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Autore: eiden    22/10/2009    3 recensioni
Passi veloci ma più leggeri risuonavano sul pavimento quasi marcio, un suono profondo, grave, ma vuoto. Un vuoto che sembrava addirittura risuonare nel nulla di cui era impregnata quella stanza, come se il niente avesse un odore preciso, un odore fetido e appiccicoso, stomachevole.
Odore di morte.

[Seconda classificata al contest "D.grey-man - Monster - AU" indetto da Edward e Liy]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Lenalee Lee, Rabi/Lavi, Yu Kanda
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ho scritto questa fanfiction per un contest, lo ammetto, ma mi ha preso davvero molto la sua stesura. Ho cercato di stare attenta alle parole, alle virgole per le intonazioni, a ogni piccolo dettaglio che, secondo me, poteva inficiarne la lettura o il senso. Mi sono divertita un sacco a scriverla e, stranamente, ne sono orgogliosa. Mi piace com'è venuta anche se, forse, è poco originale (molto poco).

In fondo il giudizio della giudice, che ringrazio molto per la pazienza di leggerla e commentarla ^^

Buona Lettura.

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Un rumore ritmico, pesante, risuonava tra quelle quattro pareti di legno che, una volta, doveva essere pregiato. Grosse macchie di muffa svettavano su ogni superficie e da uno squarcio sul soffitto gocciolava dell’acqua scura.

Sembravano rintocchi.

Poi ecco che l’armonia venne spezzata, la cadenza interrotta.

Passi veloci ma più leggeri risuonavano sul pavimento quasi marcio, un suono profondo, grave, ma vuoto. Un vuoto che sembrava addirittura risuonare nel nulla di cui era impregnata quella stanza, come se il niente avesse un odore preciso, un odore fetido e appiccicoso, stomachevole.

Odore di morte.

Il ragazzo dai capelli bianchi correva, saltando i gradini che si trovava davanti a due a due, ignorando le più elementari precauzioni in un caso come quello, dove il pavimento sembrava dover cedere da un momento all’altro. Le goccioline di sudore adornavano come un intricato disegno la fronte pallida, quasi cadaverica, scivolando sulle sopracciglia chiare e cadendo sugli occhi, rossi e vivi come il fuoco.

La mano destra corse veloce a strofinarsi la palpebra, scostandosi anche un ciuffo di capelli bianchi che gli copriva l’occhio sinistro. Un’inquietante macchia scura svettava sotto le sue dita, lasciata finalmente scoperta da quella cortina di fili candidi. Sembrava solo un voglia ma, guardandola più da vicino, ci si accorgeva che era una stella.

Una stella che lui considerava una maledizione. Era per colpa di quel segno se lui era diverso, se lui era “speciale”. Quella maledetta macchia scura che lo bollava come l’unico futuro sopravvissuto certo. A nulla erano valsi gli esami, gli esperimenti, i continui viaggi nei laboratori. Il suo sangue, la sua unica protezione, non si poteva creare e non si poteva duplicare. Lui era l’unica persona al mondo al sicuro.

Ed è per questo che te la trascinavi dietro come un animaletto, Allen Walker?

È per questo che non l’hai lasciata al Quartier Generale, uno degli ultimi posti sicuri ancora esistenti?

È per questo che l’hai portata a morire?

Il ragazzo si premette forte una mano sulla fronte, cercando di fermare quel torrente di pensieri distruttivi che sembrava invaderlo a ogni passo che faceva verso il piano superiore, verso una stanza che sembrava così dannatamente silenziosa… Lui non voleva succedesse una cosa del genere… Lui voleva solo proteggerla…

Oh, andiamo, Allen, proteggerla?!? Addirittura? Ma come siamo stranamente altruisti… Siamo sicuri che non l’hai portata con te perché non volevi restare solo? Dopotutto, è così che finirai, no? Solo… Unico esemplare di razza umana ancora in possesso del proprio cervello.

Lei sarebbe morta prima o poi, non è così? E hai preferito trascinarla con te piuttosto che vedertela sparire davanti agli occhi mentre, forse, tu saresti stato fuori…

-NO!- L’urlo del ragazzino esplose come un boato nel gelido silenzio di quella casa in rovina.

E intanto quella voce nella sua testa continuava, continuava e rideva di lui.

Sai, Allen, un po’ mi fai pena, sai? Ti sei reso conto, vero, che stai parlando con una voce che non esiste? Mi sa che alla fine rimarrai l’unico umano, sì, ma completamente pazzo!

Con un ultimo salto, i pesanti stivali neri si posarono, con una forza tale da far scricchiolare il legno, sull’ultimo gradino.

E la porta era lì, semi accostata. La maniglia di ottone, ormai patinato, luccicava debolmente, riflesso, forse, di un fasto che ormai non c’era più. Si sentiva frenato, come inchiodato a quel maledetto pavimento, impossibilitato ad andare avanti. La vedeva, la sua Linalee, la vedeva davanti ai suoi occhi quando rideva, quando gli portava sempre una tazza di caffè quando era stanco. Con quel sorriso un po’ timido ma sempre luminoso, malgrado tutto ciò che era loro successo, malgrado le sofferenze che ancora la aspettavano dietro l’angolo. Quel sorriso sembrava quasi farsi beffe di lui, lui che aveva paura di aprire una porta, mentre lei aveva il coraggio di guardare la morte in faccia ogni giorno.

Allungò lentamente una mano, sentendosi tremare fin nel profondo. Lo sentiva ancora nelle orecchie, l’urlo che lei aveva lanciato quando l’Infetto l’aveva presa. Ricordava il rumore della stoffa che si strappava, della carne che si lacerava sotto i denti di quel mostro mentre l’azzannava. Ricordava la sensazione della sua mano tra le sue, il profumo dei suoi capelli scuri. Lo sguardo di terrore che gli aveva lanciato prima di sparire, portata via da quell’animale che i puristi ancora si azzardavano a definire “uomo”.

Cosa era rimasto dell’uomo, se ciò che rimaneva di lui era solo un involucro e una porzione di cervello grande quanto una noce? Come si poteva definire ancora “uomo” una creatura che cacciava per sopravvivere, attaccando anche i suoi simili, regredito ad uno stato brado da uomo delle caverne? Si nutrivano di carne cruda, inconsapevoli dell’esistenza del fuoco. Comunicavano a gesti, ormai dimentichi del linguaggio.

Tutto ciò che era rimasto erano gli istinti. Istinti distruttivi, provocati da un cervello ormai corroso da una biotossina di natura sconosciuta.

E ora, in piedi di fronte a quella porta di legno, si sentiva congelare alla prospettiva di non risentire più la sua voce cristallina che gli rimproverava che aveva dormito poco. Se chiudeva gli occhi gli sembrava quasi di poter sentire il sangue gocciolare sul pavimento in parquet, seguire le scanalature del legno, infiltrarsi quasi di soppiatto creando un macabro labirinto che l’avrebbe condotto da lei.

Improvvisamente una mano si appoggiò sulla sua. Una mano grande, calda. La sentiva, dietro di sé, la figura confortante del suo amico. Si faceva chiamare Lavi, nessuno conosceva il suo vero nome. I suoi capelli, rossi come quel sangue che sentiva scorrere dal corpo di Linalee, gli sfioravano il collo, il suo fiato a carezzargli un orecchio.

-E’ inutile stare qui aspettando che esca, Allen. Lo sai meglio di me che il nostro virus corrode le loro cellule muscolari. Sta morendo. Vuoi che anche Linalee muoia?

La sua voce lenta e calma svegliò Allen dallo stato di trance in cui sembrava essere entrato. Nella sua testa la voce di prima si alternava ai suoi pensieri in una cacofonia di voci incomprensibili.

La mano di Lavi lo aiutò a spingere quella porta che sembrava, improvvisamente, pesare chili e chili di troppo.

L’immagine che si presentò davanti ai loro occhi si impresse a fuoco nella mentre di tutti gli spettatori.

Allen non si accorse dell’enorme pozza di sangue al centro della stanza.

Non si accorse del materiale sanguinolento, probabilmente un pezzo di intestino, in un angolo della stanza.

Non si accorse del corpo completamente coperto di peli marroni rantolare sul pavimento in preda alle convulsioni.

Tutto ciò che vide fu lei.

I capelli lunghi sparsi su un copriletto che doveva essere stato blu, e che in quel momento era solo tristemente grigio, le braccia e le gambe in pose scomposte e innaturali. L’enorme squarcio che le apriva il ventre, che sanguinava copiosamente. Aveva gli occhi aperti, non del tutto vitrei.

Era quasi poetico il fatto che assomigliasse a una bellissima bambola, di quelle da collezione, rotte e lasciate al loro destino. Uno di quei soprammobili belli, in ceramica bianca, rotti in più punti ma che ti dispiace buttar via.

Tutto quello che Allen riuscì a fare fu avvicinarsi al letto e inginocchiarsi al suo fianco, tenendole la mano mentre moriva. La testa bassa, i capelli bianchi a nascondere l’incarnato ancora più pallido, amare lacrime che cadevano dai suoi occhi come se fossero sabbia. Dolorose, un liquido che sembrava corrodere dove passava. Piangeva, Allen.

Piangeva per il suo amore perduto, piangeva per la sua solitudine, piangeva per quel destino infame che era capitato a lui e ai suoi compagni, piangeva per se stesso. Piangeva e pregava.

E quella voce, quella voce stridula nella sua testa, rideva.

Tu, Allen Walker, scienziato allevato da scienziati… Tu preghi Dio?!? Quale Dio? Quello che vi ha lasciato a morire di questo virus o quello che ha impedito che veniste infettati dalla biotossina? Non credi sia ipocrita, da parte tua, pregare per l’anima di una donna che hai ucciso con le tue stesse mani?

Allen ascoltava, Allen subiva, Allen accettava ciò che la voce diceva. Perché la voce aveva fottutamente ragione.

In fondo, perché aveva voluto che Linalee lo seguisse? Non voleva che morisse? O non voleva che morisse senza di lui? L’aveva fatto per chi? Per lei o per sé stesso?

Sapeva la risposta ma forse era già dolorosa solo la domanda.

L’improvviso silenzio decretò la morte dell’Infetto.

E l’altro ragazzo, rimasto in disparte, cominciò a muoversi febbrilmente dentro la stanza. Estrasse da una valigetta che teneva in mano cinque provette di vetro che riempì velocemente con il sangue del cadavere. Poi si avvicinò al letto e frugò tra le sue cose finché non trovò ciò che cercava. Un ago, un laccio emostatico e un sacchetto sigillato. Con gesti pratici portò due dita al collo della ragazza, trovando, con un sbuffo, il battito: era debole, ma c’era. Legò con gesti veloci il laccio attorno al braccio ma, quando stava per infilare l’ago nella pelle che stava diventando sempre più livida, Allen sembrò riprendersi abbastanza per fulminarlo, infuriato.

-Cosa diavolo stai facendo?!-

-Riparo la tua inettitudine, moyashi. La morte di Linalee equivale a un Immune in meno. Avere il suo sangue almeno non renderà la sua morte inutile. Il sangue ci serve sempre per gli esperimenti. Ma visto quanto ne ha perso, probabilmente non ci aiuterà molto.

Allen non perse nemmeno tempo cercando di parlare. Tentò direttamente di avventarsi sul compagno.

Un braccio rigido lo fermò appena in tempo. Il ragazzino si ribellò, tentando di voltarsi, ma Lavi lo teneva stretto. Portò di nuovo la bocca al suo orecchio, bisbigliando una serie di frasi che l’altro ragazzo, ormai impegnato nel prelievo di sangue, non capì. Non che gli importasse, comunque. A lui non interessava niente e nessuno.

-Allen, è il tuo dolore che parla per te, adesso. Ma Kanda ha ragione. Il suo sangue ci serve. Ricordi? Noi non siamo come te. Non siamo immuni sia alla biotossina che al virus. Noi stiamo ancora cercando una cura per la malattia che ci sta uccidendo. E dobbiamo usare qualunque mezzo a nostra disposizione, capisci? Non solo per noi, anche per gli altri che credono in quello che stiamo facendo.

Le parole di Lavi, sussurrate come una nenia, calmarono Allen abbastanza da non attentare più alla vita del ragazzo. E quando aprì gli occhi si accorse che non era l’unico disperato per la sua morte. Kanda, il ragazzo giapponese dai lunghi capelli neri, fissava con sguardo fisso il viso ormai pallidissimo della ragazza, la mano che stringeva la sua in una morsa ferrea.

Lavi, dietro di lui, gli accarezzava la testa facendo scorrere con lentezza le dita fra i suoi capelli umidi e impregnati di quell’odore dolciastro e ferroso che aleggiava in tutta la stanza. Lasciò che le lacrime continuassero a scorrere, lasciò che il liquido salato bagnasse i tagli che aveva sul viso, facendoli bruciare. E più i tagli bruciavano, più la consapevolezza di essere vivo si faceva strada nella sua testa. A differenza della donna che amava, lui era vivo. E lo sarebbe rimasto fino a che non fosse morto di vecchiaia o fosse stato ucciso.

E il peso della solitudine diventava sempre più pesante.

Tutti loro l’avevano, in qualche modo. E se ancora non l’avevano, l’avrebbero preso. Gli Infetti non potevano prenderlo perché la biotossina aveva modificato le loro difese immunitarie, rendendolo pari forse a un normale batterio. Per loro invece, per gli Immuni, quel dannato virus sconosciuto era letale.

Ovunque ti girassi, qualcuno aveva una macchia scura sulla pelle. Una macchia a forma di stella.

Improvvisamente il corpo non era più in grado di smaltire il ferro, che cominciava ad accumularsi sotto pelle e nei muscoli. Si formavano strane macchie scure, la persona diventava debole. Perché anche senza volerlo, in qualche modo, il ferro, attraverso il cibo, veniva introdotto. E se nell’organismo non c’era, usava quello contenuto nel sangue. Le persone che giravano nel Quartier Generale sembravano tutti dei fantasmi chiazzati. Con la pelle pallida per la mancanza di ferro nel sangue e con quelle macchie scure per l’accumulo dello stesso in tutto il resto del corpo.

E non c’era cura. Nessuno si salvava quando la prima stella compariva.

Tranne uno.

Allen era l’unica persona a essere sopravvissuta.

Più i medici tentavano di capire, meno venivano a capo del dilemma. Dopo mesi passati a studiarlo si era attribuito la sua straordinaria “capacità” al fatto che fosse albino e che il virus fosse inutile sulle sue “modifiche personale”. Il suo sangue, però, non funzionava sugli altri. E la cura era ancora lontana.

Perso nei suoi pensieri non si era accorto che Kanda aveva riposto tutto e si stava spolverando l’abito preparandosi ad andare.

-Dobbiamo andare. Non ho qua con me nemmeno una busta di ghiaccio per conservare il sangue. Se non ci muoviamo sarà tutta fatica sprecata

Allen alzò la testa di scatto, assottigliando gli occhi.

-Vorresti dire che dovremmo lasciarla qui?

-Non ci è utile portarla e ci rallenterebbe portare un cadavere. E noi dobbiamo arrivare al Quartier Generale il prima possibile. Senza contare che sarebbe comunque cremata, là, non capisco cosa tu veda in un vaso colmo di cenere.

Lo sguardo del ragazzino si fece risoluto, deciso.

-Solo perché tu non permetti ad anima viva di avvicinarsi, non credere, con la tua freddezza, di essermi superiore. Forse tu ti senti migliore di me perché sei più razionale, e ti rispondo che non ha senso vivere una vita da soli senza aver mai amato.

-Già, qualcuno qui non ha bisogno di farsi problemi su “quanto vivrà”…

-Ka..!

Una mano fermò il commento che Lavi stava per fare

-E’ vero. Ma tu cosa stai facendo, intanto? Vivere la vita in funzione del “tanto tra non molto morirò”? E che vita sarebbe?

Kanda lo fissò per qualche minuto, prima di girargli le spalle con uno sbuffo e un “tsk” molto poco velato.

-Fai come vuoi. Ma ricorda. Non ho intenzione di fermarmi per te.

-Non credo tu ti sia mai fermato ad aspettare nessuno, Kanda. Anzi, forse non ti sei mai aspettato neppure tu – bisbigliò Allen coprendo amorevolmente Linalee e portandola in braccio fuori da quella stanza.

Rifiutò con un sorriso l’aiuto di Lavi. Voleva riuscirci da solo. Voleva in qualche modo dimostrare a sé stesso che poteva farcela. Voleva dimostrare a quella vocetta ridacchiante che voleva farcela.

Con passo un po’ malfermo si avviò al piano inferiore, stringendo forte quel corpo sottile che diventava sempre più rigido ogni minuto che passava. La guardava e non poteva che pensare che quello scempio fosse solo colpa sua. La guardava e vedeva una ragazza di soli diciassette anni che non avrebbe più potuto mangiare i deliziosi manicaretti di Jerry, il cuoco. E suo fratello… Linalee era ciò che gli rimaneva della sua famiglia e lui gliel’aveva portata via due volte: prima fidanzandocisi e poi uccidendola.

Arrivati in strada, Kanda e Lavi si guardarono attorno, mettendosi quasi naturalmente alla sua destra e alla sua sinistra, per proteggerlo. Quella via, che una volta faceva parte di un quartiere residenziale di lusso, era deserta, le macchine come carcasse scheletriche lasciate dove capitava, i lampioni, molti dei quali erano a terra, spenti e con i vetri rotti. Le case semi-distrutte, pallido spettro di ciò che dovevano essere state una volta. Le ante di legno pendenti dai loro cardini, i giardini incolti, tutto ricordava con nostalgia e desolazione ciò che era diventata qualunque città e paese in tutto il mondo, dopo la diffusione della biotossina.

Quando tre quarti dell’umanità si era trasformata in un animale, a chi importava come si riducevano case in cui nessuno andava più? Però quell’unico, misero, quarto, aveva bisogno di protezione, di aiuto.

E così venne creato il Quartier Generale, forse per un’idea comune del classico detto “l’unione fa la forza”. In questa organizzazione, che di statale non aveva nulla, si riunivano gli Immuni di tutto il mondo. Allen e Kanda ne erano un esempio palese: l’uno inglese quanto l’altro giapponese. Lavi, invece, era quasi uno sconosciuto. Era arrivato da poco più di un mese con un vecchio che diceva di essere il suo “maestro” e nessuno sapeva da dove venisse. Si era presentato con quel nome dicendo, con una mano a grattarsi la testa e un sorrisino di scusa, che il suo non lo ricordava più.

Poi c’erano Linalee e suo fratello Komui, il direttore del riparto di ricerca scientifica.

Ma non erano rimasti in tanti… Ogni giorno qualcuno moriva e le loro fila si assottigliavano sempre più. Per quanto girassero il mondo, gli Immuni che trovavano erano sempre meno di quelli che morivano e c’era una cappa scura che, nell’ultimo periodo, gravava sull’edificio bianco del Quartier Generale. Una sensazione di impotenza e disperazione, qualcosa che nemmeno un uomo ottimista come Lavi era in grado di dissipare con un sorriso o una battuta. Il fatto che fossero già tutti morti.

Senza una cura l’umanità cosciente rischiava davvero di estinguersi, ma nessuno si rassegnava e tutti continuavano il loro lavoro. Chi nel laboratorio, chi nella sala computer a cercare informazioni, chi anche solo portando il caffè a coloro che lavoravano.

C’erano un centinaio di persone in quella casa allargata, tra uomini, donne e bambini e non tutti potevano rendersi utili alla stessa maniera, ma ognuno ce la metteva tutta, facendo quello in cui eccelleva. Roger, per esempio, non si sentiva in grado di affrontare ogni giorno la paura di uscire e rischiare di essere attaccato da un infetto così aveva messo a disposizione di tutti la propria abilità culinaria.

Quando arrivarono, finalmente, a quello che ormai era il loro unico rifugio, si diffuse un’illusoria gioia per il fatto che fossero tornati interi, una specie di corrente elettrica sotterranea che si infrangeva sul gelido silenzio che i tre mantenevano. E poi vedevano Allen, coperto di sangue, che portava Linalee in braccio come se fosse la sua ultima ancora di salvezza. Tutte le speranze crollavano come un castello di carte, tutti che si ritiravano come dietro a uno scudo impedendo a tutto quel dolore che si percepiva di infrangere le loro difese. Era sempre terribile quando qualcuno moriva. Si era in troppo pochi per non conoscersi uno per uno, ricordando le manie di un po’ tutti. E Linalee era… Linalee era la colla che li faceva stare così uniti. Era la ragazza dal sorriso pronto, dalla mano amica, dalla parola gentile.

E vederla lì, tra le braccia di Allen, senza vita, lasciò tutti scioccati, immersi in uno stupore terrorizzato, sempre più consapevoli che, anche loro, prima o poi sarebbero morti.

Senza emettere fiato il ragazzo, la testa abbassata e le spalle incurvate, si diresse verso il laboratorio, dove depositò il corpo dell’amata sul primo tavolo operatorio che trovò vuoto. La appoggiò con cura, sistemandole i capelli e poggiandole la propria giacca sull’addome squarciato.

Gli occhi chiusi, le labbra serrate, le carezzava la testa con un movimento lento e ipnotico, cercando di imprimersi nella memoria ogni sensazione che quel gesto gli dava. Si chinò un’ultima volta su quel corpo senza vita sfiorando le sue labbra fredde con le proprie, stringendo i pugni quando un’ondata di dolore lo investì come un torrente in piena. Si alzò lentamente, evitando di fissare il sangue che le macchiava i vestiti ormai stracciati. Poi, senza dire altro, sì girò e se ne andò, quasi scontrandosi con Komui che stava entrando in quel momento.

Non lo guardò, non fece un cenno, non alzò nemmeno la testa, il ragazzo. Si sentiva schiacciare da un senso di colpa tale che il solo pensare di guardare l’uomo lo faceva morire. Quasi corse verso la sua stanza, cercando di ignorare quella voce dentro la sua testa che si faceva di minuto in minuto più forte, ridacchiando di lui.

L’hai uccisa tu, l’hai uccisa tu, l’hai uccisa tu…

Canticchiava, la voce, come se fosse una cosa divertente, come un bambino innocentemente crudele che butta il sale sulle lumache.

E più Allen tentava di allontanarla, più quella diventava insistente, acuta, penetrante. Si sentiva scoppiare la testa e non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto sopportarlo.

Il rumore della porta della sua camera che si chiudeva risuonò come uno sparo nel corridoio deserto e silenzioso. Risuonò come una campana a morto per tutto l’edificio, ancora basito e scioccato per la morte della ragazza.

Un’ombra, in fondo al corridoio, aveva assistito a tutto e, con un sospiro affranto, si avviò verso una stanza per lui conosciuta al piano superiore.

Quando arrivò davanti alla porta in legno scuro, la tentazione fu entrare senza bussare, solo per indispettirlo, ma il ricordo della sua bellissima katana, tramandata di generazione in generazione nella sua famiglia, piantata nella porta a quattro millimetri di distanza dalla sua testa lo fecero desistere.

Educatamente bussò, lasciando che i colpi risuonassero all’interno della camera spoglia prima di entrare, senza aspettare invito. Come immaginava Kanda lo fissava furibondo per quella violazione così palese della sua privacy. Dopotutto, se non l’aveva invitato ad entrare c’era un motivo, no?

-Pensavo avessi bisogno di qualcuno con cui parlare- disse Lavi semplicemente, senza infondere nessuna nota di pietà o commiserazione nelle sue parole, cosa che il giapponese apprezzò senza darlo ad intendere.

Seduto sul suo letto, una pinza con un batuffolo di cotone in mano, lucidava con il grasso la sua spada dall’impugnatura nera e la lama lucente. E se Kanda faceva una cosa del genere, significava che era sconvolto.

Lavi aveva capito subito, appena entrato nell’organizzazione, che il ragazzo non era un tipo facile. Piuttosto che lasciar intendere a qualcuno di stare male si sarebbe cavato gli occhi. Con lui bisognava usare un pizzico di acume e tanta pazienza, osservandolo senza che se ne accorgesse (e in questo Lavi era imbattibile), cercando di carpire le sensazione che provava dai gesti che faceva.

Se era arrabbiato o infuriato per qualcosa di futile, come un’ennesima scaramuccia con Allen o una parola di troppo detta da Komui (e succedeva spesso), si ritirava in una saletta vuota costruita appositamente per lui e cominciava ad allenarsi con una spada di bambù. I suoi genitori, aveva scoperto, avevano un dojo di kendo, prima di morire, e lui era il loro migliore, nonché il primo, allievo.

Quando era semplicemente irritato sbottava in un “tsk” scocciato per poi andarsene per la sua strada.

Ma era quando era sconvolto che si ritirava nella sua stanza e faceva l’unica cosa che fosse in grado di calmarlo. Prendeva la spada che teneva in una teca di vetro e cominciava a pulirla in ogni sua parte. Il fodero, poi la guardia, l’elsa, e infine la lama. Passava il batuffolo di cotone sulla lama in un movimento lento e profondo, come una litania gestuale che lo rilassava e, al tempo stesso, gli impediva di mostrare agli altri ciò che sentiva. Era come un rito che lui stesso faceva per placare i suoi sentimenti e rinchiuderli, di nuovo, da qualche parte.

Si sedette sul letto alla sua sinistra, osservando le sue mani sottili passare con meticolosità l’ovatta lungo il metallo. Lui si limitò a non rispondere, continuando quello che stava facendo senza degnarlo di un’occhiata. Lavi sospirò, pensando che non sarebbe mai cambiato.

-Kanda…- gli poggiò appena i polpastrelli sulla spalla e quello si ritirò come se l’avesse scottato.

-Non toccarmi!- sibilò lui fulminandolo con lo sguardo.

Il ragazzo dai capelli rossi represse a forza un sussulto sorpresa, cercando di capire perché quel giorno fosse così ostile. La sua mente rielaborò velocemente tutte le informazioni di cui era in possesso e, finalmente capì. Linalee. Per lui non era una persona qualsiasi. Erano state i primi due immuni a essere trovati e avevano passato insieme mesi, da soli, prima che ne fossero trovati altri.

Era probabilmente stata la sua prima amica.

-Yuu…

-E non chiamarmi per nome! Non prenderti certe confidenze, Bookman!- Ecco, quando cominciava a chiamarlo per cognome significava che si stava alterando ma anche che le emozioni stavano pian piano uscendo da quel cuore chiuso ermeticamente.

-Perché, Yuu? Hai paura che qualcuno sia avvicini troppo? Hai paura di affezionarti a qualcuno? Ma tanto, tu non ti affezioni, vero, Yuu? Tanto tu “morirai fra poco”, no? Quindi non avrebbe alcuna utilità affezionarsi a qualcuno.

Kanda lo fissò, assottigliando gli occhi e stringendo le labbra come se volesse impedire a qualunque suono di uscirne. Strinse i pugni, serrandoli senza volerlo sulla spada: sembrava pronto a colpire ma Lavi sapeva che non l’avrebbe fatto. Non solo perché era disarmato e non ci sarebbe stato onore in una vittoria contro un uomo disarmato, ma perché sapeva che aveva ragione. Solo la sua testa non sapeva accettarlo.

-Eppure Linalee era importante, vero? È stata la tua prima amica, vero?

-Smettila… - sussurrò lui voltando la testa

-Di lei ti importava, vero? E ora è morta…

Kanda si girò, fulminandolo. – Se solo Allen non l’avesse portata con sé, a quest’ora sarebbe ancora viva. Sa bene che gli Infetti sono un miscuglio tra istinti e testosterone! Eppure ha voluto portarla con sé ugualmente, sapendo di sbagliare!

La sua voce, simile a un sibilo, riempiva la stanza, sommergendo Lavi di quella rabbia che Yuu non riusciva più a tenersi dentro. Rabbia per non aver potuto salvare la sua amica, rabbia perché, in realtà, sapeva qual’era la vera verità.

-Credi davvero che Linalee fosse una stupida oca? Che non fosse in grado di decidere da sola? Sono convinto che tu cerchi solo di negartelo, ma lo sai. Se Linalee non avesse voluto andare, non sarebbe andata. Avrebbe detto “No” e Allen se ne sarebbe fatto una ragione.

Sapevi anche che Linalee stava già morendo, vero? Ti aveva già detto che tutta la schiena e lo stomaco erano coperte di stelle scure. In quelle condizioni e a quella velocità avrebbe resistito forse per un giorno, massimo due. -

Il giapponese lo guardò, il corpo rigido, lo sguardo fisso.

-Tu lo sapevi perché l’avevi scoperto e lei te lo aveva detto. Io lo so perché lei aveva bisogno di un consiglio.

Le ho detto io di chiedere ad Allen di poter andare con lui.-

La mano di Kanda volò veloce all’elsa della spada, già pronto a recidergli la giugulare con un colpo secco e preciso. Lavi non si scompose, continuando a guardarlo negli occhi, senza distogliere lo sguardo.

-Yuu, stava morendo. E voleva passare il tempo che le rimaneva con l’uomo che amava. Cosa c’era di male in quello? Piuttosto che morire da sola, ha preferito morire accanto alle persone a cui teneva di più. Come puoi biasimarla per questo? Tutti noi un giorno moriremo, tutti noi temiamo che arrivi quel giorno. E tu, Yuu? Non lo temevi perché pensavi di non avere niente da perdere. Ma ora? È ancora così?

Lavi lo fissava con sguardo fermo, senza lasciar trapelare niente. Erano semplici dati di fatto. Non c’era dolcezza nelle sue parole, non voleva indorargli la pillola. Non c’era compassione, non voleva che pensasse che avesse pietà di lui. C’era, forse, una sorta di nostalgia verso quello che li aspettava, tristezza per la morte di Linalee.

Lavi, in fondo, malgrado in pochi conoscessero davvero cosa pensasse, era fatto così. Poteva fare l’idiota, spesso era stato beccato a rubare il cibo ad Allen solo per farlo indispettire, ma, quando serviva, era serio, comprensivo. In quelle occasione sembrava avere molto più che vent’anni.

-Vai a parlare con Allen, Yuu.

Lavi si avvicinò, togliendogli con delicatezza la spada dalle mani e poggiandolo sul letto dietro di lui.

-Digli quello che pensi. Sii il solito Kanda che lo tratta in modo scostante o che lo batte sempre con la spada di bambù. Sii il Kanda che lui conosce e che rispetta e digli cosa è successo.

Con movimenti fermi e misurati gli slacciò la giacca senza che lui avesse modo di protestare, mettendo a nudo la metà sinistra del petto e parte della spalla. Il tatuaggio dell’Ohm che portava all’altezza del cuore era ormai quasi completamente coperto da stelle nere che si estendevano dalla spalla all’ombelico.

Con uno scatto il ragazzo giapponese si alzò, richiudendosi la giacca senza degnare Lavi di un’occhiata. Poi con spasso spedito si diresse verso la porta ma, prima di aprirla, si fermò, rimanendo voltato di schiena. Sentiva lo sguardo di Lavi bucargli la schiena e le parole non volevano saperne di uscire.

-Tu. Aspettami qui. Non abbiamo finito.

Sputò quelle frasi facendo enormi pause nel mezzo, come se gli costasse sforzo e fatica. Poi uscì.

***

La finestra spalancata, gli occhi persi sulle nuvole grigiastre che si rincorrevano nel cielo, una leggera brezza primaverile che gli scostava i capelli candidi dalla fronte. Gli sembrava quasi di poter sentire l’odore dei ciliegi permeare l’aria, quel profumo che tanto piaceva a Linalee.

Oddio, basta, Allen. E’ da tre ore che continui a collegare ogni cosa che vedi a Linalee! Mi sono anche un po’ stufato di ascoltarti, anche perché i tuoi pensieri sono di una noia mortale.

Se proprio ti manca così tanto perché non la raggiungi? Siamo al settimo piano, un voletto e poi… Linalee aspettami! Su, non ci vuole molto…

No? Beh, puoi sempre dissanguarti. Il tuo sangue tornerebbe utile e Kanda non avrebbe niente da ridire, non credi? Oppure c’è il veleno ma te lo sconsiglierei… Con la sfortuna che hai in campo di veleni, virus e affini ne saresti immune…

Allen si prese la testa tra le mani, sentendosela scoppiare.

Quella voce lo stava mandando fuori di testa, lo stava facendo impazzire. E gli faceva vedere cose che non voleva vedere.

Come un film a ciclo continuo, le immagini di quella giornata si rincorrevano nella sua testa come tanti fotogrammi impazziti, mescolandosi con quelli di tutta la sua vita, facendogli confondere la realtà con la fantasia.

Vedeva Linalee su quel letto coperta di sangue e, improvvisamente, si sovrapponeva l’immagine di quando era entrato per sbaglio nella sua camera nel cuore della notte. Le loro stanze erano sullo stesso piano, una a un capo all’altro del corridoio e lui, uscito dalla cucina per lo spuntino notturno, non aveva fatto bene i conti e aveva svoltato a destra invece che a sinistra. Ricordava di essere arrossito come un peperone per poi fiondarsi in camera sua col fiato corto.

Vedeva la sua espressione di terrore quando l’Infetto l’aveva portata via; la sua espressione mutava e si sovrapponeva l’immagine in cui uno dei bambini le aveva fatto uno scherzo bagnandola da capo a piedi con dell’acqua gelida. Il suo urlo si era sentito per due piani, sia verso l’altro che verso il basso, tra l’altro.

E quella voce non faceva che istigarlo.

Allen, Allen, Allen, mi chiedo come tu faccia… Intendo a vivere con questo senso di colpa che ti pende sulla testa come una spada di Damocle. Cioè, non hai perso un mazzo di chiavi, hai ucciso la tua compagna e fidanzata…

Più cercava di ignorarla e più si faceva forte, penetrante, come il suono delle unghie su una lavagna.

Si avvicinò con passo malfermo alla finestra, pensando che la Voce avesse ragione. Poteva farla finita e far smettere tutto. Il senso di colpa, la solitudine, l’amarezza, la rabbia, il dolore devastante che sentiva risuonare in ogni cellula del suo corpo… Tutto quello sarebbe stato solo un lontano ricordo, come un’eco lontana di un canto stonato.

Improvvisamente la porta della sua camera si aprì con un rumore così forte da interrompere persino la litania della Voce. Kanda irruppe dentro con la forza di un uragano, rimanendo però composto e rigido come suo solito. Quando vide Allen con sguardo vitreo davanti alla finestra spalancata si congelò sulla soglia, sostituendo allo sguardo deciso uno furioso.

-Cosa vuoi fare, moyashi?-

Allen, senza nemmeno la forza emotiva per litigare con Kanda, sospirò staccandosi dalla finestra e lasciandosi cadere su una sedia appena dietro di lui. Con rassegnazione alzò lo sguardo, fissandosi in quelli neri dell’altro, lasciando che il ragazzo percepisse tutta la disperazione che si celava dietro le iridi rosse.

Kanda ne fu colpito come da un pugno nello stomaco. Boccheggiò internamente, cercando qualcosa da dire che non risultasse dolce o consolatorio. Non voleva salvare Allen, non lo faceva per salvare lui. Lo faceva come ultimo atto d’affetto per lei. Perché sapeva bene che non avrebbe assolutamente voluto che morisse. Voleva che vivesse, voleva che trovasse tutti gli altri Immuni e li portasse al sicuro, voleva che lui ci fosse quando fosse stata scoperta una cura, perché non voleva che lui rimasse da solo.

-Pensi che morendo si sistemi tutto? Pensi che buttandosi dal terzo piano il tuo dolore svanirà? Non pensi al dolore degli altri?

La voce, fredda come un cubetto di ghiaccio, penetrò nel suo cervello come azoto liquido, gelando tutto ciò che poteva.

-IO L’HO UCCISA!

Esplose Allen guardandolo furibondo. Come poteva non capire?!?

-L’ho portata con me ben conoscendo le possibili conseguenze, ho lasciato che la portassero via, ho lasciato che la uccidessero!

Kanda lo guardò, assottigliando gli occhi, cercando di non farsi prendere dall’irritazione. Come poteva lui non essersi accorto di niente?!?

-Ritenevi Linalee così stupida? La amavi, no? E allora perché ti addossi la colpa? Ti credi davvero così importante?

-Ma…- Boccheggiò Allen cercando di replicare a quelle parole così dure che non capiva.

-Non pensi che fosse abbastanza intelligente da poter scegliere da sola? Non credi che se è venuta con te è solo e soltanto perché lo voleva? Non te ne sei mai accorto, vero? Della sua pelle sempre più pallida, del fatto che fosse sempre più stanca, vero?!? Non hai pensato che l’avesse fatto per non morire da sola, ma con quelle due persone a cui teneva di più?

Allen lo guardava, stralunato, come se, all’improvviso, Kanda avesse squarciato un velo che gli impediva di vedere le cose come stavano. Vedeva Kanda, il Kanda che tutti conoscevano, impassibile, freddo, sbriciolarsi sempre di più a ogni parola che pronunciava, lo sguardo vivo come non lo aveva mai visto.

-Non è morta perché tu la seguissi stupidamente con un gesto che di eroico non ha nulla! E se mai ti azzardassi a pensare di suicidarti, Allen Walker, sappi che troverò personalmente il modo per resuscitarti e poi ucciderti con le mie stesse mani!

Con un ultimo sguardo infuocato, Kanda se ne andò da dov’era venuto, sbattendo la porta con un gesto molto plateale.

Quindi non tutto gira intorno a te, eh, Allen Walker? Linalee, alla fine, si è scelta il destino che voleva. E tu non potevi fare niente.

Allen si girò verso la finestra, osservando alcune nuvole bianche e sfilacciate rincorrersi nel cielo limpido. Una folata di vento portò un petalo di ciliegio a impigliarsi tra i suoi capelli. Lo prese tra le dita, osservando il colore chiaro che gli ricordava le labbra di Linalee…

Di nuovo..?!? E che pa…

-Oh, ma stai zitto- si disse Allen nella stanza vuota e la Voce, stranamente, se ne stette in silenzio, per la prima volta in quella giornata.

Continuò a guardare fuori dalla finestra, poi, con lentezza, si diresse verso la porta. Doveva… Anzi, no, voleva parlare con Komui.

Avrebbe ricominciato, un passo alla volta. Avrebbe cercato una cura. E non avrebbe dimenticato.

***

Quando Kanda tornò in stanza, trovò Lavi che dava la schiena alla porta. Si stava togliendo la giacca sporca del sangue della loro compagna. Il suo dorso nudo, con i muscoli appena accennati, sembrava un dipinto. Tante stelle nere grandi quanto una noce ricoprivano tutta la superficie chiara.

Lavi non si voltò, continuando quello che stava facendo, e avvertì subito il corpo del compagno alle sue spalle, a un soffio di distanza. Sapeva, sentiva, che voleva dirgli qualcosa, quindi non si mosse, aspettando un suo gesto.

-Quando sei arrivato, un mese fa, sapevo che mi avresti solo portato rogne. Con il tuo ottimismo latente, le tue battute stupide all’ora di pranzo, il fatto che fossi estroverso. Tutto ti portava a essere il contrario di ciò che ero… ciò che sono. Poi ti hanno assegnato come mio compagno e non credevo possibile avere avuto così tanta sfortuna. Eri irritante, eri urtante per i miei nervi come l’edera velenosa, sapevi essere inopportuno in tutti i momenti. E più mi ripetevo queste cose, più pensavo che averti compagno non era male.

Che sapevi il fatto tuo, che sapevi essere serio quando la situazione lo richiede. Capisci le persone con poche e analitiche occhiate e sai come comportarti di conseguenza.

Mi stupivi e facevi irritare a fasi alterne, giorno dopo giorno, come in un copione mal scritto, un gioco di parti in cui io mi ero scelto il personaggio sbagliato.

Quelle macchie che hai visto si sono diffuse in sette giorni. Facendo due calcoli, me ne mancano ancora dieci. E Allen aveva ragione. Ho cercato di non affezionarmi a nessuno perché, morendo, non volevo lasciare nessuno che piangesse per me. Ma Linalee… Linalee era diversa. È stata la mia prima amica. Ed è morta, felice di aver amato e di essere morta tra le braccia del suo amato. -

-Due giorni.

Kanda alzò la testa di scatto, fissando la nuca di Lavi che, con voce calma, aveva detto qualcosa che l’aveva mandato in confusione per la prima volta nella sua vita.

-Cosa?

-Le macchie che hai visto sulla mia schiena. Si sono diffuse in due giorni. Me ne mancheranno al massimo altri quattro.

Kanda sospirò, sentendo qualcosa sciogliersi. Un sospiro amaro, rassegnato.

Lavi si girò lentamente guardandolo negli occhi e mettendogli le mani intorno alla vita. Si chinò leggermente, posando le labbra sulla sua bocca in una carezza leggera e delicata.

-Io volevo affezionarmi a qualcuno prima di morire – disse con la sua solita espressione un po’ pensierosa un po’ strafottente – Ma tu sei una persona difficile da capire, Yuu.

Kanda, spiazzato da quel gesto e quella frase, rimase immobile, non sapendo cosa rispondere.

Poi si scrollò di dosso le mani del compagno, redarguendolo con voce burbera.

-È quasi ora di cena, vai a cambiarti, baka usagi. Non puoi scendere così in mensa – terminò indicando quasi disgustato prima il cappotto sporco di sangue e poi il suo petto nudo.

Lavi sorrise, divertito da quell’espressione che diceva tutto e niente.

-Che c’è, Yuu, ti innervosisco? O non vuoi che gli altri mi vedano così?

-Lavi…- Il primo rimprovero fu solo sussurrato con accento minaccioso

-Mi vuoi tutto per te?- Continuò Lavi ignorando qualsiasi segnale di pericolo e ridacchiando.

-Lavi!- Il secondo, invece, fu esclamato con la spada alla mano.

Il ragazzo con i capelli rossi uscì ridacchiando dalla stanza, sventolando la giacca come un enorme fazzoletto.

-Ci vediamo a cena, Yuu!- esclamò Lavi mimando un bacio e soffiandoglielo addosso.

La risposta di Kanda non si fece attendere. Sbatté la porta con tutta la forza che aveva, urlando, da dietro la porta – Ti ho già detto di non chiamarmi per nome!-

Magari non erano bravi, non erano esperti, non erano neppure innamorati.

Ma ci avrebbero provato.

Perché nessuno merita di morire da solo. Nessuno merita di morire dimenticato da tutti.

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Giudizio di Edward

2^ CLASSIFICATA:
Eiden
The end of this chapter


Sinceramente questa fanfiction non l'ho capita.
Cioè, la trovo incompleta.
Lenalee muore, i ragazzi tornano al Quartier Generale e da lì in poi si parla di quello che i protagonisti pensano della morte di lei.
Tralasciando che il tema "mostro" non è quasi trattato -si parla molto spesso del virus e dei suoi effetti, ma non del "mostro" in sé- trovo che la fanfiction lasci qualche punto in sospeso.
Il virus, la morte di Lenalee, la voce nella testa di Allen -che sarà anche il 14th, ma fuori dal contest del manga non sembra avere senso-, l'arrivo di Lavi e altro ancora.
La narrazione in sé non è male, anche se certe volte mancano delle virgole e c'è qualche verbo sbagliato, ma lo stile è un po' vago, non molto definito. Nulla di particolare, per dire.
I personaggi sono vagamente ooc. Lavi è troppo serioso, ma questo posso capirlo, è appena successa uan tragedia. Ma Kanda è troppo remissivo, diciamo, accetta troppo quello che dice Lavi e poi lo ripete papale papale ad Allen. Oltre ad essere ooc, è anche uuna ripetizione inutile e pesante nel testo.
Allen non si suiciderebbe mai, nonostante quello che avrebbe potuto dire la voce nella sua testa, e Lenalee... beh, lei è morta. Nulla da dire, ecco.
Per l'originalità.. la fic è un misto tra Residen Evil, Io sono Leggenda e altri film di questo genere, se me lo concedi.
In più non c'è molto da dire sulla trama in sé, visto che non spazia di molto. Morte, recupero, dannazione dei personaggi e stop.
Trovo un po' pesante e ripetitiva l'introspezione di Allen, e non credo di aver capito il finale della fic. Che centra la love-story di Lavi e Kanda? Sembra un po' una forzatura, a mio dire.
Andava bene qualcosa sull'amicizia, ma non si può mettere una relazione gay alla fine di una storia e non spiegarne le basi o altro, sopratutto se nel resto della trama non c'è neanche un accenno.
Valutazione un po' confusa, lo ammetto, quindi mi fermo qui e passo ai voti:


Grammatica e Lessico: 7
Attinenza alla traccia: 5
Stile: 6
Caratterizzazione dei personaggi (compreso l'ic): 6
Originalità: 4
Punteggio totale: 28

  
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