Titolo: Come una conchiglia
Autore/Data: Sefoev, settembre 2009
Beta-reader: Dogma
Genere: introspettivo, romantico, drammatico
Personaggi: Personaggio Originale, Severus Piton, Albus
Silente, Minerva McGranitt, Gilderoy Allock
Paring: Severus/Personaggio Originale
Epoca: 2° anno di HP e post HP a Hogwarts
Avvertimenti: AU, Spoiler del 7° libro
Disclaimer: personaggi ed
i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì,
prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I personaggi
originali di Hannah Arendt (solo se avete inserito uno o più personaggi
originali creati da voi, naturalmente), i luoghi non inventati da J.K. Rowling
e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio
esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o
una citazione da essa.
Questa storia non è stata
scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del
copyright è pertanto intesa.
Nota 1: La mia prima nota
riguarda il senso di questo racconto, con il quale sono riuscita a superare un
“blocco artistico” che durava da più di dieci anni. Severus Piton è stato per
me il risveglio della voglia di mettere nero su bianco emozioni e sensazioni. Essendo
poi questa la prima storia che scrivo su di lui, ho cercato di metterci dentro
il ‘mio’ Severus Piton, la sua chiusura nei confronti degli altri e il suo
immenso bisogno d’amore, che l’autrice originale ha voluto lasciare
insoddisfatto. A volte penso che la Rowling lo abbia fatto apposta per
omaggiarlo della possibilità di essere amato in mille modi diversi da chiunque
fosse riuscito a vedere al di là della maschera di ghiaccio che il tetro
professore si era imposto di portare: se ci avesse dato un Severus innamorato e
ricambiato avrebbe sicuramente tarpato le ali ai sogni che tanti sono poi
riusciti a rappresentare nelle loro storie, più o meno come ho provato a fare
anch’io.
La protagonista principale
della storia è, però, il mio personaggio originale, Hannah Arendt, che
rappresenta molto, per non dire tutto, di me stessa: a parte la situazione di
partenza (lei è una ‘donna libera’, io invece sono felicemente sposata con
figli), tutto di lei, ogni comportamento e ogni pensiero, l’ho scritto
immaginando come io avrei agito o
pensato. Vorrei spendere due parole sul suo nome, che è nato un po’ a caso, ma
poi è evoluto coscientemente in qualcosa di molto significativo. Inizialmente mi
piaceva molto il nome Hannah perché esprime molta dolcezza, soprattutto se
sussurrato. Perché con due h? E’ stato un puro caso. Ma non riuscivo a pensare
ad un cognome adatto. Poi un giorno, mentre rileggevo i primi capitoli della
storia, mi sono ricordata improvvisamente di una cosa che avevo letto durante
la mia fase “amore per la filosofia”: c’era un autrice di nome Hannah Arendt
che aveva scritto opere sulla natura del potere ed, in particolare, sul
totalitarismo. E allora ho deciso di chiamare così la mia protagonista, umilmente
in onore della grande filosofa ebrea perseguitata dai nazisti, così come la mia
Hannah si ritrova Babbana in un mondo magico in cui un crudele basilisco uccide
i non Purosangue.
Nota 2: Vorrei omaggiare di una nota tutta sua l’insuperabile Dogma, ovvero la mia fantastica Beta Reader. Se c’è veramente, come spero, qualcosa di buono in questa storia che vi accingete a leggere, lo si deve in buona parte a questa piccola grande donna, nonché artista a tutto tondo (non ne ho la sicurezza, ma per me fa anche sculture!), che mi ha affiancata con consigli e correzioni. E’ stata lei che mi ha bacchettato sulla lunghezza dei capitoli, spingendomi ad abbandonare il mio senso di sintesi a favore di una maggiore chiarezza e descrizione di luoghi, personaggi e situazioni; e sempre lei ha saputo sottolineare, in modo deciso ma anche incredibilmente simpatico e divertente, situazioni stonate o espressioni troppo ‘rapper’ di Severus. Grazie infinite Charlie per avermi sempre riportato sulla strada corretta e per averlo sempre fatto con fermezza e gentilezza.
Buona lettura!
***
Capitolo I. – L’inizio della storia.
Per sentirmi di nuovo
vicina a te sono venuta qui, in questo squallido quartiere chiamato Spinner’s
End, a cercarti tra le cose che ti sono appartenute.
Mi fermo davanti alla
porta e alzo la mano per bussare, ma poi, con un tuffo al cuore, penso che è
inutile: so già che la casa è vuota e nessuno mi verrà ad aprire.
Giro la maniglia ed
entro nel piccolo salotto: tutto è perfettamente in ordine e la stanza è
pervasa dall’odore dei libri che ne ricoprono le pareti.
Accarezzando il divano
logoro, vado decisa verso la stretta scala che porta alla camera da letto, che
ormai, senza i tuoi incantesimi a nasconderla, è completamente accessibile.
Sulla sedia dello
scrittoio c’è uno dei tuoi neri mantelli e nell’armadio trovo le tue camice
bianche.
Ce n’è una gettata sulla
poltrona che sta davanti alla finestra; la predo e me la porto al viso, per
perdermi nell’odore che ci hai lasciato l’ultima volta che l’hai indossata.
Finalmente, dopo tanto
tempo, le lacrime cominciano a sgorgare inarrestabili.
Il dolore è così intenso
che devo sedermi, fatico a respirare e vengo travolta dai ricordi.
Mi chiamo Hannah Arendt
e sono una normalissima Babbana; anche se fino a pochi anni fa, non sapevo
neanche che esistesse questa parola.
Vivevo tranquillamente,
molto soddisfatta di come procedeva la mia esistenza, riempita da una famiglia,
degli amici, un lavoro, sempre a dieta e sempre di corsa.
Non avevo mai incontrato
l’amore ‘vero’, quello con la A maiuscola che fa battere il cuore e perdere la
testa; certo, avevo avuto un paio di storie serie, ma le avevo troncate perché
non credevo di essere ancora pronta per darmi totalmente ad un’altra persona.
Tutto il mio mondo venne
stravolto in una torrida domenica di ferragosto, in cui la maggior parte dei
Babbani come me aveva lasciato la città alla ricerca di luoghi più freschi,
mentre io ero una dei pochi sfortunati ancora inchiodati al lavoro.
In breve, mi occupavo di
gestire software per una grande società di informatica e i clienti, soprattutto
stranieri, pagavano per avere un’assistenza tutto l’anno.
Mentre tornavo a casa,
felice di poter finalmente iniziare le mie vacanze, mi imbattei in uno strano
signore: era vestito con una tunica di un azzurro brillante e aveva capelli e
barba lunghi e argentei.
Era accasciato proprio
accanto al mio portone e aveva una ferita anch’essa strana: cinque tagli lunghi
e netti sotto il petto che potevano essere stati incisi da una lunga lama, se
non fosse stato per le evidenti bruciature lucenti che li avvolgevano.
Nella mano destra
stringeva un bastoncino di legno levigato, che terminava con una specie di
manico lavorato, e respirava faticosamente.
D’istinto aiutai quel
signore e lo portai, non senza una certa fatica, nel piccolo appartamento in
affitto in cui vivevo.
Ad ogni passo lo
sconosciuto emetteva un gemito di dolore e, quando entrammo in casa, lo
accompagnai direttamente sul letto.
Una volta disinfettate e
bendate le ferite, chiamai gli amici ai quali avrei dovuto far visita la
mattina successiva, per disdire tutto, inventandomi un’improvvisa influenza.
Non so ancora spiegarmi
perché non chiamai né la polizia né un dottore: sapevo che io e da sola dovevo
occuparmi di lui.
Nei due giorni
successivi lo sconosciuto ebbe la febbre molto alta e continuò a delirare,
parlando di cose che per me non avevano nessun senso.
Vaneggiava su persone e
luoghi i cui nomi sembravano uscire da un libro fantasy e mi chiedeva,
disperato, pozioni e incantesimi di guarigione.
Le ferite, intanto, non
avevano affatto assunto un bell’aspetto: l’aurea lucente era scomparsa, ma
rimanevano gonfie e rosse.
Invece di ricorrere a
chissà quale medicinale, decisi di usare i vecchi ‘rimedi della nonna’: le
pulivo diverse volte al giorno con acqua e sale e, nonostante la temperatura
caldissima, costringevo il malato a bere brodo di pollo bollente.
Il terzo giorno,
rientrata da una corsa al supermercato, lo trovai seduto in poltrona: la febbre
era scesa e il suo sguardo era sorprendentemente vigile e lucido, come se non
fosse mai stato male.
Mi guardò a lungo, senza
parlare, quasi a voler varcare il fondo della mia anima; io rimasi tutto il
tempo immobile, incapace di muovermi o di dire qualcosa, inchiodata a terra da
quei due occhi cristallini che mi fissavano.
All’improvviso fece un
cenno d’assenso e sembrò decidersi: mi disse di chiamarsi Albus Silente e di
essere un potente mago.
Invece di fare
semplicemente un incantesimo per ‘pulire’ la mia memoria, che lui chiamò
Oblivion, aveva deciso di fidarsi di me e di raccontarmi del suo mondo.
La sera in cui lo avevo
trovato ferito aveva avuto uno scontro con un Grifone fuggitivo, un pericoloso
animale con il corpo di leone e la testa d’aquila, che lo aveva
inaspettatamente aggredito nel parco dietro casa mia.
Era sfuggito
all’attacco, ma la bestia era comunque riuscita ad assestargli una potente
zampata che l’aveva indebolito a tal punto da non riuscire ad andare troppo
lontano.
Le mie cure naturali lo
avevano aiutato a ritrovare la forza sufficiente per riuscire a riprendersi.
“Certo l’infermiera
della scuola di magia e stregoneria di cui sono preside, Madama Chips, ci
avrebbe messo meno di tre ore, invece che tre giorni, a guarirmi! Ma devo
ringraziarti per avermi prestato soccorso e anche per non aver informato
nessuno dell’accaduto” mi disse tranquillamente al termine dell’incredibile
spiegazione magica che mi aveva appena dato.
Ovviamente pensai di
trovarmi di fronte ad un folle scappato da chissà quale istituto di igiene
mentale.
Lui mi guardò,
sorridendo serafico, e disse due semplici parole “Accio Chiave” e la chiave di
casa, che mi accorsi solo in quel momento di tenere ancora stretta in mano, si
mosse e volò tra le sue.
Da quel momento mai più dubitai delle parole di Albus Silente.
Per tutto il mese
successivo ci vedemmo quasi ogni giorno e mi parlò a lungo della sua realtà.
Mi descriveva le
creature fantastiche che l’abitavano, alcune pericolose, altre orribili, ma
tutte strane e affascinanti.
Mi raccontò anche della
guerra contro un potente Signore Oscuro che era terminata appena dodici anni
prima: i suoi occhi erano ancora velati di tristezza e amarezza al pensiero di
tutti i maghi e le streghe che aveva visto morire e soffrire durante quel
periodo di terrore.
Mi disse che tutto era
finito un giorno, improvvisamente, con la scomparsa di Lord Voldemort (questo
era il nome del malvagio mago), mentre tentava di uccidere un bambino, Harry
Potter, l’unico mai sopravvissuto ai suoi attacchi.
Io ero completamente
incantata dai suoi racconti e dal momento in cui scoprii l’esistenza di questo
meraviglioso mondo parallelo a quello che avevo sempre conosciuto, cercavo di
leggere i ‘segni magici’ in tutto ciò che vedevo o sentivo: dalle notizie un
po’ strane date al telegiornale, alle persone ‘particolari’ che notavo in
metropolitana.
Il legame che, senza una
ragione precisa, si era stabilito tra me ed Albus si rafforzò tanto che, a metà
settembre, mi propose di andare a lavorare come sua assistente/segretaria nella
scuola di magia di cui lui era il preside.
Mi sembrava incredibile
che questa occasione capitasse proprio a me, semplice Babbana!
Per la prima volta in
vita mia presi una decisione in modo del tutto impulsivo e accettai l’offerta.
Non potendo,
naturalmente, dire la verità a parenti e amici, li lasciai completamente
allibiti raccontando loro che avevo intenzione di intraprendere un viaggio di
crescita personale in India e che sarei stata via almeno fino all’estate
successiva.
Tutti mi guardavano come
se fossi completamente impazzita e provavano a ‘farmi ragionare’, ma io mi
mostravo irremovibile e sfoderavo un sorriso il più rassicurante possibile.
Così, divisa tra
l’esaltazione per la nuova vita che iniziava e il panico per non sapere bene
che cosa mi attendesse, chiesi un periodo di aspettativa al lavoro e mi
avventurai nel mondo magico.