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Autore: suzako    07/06/2005    5 recensioni
una storia dentro alla storia. rivoluzioni, cuba, cos'altro? leggete e recensite.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Cuba/Che Guevara
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Untitled Document Vorrei raccontarvi una storia. 1958. Non chiedetemi una data più precisa, quel poco che ricordo fa già abbastanza male; soprattutto qui, al 15° piano di questo stanco grattacielo di Città del Messico, in questo squallido appartamento. Ma racconterò lo stesso. Almeno per un po’ mi aiuterà a dimenticare la puzza di smog. Allora…dov’ero? Dove sono?
Nel 1950, o giù di lì ero a Cuba. Sapete dov’è? “la più grande isole delle Antille, la capitale, la Habana, conta circa due milioni di abitanti…” – così recitano i testi di geografia scolastica. Ma cos’è veramente cuba? Ho vissuto su quell’isola meravigliosa e tanto rimpianta per 18 anni, sono stato cubano per 14. Allora era una cuba diversa. Niente turisti sulle spiagge assolate, niente manifesti “para la victoria” per le strade, invece dei cartelli stradali, niente alberghi di lusso gestiti da ricchi imprenditori capitalisti, che di quest’isola conoscono forse ogni ettaro di terra, ma che in realtà non hanno capito nulla…niente di niente. Ma c’era la rivoluzione. La povertà nelle campagne 8in realtà, molto probabilmente quella c’è ancora) e nelle città. La dittatura americana. Lo hanno ben cacciato lo Zio Sam, vero? Di certo non grazie a me; per come è andata. Perché anche io ero lì, e, si può dire io sono ancora a cuba: perché un pezzo del mio cuore, un pezzo del mio orgoglio, un pezzo di me, l’ho lasciato lì, nella boscaglia vicina alla clara; Santa Clara. Avete presente? Era una cittadina piccola poco più di un paese. Non la conoscete’ no, ovvio, anche perché non potete dire di conoscerla solo per averla vista sull’atlante, se non avete guardato almeno una volta gli occhi dei suoi abitanti. Comunque, io ero lì vicino, in un villaggio nei pressi de la Clara, ma saperne il nome non vi servirebbe a nulla, ammesso che esista ancora, a parte che nei miei ricordi. O forse ne avete sentito parlare in una canzone, una canzone conosciuta ma non troppo, che parla di un comandante… Comunque prima che ci arrivassero Los barbudos, non ce ne erano di rivoluzioni, vicino a Santa Clara. Solo povertà, sfruttamento, sottomissione…

Vivevo, per così dire, con la mia famiglia. Una vecchia nonna cieca e mio fratello. Avevo quattordici anni, mio fratello diciassette. Ricordo poco, di lui, mi sembrava sempre di guardarlo dal basso, mi sembrava sempre di vederlo un gradino sopra di me… irraggiungibile… non so dove sia, adesso, non so dove l’abbia portato la rivoluzione; forse da qualche parte nella Sierra Maestra, perduto, tra i sogni di libertà e uguaglianza. Potrei essere lì con lui, ora… Ma non è così, e continuerò a raccontare. Non avevamo una terra da coltivare, tutti i giorni facevamo quattro ore di cammino, verso i campi dove lavoravamo per un qualche ricco proprietario terriero messicano o nonsochè. Zucchero, banane, caffè… La ricchezza di Cuba, quella ricchezza che non avevamo.
E un giorno la vecchia cieca morì. Dopo novantaquattro anni passati al buio, sempre in silenzio, senza poter dare un’immagine a un volto. Che fosse un segnale? Perché fu dopo la sua morte che arrivarono loro. Los Barbudos. Li chiamavamo così. Rivoluzionari, guerriglieri.

Fuggono!
Da chi?
Eserciti controrivoluzionari
Potrebbero trovarli
Ma da chi scappano?
Chiedono di nascondersi
Che cosa facciamo
Potremmo aiutarli…
No no no!
Qua ci ammazzano tutti…

Così diceva la clara. Alla fine, per solenne decisione del vecchio Juan, sigaro perennemente alle labbra e il mistero di un autorità conferita non si sapeva quando ne da chi, i barbudos furono ospitati. Restarono solo pochi giorni, per la gioia della vecchia Maria, la bisbetica, così la chiamavano nel villaggio. Aveva la particolarità di non essere mai d’accordo. Mio fratello la chiamava “una vecchia stronza che non aspetto altro che finire di vivere”. Ma non ricordo bene neanche come fosse. Beh, i frutti che rubavamo del suo orto li ricordo ancora bene, ma questa è un’altra storia. Pochi giorni, sì, all’apparenza nessun cambiamento, ma fu quel breve periodo a cambiare la mia vita. Erano quasi tutti cubani. Ce ne era uno, in particolare, parlava con accento argentino, ma per il resto era come gli altri. Avevano il volto coperto da una barba spinosa, fumavano sigari e leggevano in continuazione. Ricordo che urlavano un sacco. Sporchi e contusi, i volti stanchi, erano accessi dagli occhi che brillavano di uno strano bagliore. Il loro aspetto parlava di notti insonni passati a fare veglia in una calda e inquietante notte cubana, con il canto di grilli e cicale che intona una strana litania, di fughe precipitose, di nascondigli in mezzo alla fitta boscaglia, di notti all’addiaccio, scontri e sangue e paure, collaborazione e libertà, di rispetto. Tutti, nessuno escluso, sembravano guardare le cose in modo diverso. Li invidiavo, ma allo stesso tempo li temevo. Li osservavo. Pochi giorni, nessun cambiamento apparente, finchè una notte mio fratello mi svegliò, e mi dice, io vado con loro. Dormivo, non capisco, tutto mi appare con le tinte ancora confuse di un sogno. Loro chi? – rispondo. Mio fratelli si spazientisce: ascoltami, dice, c’è una rivoluzione. È per la rivoluzione, capisci? Partono, i barbudos, si dirigono verso la Habana, capisci. E io capisco. Senza accorgermene aggiungo: sì. Vengo con te. Lui non dice niente, prende un sacco,si alza e io lo seguo. Camminiamo sette ore. Arriviamo ai margini della foresta, verso le prime luci dell’alba, e ci sono loro. Los Barbudos. Ci aspettano. Non siamo gli unici del villaggio, vedo il nipote del vecchio Juan, ma non lo saluto. Ci avviciniamo, sento qualcuno dire, chi è uesto qui, a mio fratello, e mi indica; e tutto ad un tratto ho paura e vorrei scappare, cosa ci faccio qui, penso. Qualcuno ride. Mi fa male. È come se non mi avessero riconosciuto. Guardo mio fratello, lo vedo comportarsi come uno di loro. Lui è mio fratello; lo sento rispondere. Io non dico niente. È solo un bambino. Adesso a parlare è l’argentino. Ha quattordici anni, parla ancora mio fratello, può venire, è con me. Un silenzio improvviso, ci danno un arma, un vecchio fucile e non so nemmeno come si usa, me lo insegna l’argentino. Credo di ricordarmelo ancora, ma è passato troppo tempo. Camminiamo. Nient’altro, camminiamo e basta, continuiamo a camminare, fino a notte fonda. Poi l’argentino, che sembra il capo, mi guarda e dice: ci fermiamo qui, stanotte. E io cado. Non mi siedo, mi accascio tra la melma. Qualcuno ride. Mio fratello mi aiuta ad alzarmi, mi dice, vuoi fermarti qui, vuoi tornare indietro? No, non voglio, gli dico, non sono un codardo, non ancora. Ce l’avevo un orgoglio. Ma avevo paura, troppa paura, per un guerrigliero. Ci seguono gli americano, ci dicono, eserciti controrivoluzionari, tiriamo fuori i fucili, li carichiamo stando all’erta, e un gesto cos’ inutile ci fa sentire invincibili, fieri di essere lì, sicuri di noi come non mai. Così i primi giorni. Poi le cose andarono meglio. Camminavamo, come sempre, nessuna traccia dei misteriosi inseguitori. Ero tranquillo. La Habana si avvicinava ad ogni passo, dagli altri gruppi arrivavano notizie rassicuranti. Ci aspettavano erano vicini. Questi messaggi arrivavano da fidel, dicevano. Fidel chi? Chiedevo io. Nessuna risposta. Andavamo avanti, finchè…finchè…
Una notte incontrammo una capanna di contadini. Lavoriamo per i capitalisti, ci dicono, ci fanno stare nella stalla, al coperto. Mi addormentai subito.
Qualcuno mi sveglia. Chi è, mi chiedo, dove sono. Sento la voce di mio fratello, mi chiama mi sta parlando. Dobbiamo scappare, dice, ci hanno travati! I contadini avevano avvisato un gruppo di militari americani, ci hanno trovati, dobbiamo scappare. Mi sveglio, barcollo, e in un attimo sono fuori, il caldo mi colpisce la faccia, incomincio a sudare, il fucile mi scappa dalle mani. Gli altri corrono, sono veloci e si muovono agilmente nella fitta boscaglia, cerco di raggiungerli. Era una calda notte cubana, con le zanzare che ti ronzano nelle orecchie. È stata la notte, che mi ha tradito. Sono lontani, io corro per raggiungerli, troppo lontani, non vedo, gli occhi appannati dalle lacrime. Piango? No, no è il vento, è tutta colpa del vento, mio fratelli mi prenderà in giro, più tardi, ne sono sicuro, quando li raggiungerò…
Cado, mi tradisce la notte. Cosa non ho visto? Quale radice non ho evitato, quale melma mi ha fatto scivolare? Il fucile vola lontano e…
Mi volto, vedo un altro fucile davanti a me. Lo regge un uomo che mi si para davanti, alto e grande, mi sembra immenso, il volto rasato, l’elmetto luccica sinistro, nella notte traditrice. Lo sento parlare una lingua sconosciuta. Regge il fucile e lo punta contro la mia fronte scoperta. È vicinissimo, riesco a vedere ogni particolare, il segno di un colpo sul giubbotto antiproiettile, la canna del fucile verso la fine è un po’ ammaccata, ma sicuramente funziona ancora, c’è scritto made in…
Sparo.
Sono vivo. Sono vivo. La prima cosa che penso. Io sì, sono vivo, ma il soldato davanti a me si è accasciato a terra, un suo compagno arriva e si guarda intorno, fruga con gli occhi nella boscaglia.
E io capisco. Capisco da chi è partito lo sparo, capisco dov’è, ma non lo guardo, lo indicherei con gli occhi. Sento un rumore, appena un fruscio di foglie. Anche l’altro soldato, che mi teneva sotto tiro con il fucile, lo sente e guarda in quella direzione. Troppo tardi, l’argentino è già sparito fra la boscaglia. Il soldato lo insegue, corre via. Non lo prenderà. Hasta sempre… comandante; penso.

Cosa successe dopo? In realtà non lo so. Sui miei ricordi è crollata una fitta nebbia. So quello che avrei potuto fare: seguire la direzione dei compagni, lottare, morire per la rivoluzione, a Cuba.
Ma non è stato così, Scappai, avevo paura, corsi via, camminai strisciando verso il villaggio più vicino. Mi feci assumere da un latifondista nei campi come bracciante,e pochi anni dopo me ne andai. Scappai da cuba, quell’isola che ormai non mi apparteneva più. Sono arrivato qui, a Città del Messico. Delle rivoluzioni non sentii più parlare. Non rividi mai più mio fratello, non so che fine abbia fatto. Non sono mai tornato a cuba. Almeno, qua nessuno sa chi ero, chi avrei voluto essere, chi sono in realtà. E dei canti rivoluzionari, degli inni alla libertà e all’uguaglianza, della forza del pueblo contro le dittature, delle rosse bandiere, delle vecchie promesse fatte, non mi rimane che un pugno di illusioni, lasciati laggiù, da qualche parte nella boscaglia cubana, sulla strada tra la verità e il sogno.


  
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