volto una folata di aria fredda ed una strana sensazione non mi colpì alla bocca dello stomaco. Espirai, un brivido freddo che saliva lungo la spina dorsale per poi irradiarsi per tutto il corpo. Aprii gli occhi. Un secondo. Poi urlai. NOTA DELL'AUTRICE: anche in questo caso, si tratta di un esperimento e, ovviamente, essendo una FF, non c'è nulla di vero. Buona lettura a chiunque volesse!
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo Primo

 Capitolo Primo

 

Timo

 

 

Un portone di pesante legno scuro.

Fissai un paio di secondi ciò che mi stava di fronte, osservando attentamente il legno poi, espirai, allungando una mano verso il citofono.

Un istante.

Una voce maschile, resa metallica dal citofono, chiese chi fossi.

Espirai, avvicinandomi maggiormente e pronunciando il mio nome.

Un altro momento di silenzio ed io mi affrettai ad aggiungere che ero una delle nuove ragazze del collegio.

Ancora silenzio.

Clack.

Tornai a fissare il portone mentre, lentamente, si apriva. Un ragazzo dai capelli scuri tagliati a scodella rovesciata, mi sorrise “Ciao. Esclamò, spostandosi per lasciarmi passare.

La borsa in spalla, veloce, attraversai la porta, ritrovandomi in un atrio molto luminoso.

Il ragazzo mi permise di dare una veloce occhiata intorno, prima di riattirare la mia attenzione su di sé. “Allora…” iniziò, fissandomi intensamente, come per farmi capire che voleva gli rivelassi il mio nome.

“Sofia…”

Lui mi sorrise ancora, prima di ricominciare “Allora, Sofia…” si fregò un secondo le mani, poi con la destra fece un gesto, indicando l’ambiente in cui ci trovavamo “Questo, ovviamente, è l’atrio…”

Io annuii, mordendomi le labbra per evitare di mostrare subito il mio carattere, definito dai più “Strafottente” solo perché odiavo le cose ovvie. Espirai.

Un secondo di silenzio, poi lui mosse un paio di passi verso la sua destra.

In silenzio lo segui, avvicinandomi ad una rampa di scale, mentre mentalmente avevo un flash di lui che, indicandole, esclamava “Allora, Sofia, queste, ovviamente, sono delle scale e, in caso non lo sapessi, quei piccoli spazi che salgono, a poco a poco, si chiamano gradini…”

Un momento.

“Sofia!”

Sbattei le palpebre, svegliandomi di colpo dal mio mondo, per tornare in quello “vero”. Deglutii “Scusami…mi sono persa…dicevi?”

Il ragazzo mi rivolse un altro sorriso, questa volta accattivante “Dicevo che in teoria gli studenti devo utilizzare le scale per raggiungere i piani superiori ma, eccezionalmente, è concesso l’uso dell’ascensore…” terminò, indicando un corridoio buio alla sua destra dove, immaginavo, fosse ubicato il più vecchio ascensore che avrei avuto modo di vedere nella mia vita.

In silenzio, annuii ancora, prima di abbozzare un lieve sorriso, solo perché mi sentivo un po’ in colpa per il mio piccolo flash.

Il ragazzo si avvicinò alle scale, iniziando a salire, mentre parlava “La tua stanza si trova al terzo piano, nel sottotetto…” iniziò “…La maggior parte delle stanze occupate da studenti “giovani” come te, in realtà si trovano al secondo piano mentre al terzo, di norma, si trovano gli alloggi degli studenti più grandi…”

Annuii, rispondendo “Capisco…”

“Studenti come me, che sono al dottorato…Perciò…siccome tu sei davvero un “ospite” in mezzo a noi, ti pregherei di comportarti esattamente seguendo le regole del depliant…”

Raggiunto il pianerottolo del primo piano, il ragazzo si fermò. Un paio di passi, poi indicò con un braccio alla sua sinistra “La sala da pranzo…” spiegò, prima di spostare lo stesso braccio a destra ed aggiungere “La cucina, dove gli studenti non possono accedere…”

Annuii ancora, seguendolo di nuovo mentre ricominciava a salire.

Perciò, tornando al discorso di prima, ti prego di moderare il volume della musica e il tono della voce, anche se è pieno giorno, per non disturbare, ok?”

“Certo!”

Il ragazzo si fermò, un piede sul gradino, l’altra gamba tesa. Si voltò e mi sorrise. “Fallo. Non voglio litigare.” Rincarò, il volto serio, prima di tornare a voltarsi e ricominciare “Di piantagrane ne abbiamo già uno…”

Aggrottai un secondo le sopracciglia, incuriosita ma evitai di porre domande, prima di diventare anch’io, magicamente, una piantagrane.

Ancora una rampa, nella quale lui mi elencò tutti gli orari e la miriade di cose che ero pregata di non fare durante il mio soggiorno lì e, finalmente, raggiungemmo l’ultimo piano.

Appoggiai il piede, alzando velocemente lo sguardo, ricominciando a guardare attorno.

Il soffitto era molto più basso, rispetto a quello dei piani precedenti. Ferma in cima alle scale, gettai un’occhiata alla mia destra, incuriosita, in un buio corridoio.

Deglutii.

“I pulsanti luminosi accendono la luce…” disse ancora lui, fermo accanto a me “…che si spegne, automaticamente, dopo un paio di minuti…”

Espirai.

“La tua stanza comunque non è in questo corridoio…ora seguimi…”

Lui si voltò, camminando veloce ed io dovetti quasi mettermi a correre, per stargli dietro. Ci infilammo in una porta, svoltammo un angolo e ci trovammo in un altro corridoio buio.

Un secondo.

Clack.

La luce illuminò un corridoio lungo il triplo del precedente. Deglutii ancora, seguendo il ragazzo, osservando, mentre camminavo, le file di porte.

“Sono tutte occupate?” domandai.

“No, no…!” rispose subito lui, la voce allegra “La maggior parte sono vuote e nessuno ci mette piede da anni… Non è da tutti, arrivare al dottorato…” concluse, la voce piena di orgoglio.

Ringraziando il cielo perché non poteva vedermi, sollevai le sopracciglia, in un moto di scherno, poi, veloce, le riabbassai mentre un flash di me che, di notte camminavo, anzi correvo, per quel corridoio pieno di stanze deserte, mi faceva rabbrividire. Espirai.

E in quanti siamo, allora?” domandai ancora.

Il ragazzo svoltò in un altro piccolo corridoio laterale, lungo come il primo che avevo visto. “Con te… Sei…”

Sgranai gli occhi, sbalordita “Solo sei?!? Ma perché allora dobbiamo stare qua in fondo…?!?

Lui aggrottò le sopracciglia, chiaramente infastidito dalla mia osservazione. “Perché il direttore ritiene che sia la soluzione migliore, presumo…”

Sbattei un paio di volte le palpebre e, completamente dimentica di chi avessi di fronte, chiesi ancora “E in base a quale considerazione, scusa?!?”

Lui mi gettò un occhiata gelida, poi mi voltò le spalle, senza prendersi la briga di rispondermi.

Lo seguii, sbuffando, conscia di essere appena diventata la seconda piantagrane.

Un paio di passi nel corridoio poi, all’improvviso, sentii il suono di una melodia rap provenire da una porta alla mia destra. Sbattei le palpebre, sorpresa.

Un secondo.

Passando davanti alla porta anche il mio accompagnatore sentì la musica, sbuffò poi, con forza, bussò sul legno.

Un istante.

Nulla. Pensando che la persona all’interno della stanza non avesse sentito, osservai il ragazzo abbassare la maniglia, senza troppi complimenti, spalancando la porta.

Vidi l’interno di una camera. Le pareti erano bianche, il soffitto, in diagonale. Il letto, a destra era ricoperto di libri e, a sinistra, dopo un armadio, sulla scrivania individuai uno stereo dal quale proveniva la musica. Al centro della piccola stanza, seduto sulla sedia, un ragazzo, i vestiti enormi ed un cappello hip-hop calato sul viso, leggeva un libro, tranquillo. Apparentemente, non si era ancora accorto di nulla.

Il ragazzo davanti a me tossì, cercando di attirare l’attenzione su di sé.

L’altro, come risposta, girò una pagina del libro.

Io mi mordicchiai le labbra, cercando di non ridere.

Il mio accompagnatore attese un altro paio di secondi poi chiamò, a voce alta “Timoo!”

Aggrottai le sopracciglia, non riuscendo a comprendere.

L’altro ragazzo continuò imperterrito a leggere.

Un altro momento.

Il mio accompagnatore scattò in avanti, allungando una mano, probabilmente pensando di scostare le cuffiette dalle orecchie dell’altro, di modo da essere sentito. Un paio di passi, poi si fermò, la mano a mezz’aria.

“Non stai ascoltando la musica con le cuffie…” esclamò.

Sobbalzai, stupita, spostandomi un po’, osservando meglio il ragazzo seduto sulla sedia. Sollevò le guance e, un piercing, sulla parte sinistra del labbro, brillò. Timo piegò un attimo il volto verso destra, osservando finalmente il suo interlocutore “Esatto, Alberto…” rispose, la voce che metteva in evidenza una cadenza straniera.

“Allora perché non mi hai risposto subito?!?” esclamò l’altro allibito “E’ mezz’ora che ti chiamo!”

Timo sogghignò, chiudendo lentamente gli occhi e riaprendoli altrettanto lentamente. In silenzio, raddrizzò la testa, tornando ad osservare il libro che teneva in mano, prima di rispondere “Semplice…Non mi andava di rispondere…”

Sbattei di nuovo le palpebre, stupita per l’ennesima volta mentre il mio accompagnatore, davanti a me, iniziava a tremare, per la rabbia.

Un minuto di silenziosa tensione.

Timo continuava a leggere, come se nessuno fosse mai entrato nella stanza. Lo stereo continuava a risuonare note rap. Ascoltai attentamente, tentando di riconoscere la lingua. Tedesco.

Tutti e tre, restammo perfettamente immobili per qualche minuto. All’inizio osservai attentamente il volto paonazzo di Alberto, quasi a voler monitorare il momento esatto in cui sarebbe esploso ma poi, notando che non accadeva nulla, tornai ad osservare Timo.

Un secondo.

Il ragazzo tedesco spostò lo sguardo dal libro, appoggiandolo su di me. Mi fissò, senza sorridere, per istanti che a me parvero interminabili, infine, chinò di nuovo il capo verso destra. Continuò ad osservarmi, a lungo e, per la prima volta da quando avevo lasciato il mio paese, mi sentii a disagio. Non mi piaceva, il modo in cui mi fissava. Sembrava che volesse leggermi l’anima. Infastidita ed imbarazzata, deglutii, spostando lo sguardo di nuovo su Alberto, sperando che si riprendesse presto e lo facesse smettere.

Altri secondi.

Espirai.

“Tu chi sei?” domandò un istante dopo la voce particolare di Timo.

Inconsciamente, tornai a fissare i suoi occhi color nocciola.

Altri secondi di silenzio.

“E’ una nuova…” si intromise Alberto all’improvviso, la voce che denotava una nota d’astio.

Sia io che Timo spostammo velocemente lo sguardo su di lui. Io, lo fissai, le sopracciglia corrugate, tutt’altro che entusiasta ad essere classificata semplicemente come “una nuova”. Timo, invece, gettò uno sguardo neutro ad Alberto, prima di ricominciare a fissarmi.

“Beh…Non voglio mocciose tra i piedi, perciò stammi alla larga…” esclamò un secondo dopo il ragazzo tedesco, smettendo di osservarmi e tornando a concentrare la sua attenzione sul libro.

Sorpresa, sbattei un paio di volte le palpebre, la rabbia che adesso coglieva anche me “Ma chi ti ha chiesto niente!” sbottai, senza controllo, urlando, per l’indignazione.

Timo piegò di nuovo il viso verso destra, appoggiando i duri occhi nocciola su di me. Un istante. Sul suo viso apparve un ghigno.

Sgranai di nuovo gli occhi, talmente sconvolta da realizzare che Alberto, afferrandomi per le spalle, mi aveva trascinato fuori dalla stanza, solo quando ci ritrovammo di nuovo nel corridoio, la porta della stanza di Timo, chiusa.

Sbattei ancora un paio di volte le palpebre, guardando per alcuni secondi il volto di Alberto, senza riuscire a vederlo realmente. Il ragazzo mi lasciò fare per un po’ poi, vedendo che la mia capacità di ripresa non era immediata, appoggiando le mani sulle mie spalle, mi fece ruotare.

Vidi un’altra porta di legno, esattamente di fronte alla stanza di Timo.

“Questa è la tua stanza…” esclamò lui, allungando veloce una mano sulla maniglia, abbassandola.

Sbattei di nuovo le palpebre.

Quella che sarebbe stata la mia stanza sembrava l’esatto opposto di quella di Timo. Immersa in una strana penombra, nonostante fosse pieno giorno e le persiane fossero aperte, il pavimento, diviso in diverse zone d’ombra, per via dei mobili.

Ma…ma…” balbettai io, voltandomi velocemente verso Alberto, senza sapere bene che cosa chiedere.

Lui abbozzò un ghigno “Mi dispiace…Non ci sono altre scelte…o questa…o questa…!”

Deglutii, tornando a fissare di nuovo di fronte a me, scrutando attentamente l’ambiente, alla ricerca di una risposta ad un ipotetica domanda che nemmeno io sapevo quale fosse.

“Allora…” ricominciò lui, un istante dopo, la voce allegra “…Ti lascio familiarizzare con la tua nuova casa e con i tuoi nuovi vicini…”

Non appena ebbe finito di parlare, Alberto scoppiò in una risata di scherno e, con passo lento, il mio sguardo allibito perennemente sulla schiena, si allontanò. Raggiunta la parte opposta del corridoio, abbassò la maniglia dell’ultima porta, la quinta, sulla destra. Aprendola, fu subito colpito dalla luce del sole. Fermo nel corridoio, si voltò di nuovo verso di me. Le sopracciglia alzate, rise ancora, prima di sparire all’interno della sua stanza, lasciandomi sola, davanti alla porta della mia.

La stanza spettrale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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