Autore: memi
Titolo: Sunrise
Genere: Generale; Introspettivo; Romantico
Rating:
Verde
Avvertimenti: AU; song-fic; one-shot
Personaggi: Sasuke Uchiha; Hinata Hyuga; Naruto Uzumaki (accenni); Hiashi
Hyuga (accenni); Neji Hyuga (accenni)
Introduzione: Poi c’erano le altre persone, quelle come lei, discrete e silenziose come il fruscio del vento che
accompagnava gli stessi passi da cui si generava. Persone che era difficile
incontrare, e ancor più difficile notare, perché la loro luce non era visibile
ad occhi inesperti, risiedeva nel fondo in attesa soltanto di essere scorta.
Persone che non potevano e non sapevano essere inopportune o irritanti, giacché
la loro presenza era di per sé leggera come l’incedere elegante di una ninfa.
Ed era così che era entrata, quell’assolato pomeriggio di fine
aprile.
Note dell’Autore: c’è poco da dire, il semplice fatto di avercela fatta a
rispettare la consegna – proroga permettendo – è di per sé già una grande
vittoria considerato il massacrante periodo anti-ispirazione che ho passato e
che, per mia sfortuna, ancora non è del tutto trascorso. Per di più l’immagine
mi aveva conquistata a prima vista, il classico colpo di fulmine, e anche se
l’idea di partenza era un’altra e ben lungi dall’adeguarsi al contest, sono
abbastanza soddisfatta di ciò che ne è venuto fuori. Eccetto forse dell’ultima
parte, quella che ho scritto tanto faticosamente in questi giorni, ma va beh,
non si può avere tutto dalla vita. Credo sia tutto, ma prima di andare vorrei
soltanto ringraziarvi ancora una volta per la disponibilità e la fiducia
dimostratami. Ve ne sono immensamente grata, sul serio! *.* Oh, e prima che me
ne dimentichi, l’ho messo nei disclaimer ma meglio precisare: Fujiwara è un
paese di mia invenzione per cui non ho la più pallida idea di quanto ci voglia
per arrivarci partendo da Tokyo con il treno. È stata un’esigenza di copione la mia, ecco. Per quanto riguarda il punto di
vista, pur essendo sempre scritto in terza persona, come noterete passa dal POV
di Sasuke a quello di Hinata, di nuovo a Sasuke e per finire ad entrambe.
La matita scorreva morbida lungo il foglio in cartoncino,
tracciando linee leggere come il battito d’ali di una libellula, realizzandosi
in un’immagine che discernendo dalla realtà, si rifiutava di seguire dettami specifici.
Sembrava quasi che la mano, pallida e minuta come poteva esserlo
quella di una bambina ma incallita tanto quanto quella di un artista, riuscisse
a trovare da sola incanalature invisibili alla vista che una volta intraprese
defluivano cedevoli come l’alveo di un fiume in attesa di trovare e raggiungere
la foce.
Con gli occhi, due disarmanti specchi opalescenti animati da un
antico e discreto candore che bene si amalgamava alle striature glicine
adagiate lungo la cornice più esterna dell’iride, mise a fuoco la musa
inconsapevole che vivificava il suo tratto, soffermandosi con riguardosa
attenzione lungo gli zigomi affilati nell’attesa di decidere la tecnica che
meglio si confaceva al desiderio tormentoso di immortalare quella scheggia di
viso.
Poi, come per incanto, la mano ritrovò la strada da sola e
mentre gli occhi ancora si ostinavano sul perno del loro studio, la matita a
carboncino aveva già impresso nero su bianco lo sprazzo di vita colto in
maniera irrazionale dall’intelletto.
Il cuore, chissà perché, batteva un pochino più forte e il
cielo, fuori dal finestrino, si colorava di tante strisce d’oro colato, intinto
in un chiarore che a volte le feriva lo sguardo e la costringeva a sbattere le
palpebre silenziose, per poi ritrovare l’esatta concentrazione appena l’istante
dopo, quando la luminosità diventava un altro scenario del suo estro artistico.
Ed era in quei momenti, in quei delicati e preziosi momenti che
si rendeva conto, con una nota di stupore ed un vento fugace di emozione, che
era quello l’attimo di vita che stava attendendo, quello che aveva atteso
paziente in un angolo per tutta la vita, sperando di avere ancora la capacità
di riuscire a vederlo qualora le si fosse presentato dinanzi agli occhi.
E fintanto che la matita instancabile continuava a immobilizzare
quell’istante per non doverlo perdere mai, mai
più, con il cuore in gola e lo stomaco annodato prendeva atto una nuova
consapevolezza, divergente con la precedente appena acquisita.
Perché alla fine era arrivata anche per lei, era proprio lì,
dietro le fronde spoglie di quegli alberi in lontananza, ciò che la stava
attendendo da sempre, perché non era lei ad essersi crogiolata nell’attesa, non
era stata lei a raccogliere docile i rintocchi dell’orologio nella dolce
illusione di poterli perdere di mano per un solo infinito granello di sabbia
nella clessidra del tempo, ma era quell’istante che remissivo era rimasto in
disparte fino a quando i suoi occhi traslucidi non fossero stati pronti a
vedere ciò che dovevano vedere.
La sua alba.
L’alba di tutta una vita trascorsa all’ombra di un’eclissi.
S
u n r i s e
(A f t e r t h e
n i g h t)
Sasuke
non era mai stato un esempio vivente di persona da imitare. Troppo schivo,
troppo pericoloso, troppo…semplicemente, troppo.
Ed era un Uchiha, cosa che lo innalzava suo malgrado di parecchi gradini sulla
scala sociale, perché portare un simile cognome, equivaleva a dire di
appartenere ad uno dei clan familiari più importanti dell’intero Paese dei
mandorli in fiore.
Tuttavia
per un bizzarro caso del destino di cui quel maledetto Neji sarebbe andato
straordinariamente in estasi, pareva che la gente non potesse fare a meno di
lui e di essere trattata uno schifo pur di assimilare almeno in parte
quell’aplomb che da sempre contraddistingueva il simbolo del ventaglio.
Per
questo motivo Sasuke a diciassette anni, si ritrovava ad avere una manica
infinita di adoratori e un discreto numero di amici numerabili con le dita
della mano. Di una sola mano. Per quanto il termine amicizia potesse risultare
un tantino diverso dal comune significato attribuito da tutti, perché anche in
questo Sasuke era troppo cavilloso – ecco, un altro troppo da annoverarsi a
tutti gli altri.
D’altro
canto, lui non era il tipo che aveva bisogno di circondarsi di tante persone
per stare bene. Al contrario preferiva la solitudine al chiassoso vociare della
gente, rimanere in disparte a guardare il mondo mentre si affannava per
rimanere a galla, senza sapere che non c’era affatto bisogno di nuotare per
respirare. Ma anche così, c’era sempre qualcuno dietro l’angolo a ricordargli
che persone eccelse come lui, non sarebbero mai potute rimanere in disparte.
Poi
c’erano le altre persone, quelle come lei,
discrete e silenziose come il fruscio del vento che accompagnava gli stessi
passi da cui si generava. Persone che era difficile incontrare, e ancor più
difficile notare, perché la loro luce non era visibile ad occhi inesperti,
risiedeva nel fondo in attesa soltanto di essere scorta. Persone che non
potevano e non sapevano essere inopportune o irritanti, giacché la loro
presenza era di per sé leggera come l’incedere elegante di una ninfa.
Ed
era così che era entrata, quell’assolato pomeriggio di fine aprile.
La
porta aveva cigolato, piano, quasi invisibile, ed un visino pallido dai
lineamenti delicati aveva fatto il suo ingresso in una nuvola d’imbarazzo.
Sasuke,
in posizione supina sul letto, aveva tolto le cuffie del walkman nonostante
nessun richiamo fosse giunto a ridestarlo dall’apatia in cui era scivolato ed
aveva accennato ad una smorfia impercettibile che per gli Uchiha corrispondeva
ad un sorriso.
-Dopo tutto questo tempo, ancora
t’imbarazzi ad entrare nella mia camera, Hinata?-
“Mi
cercavi?” Domandò infine, girando la testa quel tanto che bastava per
intercettare lo sguardo timido della ragazza da sopra la sua spalla.
Lei
sobbalzò al richiamo delle sue parole e voltò il capo per non doversi trovare
in quelle iridi opposte alle sue, mentre il cuore batteva sensibilmente un po’
più forte. “C- Come…?”
Sasuke
per tutta risposta si mise a sedere, lo sguardo fisso ed eterno sulla figura
aggraziata sulla porta, e lei seppe senza bisogno di parole che lui non le
avrebbe fornito una risposta plausibile. Anzi, lui non avrebbe detto niente e
basta. La sua ingenua curiosità sarebbe rimasta perciò insoddisfatta, ancora
una volta.
“V-
Volevo farti v- vedere una cosa s- se non ti disturbo.” Disse infine la
ragazzina, con quel suo piccolo difetto verbale che si portava dietro da anni,
probabilmente da sempre.
Lui
si alzò, la camicia rossa appena sgualcita dalla posizione di prima seguiva i
ritmici movimenti del petto, e senza una parola le arrivò di soppiatto davanti.
La vide arrossire, impietosamente, ed il contrasto che questo creò con la pelle
d’avorio la fece apparire ancora più piccola dei suoi effettivi diciassette
anni. Ma le forme sinuose del corpo, quelle no, non lasciavano spazio ad
eventuali dubbi.
“Okay.”
Mormorò soltanto Sasuke, lapidario e monosillabico come sempre, le mani
impiantante nelle tasche del jeans caffè.
If I could
take you away
Pretend I was queen
What would you say
Would you think I'm unreal
'Cause everybody's got their way I should feel
La
luce del sole poteva essere abbacinante per occhi che, come i suoi, erano
semplicemente troppo scuri – antracite
– per poterne sopportare il bagliore.
Sasuke
storse il muso quando, uscendo, si accorse della ferita infertagli come una
frusta da quei raggi insistenti, penetranti, che gli entravano dentro fino a
macchiarlo del loro insopportabile candore. Ma non sarebbe stato da lui sfilare
una mano dal suo naturale giaciglio per allungarla a coprire la fronte in
un’artificiosa imitazione dell’ombra. Perciò sfidò quell’ostacolo con il
coraggio stoico di cui gli Uchiha andavano decantati e, una volta abituatosi al
cambiamento, si insinuò con lei nel curatissimo giardino della sua dimora.
I
lunghi fili corvini dei capelli di Hinata veleggiavano morbidi sulla schiena
minuta, fin troppo aggraziati per essere reali, e cascavano in tante docili
onde quando lei rallentava il passo in modo sensibile, riducendolo quasi a
zero, per potersi girare e regalargli un’occhiata fatta nella stessa misura di
sorrisi e d’imbarazzi.
Quando
succedeva, nonostante l’aria da duro a gravare sul suo volto imperscrutabile,
Sasuke realizzava che c’era ancora un mondo dietro quello sguardo latteo in
attesa soltanto di essere scoperto, persino da lui, il vicino di casa un po’
indisponente che sarebbe dovuto essere anche colui che la conosceva più di
tutti, ad onorare così una vita spesa dietro ad un’insolita amicizia.
Perché
erano amici, no?
Sasuke
non era bravo a classificare le emozioni, perché in effetti non era nemmeno
bravo a provarle. Ma Hinata era la persona che l’aveva visto crescere e lui
aveva fatto lo stesso con lei, l’aveva osservata da lontano trasformarsi da
bruco a crisalide e da questa a farfalla, l’aveva accolta nella sua vita quando
lei silenziosa aveva osato metterci piede. Per cui, a conti fatti, se non era
amicizia, qualcosa c’era, almeno un
brandello, uno sprazzo di un qualche tipo di rapporto, c’era.
Hinata
lo condusse al limitare del giardino con l’incedere elegante per cui la sua
famiglia, gli Hyuga, veniva riconosciuta. Una volta qui, con mani decise,
afferrò la maniglia e tirò dalla sua parte, sorridendo vittoriosa quando il
cancelletto arrugginito ed abbordato dall’edera crepitò nei cardini. Infine si
voltò verso Sasuke e lo invitò con un altro sorriso, di cui non pareva mai
essere stanca, a seguirla oltre la villa degli Uchiha per inoltrarsi
nell’adiacente dimora degli Hyuga.
Lui
la seguì senza fare storie, ancora in un ostinato silenzio, gli occhi neri che
insaziabili si posavano sulla figura di lei, stupendosi ancora una volta per
come i suoi passi frettolosi parevano scivolare sul selciato, anziché
calpestarlo.
La
seguì e si fermò solo quando lei si chinò a raccogliere qualcosa, di punto in
bianco, nel lato più estremo dell’enorme giardino, all’ombra di tutto quel
sole.
Alle
loro spalle, l’imponente residenza di famiglia sembrava scrutarli altera, senza
tempo, fregiandosi del timoroso candore di alte pareti, bianche come il colore
degli occhi dei suoi risiedenti, segno indiscutibile del casato.
“G-
Guarda.” Balbettò Hinata rialzandosi, le mani che stringevano dolcemente
qualcosa al petto.
Sasuke
chinò lo sguardo, scettico, scostandolo da quel viso niveo per incrociare un
musino baffuto che lo fissava con acceso interesse.
“È
un gatto.” Sentenziò quindi, una fiamma d’incertezza a brillare invisibile dal
fondo scuro delle iridi.
Lei
annuì, felice, mentre con una mano carezzava leggera la testolina del micio.
“È… Era n- nella mia borsa. D- Deve essere finito lì per sbaglio e- e io non me
ne sono accorta.”
Lui
non disse nulla, pensieroso, limitandosi a fissare il gatto con aria critica.
Pelo corto, bianco e qualche chiazza cioccolato lungo il corpo, in più punti,
con un’orecchia di un colore e una dell’altro. Occhi gialli, due pozze acquose
di un incredibile e surreale giallo.
-Obeso.-
“S-
Sul collare c’è s- scritto che appartiene ai L- Leah.” Continuò poco dopo
Hinata, abbassando lo sguardo contrito verso la testolina spaesata del gatto.
Sasuke
la guardò, ma non ebbe bisogno di chiederglielo per sapere chi fossero i Leah.
Gli
Hyuga, come tutte le famiglie più importanti del Paese, possedevano una casa
nella zona di Fuji, Fujiwara, vicino al mare, dove si recavano di tanto in
tanto per svariate questione indipendenti dal puro diletto.
Era
proprio da lì che ne venivano padre, figlie e nipote principale, oltre a
qualche altro importante pezzo grosso della società di famiglia. Vi erano rimasti
per un’intera settimana stavolta e soltanto quella mattina avevano fatto
ritorno a Tokyo, a casa. Ed i Leah in questione erano appunto i discreti vicini
di Fujiwara, abbastanza possidenti da avere una casa al mare ma non quel tanto
che bastava per rientrare nella ristretta cerchia di famiglie potenti a livello
nazionale.
“H-
Ho provato a telefonare, m- ma non possono venire a prenderlo e- e io…” Lei
abbassò il capo, contrita, e Sasuke notò che la sua preoccupazione era rivolta
alla bestiolina in attesa tra le sue braccia.
Fosse
stato per lui, l’avrebbe lasciato lì a vagabondare, ma lei no, lei era diversa.
Lei sapeva dispiacersi anche per la sorte di un gatto. Non era glaciale come
gli Hyuga, come lui.
“V-
Vorranno riavere il l- loro g- gatto.” Hinata sospirò e dai suoi occhi chiari
non era difficile riuscire a leggere il proprio cruccio.
Lei
era un libro aperto, ogni emozione provata dal suo sensibile cuore inossidabile
si affacciava in quelle iridi opalescenti, donando sfumature che andavano a
stabilizzarsi con l’umore.
Sasuke
non capiva come potesse avere voglia di piangere per uno stupido gatto obeso,
non capiva e forse non avrebbe mai imparato a farlo, ma se c’era una cosa che
non poteva sopportare era vedere quelle fastidiose stille di sale mentre solcavano
il viso pallido della ragazza.
In
realtà odiava le lacrime di per sé, se poi erano di Hinata e per un gattaccio,
allora l’irritazione si amplificava a livelli mastodontici.
Poteva
avvertirla in modo chiaro, lampante, la voglia di menare pugni per il solo
gusto di sfogare la stizza, il formicolio insistente alle mani che nemmeno
strette a pugno riuscivano a contenere quel fremito, il sangue che scorreva
veloce nelle vene fino quasi a scoppiare.
Ed
Hinata piangeva spesso, sembrava farlo apposta, anche quando non c’era un
motivo concreto dietro come in quel caso, eppure lui non riusciva ad odiarla
per quello, non a lei almeno, né sapeva come fare a consolarla.
Sasuke
era un orso in quelle cose, ma quando lei alzò i suoi grandi occhi velati di
lacrime su di lui, capì che gli sarebbe stato impossibile riuscire a sorreggere
quello sguardo e, nonostante additò la colpa al suo odio per il pianto in sé
per sé, non poté non allungare una mano verso quella spalla mingherlina.
“Allora
andiamo a portarglielo noi.” Sentenziò, spostando lo sguardo quando Hinata
sgranò gli occhioni ammaliata prima, ammirata poi.
-È perché odio le lacrime. Non per
lei. Solo per farla smettere di piangere, perché odio le lacrime, solo per
questo.-
“S-
Sì, Sasuke.”
Poi
lei sorrise e lui, anche se stava fingendo di non guardarla, lo sentì l’alito
di vento insinuarsi caldo nel suo ventre, strisciando fino al petto
inarrestabile, cercando e riuscendo infine a raggiungere quel cuore che da anni
aveva deciso di recidere, di troncare, ma che quando era con lei ricordava
cinico ancora come si faceva a battere per qualcos’altro oltre al sopravvivere.
Annuì,
le afferrò un polso e fece per portarla via, ma lei si bloccò.
“A-
Aspetta, l- la borsa.” Balbettò Hinata, scendendo letteralmente dalle nuvole.
Sasuke
sbuffò, contrariato, ma annuì ugualmente e, lasciandola, le permise di
recuperare l’oggetto in casa. Pochi minuti dopo, lei stava già correndo
aggraziata dalla sua parte, con la testa del gatto che spuntava incuriosita
dalla borsa. La gonna del vestito di un giallo sbiadito, le ondeggiava leggera
sule gambe, creando morbidi contrasti di colore con il rosa antico della
canotta un po’ lunga che aveva indossato da sopra.
“Fatto!”
Gli sorrise ancora una volta la ragazzina quando lo ebbe raggiunto, fermandosi
che aveva il fiatone, sinonimo di quanto poco abituata fosse a quel genere di
esercizi fisici.
Lui
la fissò, serio, prima di riscuotersi e recuperare la naturale presa della sua
mano sul polso sottile di lei. Era sorprendente come riuscisse a ricoprire
l’intera circonferenza del polso con solo le dita. Scacciò il pensiero e con
ampie falcate, la condusse via, senza ulteriori inutili parole, senza
richiedere il permesso a nessuno, senza troppe paranoie. Una promessa era una
promessa. Questo un Uchiha lo sapeva.
Everybody's talking
how I can't be your love
But I want to be your love
Want to be your love, for real
Everybody's talking how I can't be your love
But I want to be your love
Want to be your love for real
Want to be your everything
Hinata
era ferma sulla banchina da diversi minuti, lo sguardo che vagava inquieto sui
binari ferroviari in attesa del treno.
Nella
sua borsa, il gattone intanto aveva intrapreso la più pigra e invincibile
attività di una sana dormita, il respiro pesante di chi si sente perfettamente
sicuro tra quelle braccia.
Lei
sorrise, appena, e di nuovo gettò un’occhiata fugace all’entrata della
stazione. Sasuke era andato a prendere i biglietti ma per quanto mancasse da
soltanto pochi minuti, non poteva fare a meno di sentirsi ansiosa. Quando c’era
lui non vi era più spazio per tutti quei dubbi e per quel tormentoso tarlo che
la dilaniava, ma quando la lasciava sola, sentiva dentro di sé l’aprirsi di una
voragine.
Un
uomo le si avvicinò e lei sobbalzò nell’annusare l’aria alticcia emanata dalla
sua pelle olivastra. D’istinto, girò il capo nella sua direzione e il cuore
mancò qualche battito, lo stomaco si aggrovigliò, quando si accorse che le
stava sorridendo. No, non un sorriso normale, di quelli tranquillizzanti e che
tanto facevano bene alla salute, quello era di tipo diverso. Diametralmente
diverso. Era un sorriso ambiguo, pericoloso.
-Sasuke, dove sei? Non lasciarmi sola,
non lasciarmi, ti prego, non lasciarmi sola.-
“Hai
bisogno di un aiuto?” Domandò all’improvviso quello, la voce impiastricciata
dall’alcol, lo sguardo malizioso di chi non sembra nutrire buoni pensieri.
Hinata,
rigida, paralizzata, scosse il capo, senza riuscire a spiccicare parola.
L’odore pungente del liquore le bruciava al naso e le pizzicava agli occhi,
facendoli diventare acquosi, pronti alle lacrime. Un magone indistruttibile la
teneva ancorata lì, incapace di muoversi, nonostante i fremiti via via più
frequenti lungo tutta la colonna vertebrale.
Voleva
urlare, voleva scappare, ma il suo cervello inebetito dallo spavento appariva
al momento incapace di articolare ordini coerenti al suo corpo destabilizzato.
“Vuoi
una mano?” Insistette l’uomo, avanzando di un passo nella direzione di Hinata
che, per istinto, si strinse la borsa con il gatto ancora addormentato al
petto.
“I-
Io…”
“Problemi?”
Tuonò una voce alle sue spalle, accompagnata da un profumo fresco di menta, che
sortì l’effetto rilassante di un tranquillante per lei.
Non
aveva bisogno di guardarne il volto per sapere chi fosse, conosceva tutto di
lui per non riuscire ad associarne l’odore. Perché l’odore di Sasuke era forte,
intenso, penetrante, proprio come lui. E quando le si affiancò, tutto sembrò
più mite, la paura di poco prima dissolta in nugoli fumosi come il miasma
amarognolo della nicotina.
Perdendosi
in tutte quelle sensazioni, Hinata quasi non si accorse dell’uomo che,
scrollando le spalle, si allontanava senza pretese, intimidito forse dal
cipiglio scuro sul volto dell’Uchiha. Ma quando lui le prese con naturalezza la
mano, quasi fosse stata una cosa semplice e scontata, il mondo ritornò a
vorticare e a riaccendersi di mille colori diversi che i suoi occhi particolari
riuscivano a scorgere senza fatica. La presa si rafforzò un pochino di più,
senza ragione apparente, e lei alzando lo sguardo arrossì impietosamente
nell’intercettare quell’espressione insofferente su di un volto statuario.
Abbassò
di nuovo lo sguardo, in imbarazzo, e con la mano che reggeva la borsa ancora al
petto, si sfiorò la parte sinistra della maglietta.
-Batte così forte, che potrebbe
scoppiare.-
Quante
emozioni era in grado di far nascere, una banale stretta di mano?
All’improvviso
Sasuke la tirò verso di sé e Hinata, alzando imbarazzata la testa, si accorse
che mirava dritto al treno. Sorrise, dandosi della stupida, mentre il gatto si
concedeva uno sbadiglio prima di riprendere il sonnellino da dove l’aveva
interrotto. Non si era resa conto nemmeno del suo arrivo, era parecchio
distratta quel giorno.
Per
fortuna c’era lui, lui che aveva acquistato i biglietti per entrambe, lui che
l’aveva aiutata con quel tizio, lui che sembrava sapere esattamente cosa fare, dove andare, come farlo. Sempre e comunque.
Era questo Sasuke Uchiha, questo e molto altro di più.
I
sedili erano verde muschio, addossati ai due lati come quelli di una
metropolitana.
Sasuke
scelse dei posti isolati, nella parte più estrema della carrozza, al limitare
con un’altra, accomodandosi che stringeva ancora nella sua la mano di Hinata.
Lei adagiò la borsa alla sua sinistra, e si accomodò tra questa ed il ragazzo
che era ancora visibilmente arrossata in viso. Il micio per tutta risposta
sbadigliò, si sgranchì e si acciambellò di nuovo, stanco quasi avesse corso per
ore.
Hinata
sorrise, mentre il treno partiva lentamente verso Fuji.
Sasuke
aveva indossato la solita area imbronciata, ma la teneva ancora per mano e
questo le bastò a farla sentire meglio, nonostante il rossore, nonostante
l’imbarazzo, nonostante gli sguardi incuriositi degli altri passeggeri.
Fuori
dai finestrini, intanto, il cielo si era colorato di bronzo e di oro, segno
indiscusso che si stava avvicinando la notte, l’ennesima, solo che l’oscurità
non l’avrebbe trovata sola nella sua enorme stanza bianca, non stavolta almeno.
Everything's
falling, and I am included in that
Oh, how I try to be just okay
Yeah, but all I ever really wanted
was a little piece of you
Seppure
con una certa fatica, alla fine Hinata era riuscita nell’intento di recuperare
il proprio quaderno e la matita a carboncino dalla borsa senza che il gatto le
soffiasse contro. Li portava sempre con sé, fedelmente, in attesa di trovare
qualche soggetto interessante da immortalare nero su bianco. Non che fosse
realmente così brava, di certo non ci voleva un esperto per farglielo notare,
ma disegnare era un’attività che le piaceva, la faceva sentire serena, in pace.
Suo
padre diceva che viveva con la testa tra le nuvole, e che un giorno o l’altro sarebbe
dovuta ritornare sulla terra e prendersi le sue responsabilità, e forse aveva
ragione lui a dirle quelle cose, oppure era soltanto rabbia, dolore e rabbia.
-È per la mamma, perché lei amava
disegnare e adesso non può più. Perciò sei arrabbiato tanto, papà, giusto?
Perché lei non c’è più e nessuno disegna come lei, nessuno, nessuno.-
Fatto
stava che, al di là di quanto potesse essere una frana lei, Hinata sapeva che
non poteva rinunciarci. Non poteva, davvero, perché sapeva che le emozioni
scaturite dal tratto leggero della matita erano uniche ed irripetibili, come
l’alba che si affaccia al mattino. E quando un disegno prendeva forma, era il
sole che ritornava a sorgere, a ricordarle che quel filo sottilissimo non era
solo un frutto della sua immaginazione né un’illusione notturna, ma che
esisteva, palpabile come il vento in una sera d’estate.
Come
gli Hyuga, forse l’unica cosa che ne aveva ereditato oltre al colore
lattiginoso degli occhi, Hinata era un’ottima osservatrice.
Aveva
scoperto di detenere questa dote già da molto piccola, ma solo recentemente
aveva appurato di essere quella che meglio riusciva ad enfatizzare questa
caratteristica. La spiegazione era da ricercare nella sua smisurata,
inguaribile timidezza, la stessa che la faceva arrossire per ogni sciocchezza e
la induceva a balbettare, insicura ed indecisa, rilegandola in un angolo dal
quale però si riusciva a vedere il mondo in ogni minima parte, per ogni
minuscolo dettaglio. Da lì tutto appariva diverso, impregnato di mille altre
sfumature invisibili agli occhi di chi non aveva tempo per soffermarsi a
guardare e così passava oltre, ma non lei, lei che aveva fatto di quelle
venature la sua musa ispiratrice.
Poteva
stare ore intere, senza mai stancarsi, ad osservare dei volti. Volti
sconosciuti, di passanti, di persone che probabilmente non avrebbe incontrato
mai più. Volti che pure sapevano darle qualcosa, una tinta in più in grado di
accendere la sua mano e guidare il tratto sapiente della matita.
In
quei momenti, mentre la pagina bianca si colorava di un altro ritratto,
l’ennesimo, Hinata riusciva a vedere molto, molto
di più rispetto ad occhi normali e questo bastava a darle la forza, la voglia
di continuare, di non smettere mai.
Eppure
anche questo aveva un limite. Un limite rappresentato dalla figura appisolata
al suo fianco, rigida come da sveglia. Sasuke Uchiha, l’unica persona che la
sua mano non aveva mai saputo rendere giustizia.
Di
tutti i volti che aveva mai raffigurato, anche i più difficili ed impossibili
all’apparenza, lui era il solo per cui la matita si rifiutava di immortalare.
Poteva
rimanere per ore ed ore a guardarlo, a memorizzare ogni dettaglio, anche il più
insignificante, del suo viso senza essere mai in grado di riportarlo su carta.
Perché
c’era tutto un mondo proprio al di sotto della maschera di cera costruita ad
arte e a misura di viso. Sfumature, emozioni, sentimenti così complessi, così
articolati che nessun colore avrebbe mai saputo soddisfare. Oltre quegli occhi
neri come la notte più cupa, si nascondevano venature inafferrabili, quasi
ineccepibili, così profonde quanto le scosse di terremoto in atto nel suo
corpo.
Eppure,
guardandolo assopito con le braccia conserte e la maglietta bianca da sotto la
camicia sbottonata, il broncio da perenne arrabbiatura e l’aria perentoria
anche nel sonno, la voglia di provarci, di ritrarlo cresceva ardente come le
fiamme di un fuoco perpetuo.
E
nessun pensiero specifico attraversava la testa mentre si alzava emozionata e
si risiedeva sui sedili opposti, posizionandosi di fronte a Sasuke con un velo
d’imbarazzo a strofinarle le guance. Il quaderno aperto su una pagina bianca, a
caso, e la mano destra che stringeva convulsamente la matita. Il cuore che
semplicemente non riusciva a ritrovare un’andatura discreta, meno frenetica.
Un
fremito la attraversò quando il volto etereo di Sasuke si cristallizzò nei suoi
occhi così chiari, nero nel bianco, e il braccio tremò, incapace di stare
fermo. Il mondo attorno sembrava essersi come fermato e lo sferragliare del
treno era una nenia lontana, soltanto mero sottofondo al cambiamento che
avvertiva lampante e un po’ stordita dentro di lei. Lo stomaco si chiuse, la
gola bruciò e il respiro si fece mozzato, prima di alzare la mano e poggiare la
punta della matita sul quaderno, delineando tratti lievi ma precisi,
miracolosamente indipendenti dal fremito che la scuotevano.
Poi,
all’improvviso, tutto cambiò.
La mano
ridivenne ferma e anche se il cuore batteva ancora così forte da non riuscire a
percepire nessun altro rumore che quello, ogni singola parte di lei si era
fossilizzata su di lui, su Sasuke. Le linee erano diventate più marcate e la
matita correva frenetica per tutta la lunghezza del foglio, ricordando ora
questo ora quello di un dato particolare. E lì c’era quella minuscola cicatrice
di una bravata bambinesca, no?
-Di più, di più, di più.-
Un
mantra. Un mantra che guidava la sua ispirazione. E gli occhi ancora che
instancabili cercavano lui, poi il foglio, e ancora lui, in un cerchio
imperituro alla luce discreta delle lampadine del vagone.
Fuori
dal finestrino, la notte era così marcata da spaventare, ma lei non poteva
saperlo, non poteva vederlo, perché nella mente e nel corpo non c’era altro che
Sasuke. Frenetico, il disegno era divenuto frenetico e laddove prima c’erano
solo linee e curve, adesso compariva l’ombra di un viso.
Prima
ancora di accorgersene, le lancette erano ostinatamente andate avanti e la luce
si era fatta più viva, più intensa, ma non accecante.
Hinata
si stupì di come fosse giunta già l’alba quando un raggio di sole le pizzicò il
volto, madido di una fatica invisibile. Gli occhi bruciavano un poco per la
stanchezza ma fu sollievo che avvertì nell’alzare lo sguardo ed incontrare quel
mare arancio dietro la testa di Sasuke. Sollievo ed un’emozione totalmente
devastante, che la fece fremere, la fece sussultare, impreparata.
Era
stata così presa dal ritratto da non aver notato il cambiamento. Eppure c’era
stato. Sul serio, e non era solo estetico, né esteriore. Era lì, dentro di lei,
a metà tra un respiro ed un battito di cuore, così forte da lasciarla stordita
per un irrecuperabile attimo.
Ma
adesso, messi momentaneamente da parte quaderno e matita, i suoi occhi non
vedevano che il volto alabastro di Sasuke ed era così strano, perché
guardandolo il tempo sembrava essere tornato indietro fino al loro primo
incontro, come se lo vedesse ora per la prima volta, ma con il vantaggio di
conoscere ogni dettaglio a priori.
Lentamente,
prima ancora di rendersene conto, aveva recuperato la matita e adesso tracciava
linee morbide, fluide, senza la frenesia di poco prima.
Il
ritratto si arricchiva, le nuance più minuscole prendevano forma e il nero si
annidava feroce nella trasposizione dei capelli di lui, mentre qualcosa si
accendeva e sapeva un po’ di consapevolezza. Una presa di coscienza che si
andava delineando piano, con cautela, ma che si faceva sempre più decisa per
ogni istante trascorso. Eppure c’era, brillante come l’alba fuori dal
finestrino, innegabile come l’alba
fuori dal finestrino.
-È arrivata. Alla fine, dopo tutto
questo cercare… È arrivata anche per me alla fine.-
Everybody's talking
how I can't be your love
But I want to be your love
Want to be your love for real
Everything will be alright
if you just stay the night
Per
un gesto inconscio scrollò una spalla e rilassandola uno sprazzo di lucidità
improvvisa gli fece spalancare gli occhi.
Sasuke
si guardò attorno, la posizione rigida con cui aveva dormito, e gettando una
rapida occhiata all’orologio scoprì che erano quasi le nove del mattino. Poco.
Ancora poco e sarebbero arrivati a Fujiwara.
Si
sgranchì gli arti superiori e si sentì vagamente meglio. Sarebbe stato perfetto
se avesse potuto farsi una bella corsa mattutina, come d’abitudine, e togliersi
così di dosso la pesantezza dettata dalla scomoda postura che aveva assunto
nella notte. Ma alzando lo sguardo ed incontrando l’azzurro sbiadito del cielo,
le ultime ore gli piombarono addosso con la stessa intensità con cui Hinata si
cimentava nei suoi disegni.
Già,
Hinata.
Voltò
appena la testa e a stento riuscì a celare un indefinibile turbamento nel
poggiare gli occhi carbone sul viso addormentato della ragazza.
Era
così pallida da sembrare irreale,
irraggiungibile, eppure era proprio lì, accanto a lui, a non più di pochi
centimetri di distanza. Sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorarla, ma
Sasuke era certo che pur carezzando quel corpo minuto, le sue mani non sarebbero
mai state in grado di toccarne l’essenza. Ed era tutto lì, alla fine. Era
sempre stato lì, rinchiuso in un sorriso, o in un gesto tanto naturale quanto
disorientante.
Poi…
Poi,
semplicemente, lo vide.
Hinata
lo stringeva tra le mani in una presa debole, dettata dal sonno, e la matita
sembrava voler scivolare dal quaderno da un momento all’altro.
Per
una strana ed oscura ragione, lei non aveva mai voluto mostrargli i segreti
racchiusi in quelle pagine, né lui aveva mai chiesto nulla a riguardo. Ma anche
quello, per quanto la voglia di scoprirne qualcosa in più fosse talmente
impellente da scottare sulle braccia, rientrava nella sua maschera cucita ad
arte che lo voleva più Sasuke Uchiha e tutto ciò che esserlo poteva
significare, meno se stesso. Il vero se stesso, quello rimasto per così tanto
tempo segregato in qualche parte in fondo al petto, da aver dimenticato lui per
primo la sua esistenza e, forse, non c’era davvero niente oltre la sublime
apparenza sulla riga del bello e dannato.
Tuttavia
la sua mano era già pronta ad afferrare il quaderno, il suo braccio… Quando si
era allungato il suo braccio? Automatismo involontario, per forza quello doveva
essere. Impossibile anche solo a pensarlo, che in qualche modo fosse stato un
ordine specifico della sua mente, del suo raziocinio, della sua volontà,
piuttosto che un capriccio del muscolo indolenzito. Perché – andiamo! – lui era
e rimaneva invariabilmente Sasuke Uchiha e, come risaputo, Sasuke Uchiha non
s’impiccia dei fatti degli altri, anzi di più, non s’importa di niente e di
nessuno, perfino di se stesso.
Sasuke
Uchiha era una statua: inossidabile, incrollabile, fredda. Non aveva sentimenti
e, se ne aveva, erano destinati a rimanere nascosti in quell’involucro
perfetto, sintesi di una parvenza simile soltanto a quella di una qualche
divinità greca. Ed era bastardo, oh, se lo era… Un mascalzone. Un fottuto,
diabolico, odioso stronzo.
Ma
una statua non può essere così, giusto? Perciò veniva da chiederselo, e da
rispondersi con un sicuro cenno d’assenso del capo, se non fosse quello il vero
Sasuke. Soltanto una reminescenza, niente più di quello, del Sasuke che tutti
erano abituati a vedere.
Eppure
Hinata non voleva capirlo e si ostinava, da stupida, in quell’insulsa ricerca
nella speranza – vana – di trovare un giorno qualcosa dietro lo specchio.
-Sciocca. Non hai ancora capito, che
io sono questo? Non sono gli altri, sono io; io sono così.-
Ma
per quanto stupida potesse reputarla, per quanto ingenua e oltremodo
sempliciotta potesse ritenerla, Sasuke si accorgeva che invariabilmente ogni
giorno era della sua presenza che si cibava. Famelico, affamato peggio di un
corvo che sbrana la propria preda. Che poi, come preda, era l’ideale: chi altri
si sarebbe lasciato mangiare con tanta estrema facilità? Solo lei. Soltanto
Hinata.
Scacciò
quei pensieri che gli appartenevano ma che già non sentiva più suoi, lo sguardo
rapito dal quaderno che stringeva tra le mani, recuperato dalla presa
inconsistente della ragazza.
-“Sarebbe violazione della privacy,
sai bastardo?”
Oh lo so, idiota. Credimi, lo so.
“E lo fai lo stesso?”
Sono un bastardo, ricordi?
“Un fottuto bastardo.”-
Naruto
Uzumaki, lui e i suoi stupidi ragionamenti moralisti da sentimentale qualunque.
Da quando tempo era entrato nella sua mente così, scalzando gli ostacoli per
porsi a non-richiesta coscienza? Che completo idiota, così insopportabilmente
credulone, sì, che a volte veniva spontaneo associarlo ad Hinata, ma poi chissà
perché il pensiero iniziava a pizzicare e a dare fastidio, e si diceva che quei
due non avevano niente, niente in comune, se non il fatto di essere entrambe
dei sempliciotti.
-“E non potremo mai stare insieme,
giusto?”
‘Fanculo, Uzumaki.-
Spinto
da un insano impulso di trasgredire, giusto per il gusto di vedere la pseudo
faccia del biondo guardarlo bieco nell’unico campo del suo immaginario, Sasuke
spalancò il quaderno incurante delle buone maniere e della privacy del cavolo.
Lo
spalancò e il mondo gli cadde addosso, seriamente.
Perché
guardando quegli schizzi fatti a matita, scorrendo tra i disegni buttati giù
con tanta sapienza, sfiorando la superficie appena un po’ più ruvida laddove la
punta nera aveva tracciato linee sottili ma precise…guardando quel mondo,
quella realtà – e lo era, davvero, lo era – Sasuke si accorgeva che tutte le
certezze di una vita sapevano crollare a terra con la stessa facilità con cui
un uragano sa spazzare una città.
E
lui, infondo, poteva dire di conoscerla Hinata, a questo punto?
Il
treno rallentò, il gatto si stiracchiò e una folata leggera d’aria s’inoltrò
dal finestrino, sfiorando con delicatezza quelle pagine in un sensuale gioco di
carezze, prima di nascondere l’immagine perfetta di un viso infelice, stupendo
sì ma infelice, bordato da fili neri come il petrolio, o come il cuore che si
nascondeva in quella statua di marmo.
-“Cosa ti rode più di tutto, eh,
Sas’ke? Che tu non c’abbia capito un’acca di lei, o che lei c’abbia capito
tutto, ma proprio tutto, di te?”-
E
per una volta, la prima, Sasuke Uchiha non sapeva cosa rispondere e doveva
abbassare lo sguardo, impietoso, dinanzi a Naruto Uzumaki.
Perché…
Chi
era, dunque, Sasuke Uchiha?
Please, sir,
don't you walk away
Everybody's talking how I can't be your love
But I want to be your love
Want to be your love for real
Arrivò
di soppiatto soverchiato dallo sciabordio monocorde delle onde sulla battigia,
accompagnato dagli ultimi raggi di un sole sbiadito dal finire della bella
stagione.
I
passi lenti e strascicati si disegnavano sulla sabbia con la stessa facilità
con cui la china riesce ad impregnare il foglio, tracciando una scia uniforme
che ad un primo acchito sembrava non avere limiti, né confini. Spingendo lo
sguardo verso destra e socchiudendo le palpebre, l’illusione di trovarsi
dinanzi ad una camminata infinita originatasi laddove il cielo cedeva il posto
alla terra, in un punto lontano miglia e più miglia forse ma sempre presente
nel tempo e nello spazio, riusciva a divenire persino reale. E forse lo era
davvero, sì, reale, e lui, in qualche modo, ne era il messaggero inconsapevole.
O
forse, semplicemente, era soltanto lei ad avere più immaginazione di quanta ne
fosse concepita.
Hinata
sorrise al pensiero, trovandolo buffo e un po’ troppo fuori le righe per lei,
ma ciò non le intaccò in alcun modo il buonumore.
Il
cuore batteva così forte da fare male, quasi, e una dolce, dirompente
sensazione di calore si alzava dal petto con il sibilo roco di un serpente, che
strisciando riusciva a raggiungere anche la più piccola parte di lei, facendola
sentire paradossalmente viva. Per un istante fu tentata di corrergli incontro,
di abbracciarlo, ma sarebbe stato troppo per la sua proverbiale timidezza e
perciò lasciò correre il desiderio fino a quando non divenne che un brandello
infinitesimale accantonato in un angolo del suo petto. Eppure mentre lui si
faceva sempre più vicino e diveniva ad ogni passo un pochino più reale, Hinata
non riuscì a trattenere un sorriso il quale, ingordo, si spinse fino alle tenui
biglie lunari che le facevano da occhi.
“Sasuke…”
La sua voce uscì dalla gola un pochino troppo roca, bassa quasi avesse
traversato l’intero mondo ultraterreno e forse persino più in là prima di
raggiungere le sue labbra rubino per impreziosirne la consistenza.
Un
sussurro, un bisbiglio appena percettibile da risultare quasi inesistente;
sarebbe stato sciocco illudersi che lui avesse potuto udirla, oppure no?
Hinata
non lo sapeva ma quando lui la raggiunse portandosi dietro una fresca scia di
menta – il suo profumo – tutto passò
in secondo piano: il mare, le onde, la sabbia, il sole, il tramonto… Erano mai
esistiti, infondo? Sì, per davvero? Le sembrava impossibile adesso poter
concepire una simile realtà quando non c’era altro che non fosse il suo odore,
o il suo viso, o i battiti impazziti che si rincorrevano dentro di lei. Ed era
in quei momenti, sempre più intensi e meno radi, che lei si accorgeva
pienamente di quanto le fosse entrato dentro, in ogni singola cellula del suo
essere fino a raggiungerle l’anima.
Sasuke
era lì, a metà tra il cuore ed i polmoni, ed insaziabile si cibava ora di
questo ora di quello, consapevole forse persino più di Hinata stessa che ci
sarebbe rimasto in quel posto, molto più che per sempre.
Perché il sempre è mortale, l’infinito è eterno.
Glielo
ripeteva sempre la sua mamma, solo che lei non aveva saputo capirlo prima.
Scioccamente si era ripetuta che sempre, è sempre,
che non c’erano parole migliori per descrivere una cosa con cadenza perpetua,
che proprio non riusciva a capire cosa intendesse la donna. Ma poi le cose
erano cambiate con la stessa velocità di un superrapido e lei, ingenua, lì ad
attendere il momento dello schianto senza sapere bene come fare o cosa fare per
evitarlo.
Eppure
per quanto l’impatto poteva essere stato doloroso, Hinata aveva avuto la
percezione sin da subito che era esattamente così che doveva andare e che sua
madre aveva avuto ragione su tutto, sulla storia del sempre e sul disegno.
Ad
ogni modo Sasuke era lì adesso, era sempre stato lì in effetti, e di sicuro ci
sarebbe rimasto perché la sua essenza si era talmente radicata in lei, da essersene
fusa.
Inscindibile,
ecco: una parola così bella quanto pericolosa se non utilizzata con la massima
cura. Come una rosa bianca, di quelle che sbocciavano puntualmente in primavera
nel suo giardino e che lei non smetteva di rimirare, estasiata, crogiolandosi
nella speranza che anche i suoi occhi sapessero essere tanto intensi quanto
quel candore. Fiori che, per quanto belli potessero essere, richiedevano una
cura costante e duratura, dalla nascita alla morte per non appassire – come Hinata, pensava Sasuke ogni volta
che ne coglieva la fragile bellezza, l’assiomatica eleganza e la disarmante
delicatezza.
“Verrà.”
Solo poche parole, ma Sasuke sapeva essere sempre incisivo in qualsiasi forma
esponesse i pensieri.
Hinata
non aveva la necessità di chiedergli di cosa stesse parlando, lo sapeva già e
per questo gli occhi le si annacquarono in un vortice lattiginoso che stentava
a venire alla luce.
All’improvviso
il tempo sembrava essersi fermato per consentirle di assimilare ed incanalare
quell’unico vocabolo, talmente misero da apparire ardua impresa la sua
decodificazione. Ma non per lei, per gli altri forse sì, per lei no. Era strano
come un filo invisibile la legasse a lui più di quanto se ne rendesse conto e
solo in quei momenti riusciva a prenderne atto, dimenticandosi della litania
sulla falsa riga del non-lo-conosco.
-Hai fatto questo per me, Sasuke?
Davvero? Spingendoti così tanto più in là?-
Hinata
avrebbe voluto chiederglielo, sul serio, ma nell’aprir bocca il fiato si
dissipava nella salsedine che aveva contagiato l’aria, perciò rimase in
silenzio stretta nella dolcezza che aveva trascinato con sé quella parola. Le
sembrava un miracolo e adesso sapeva che, al di là di tutti i dubbi o di tutte
le preoccupazioni, sarebbe comunque stata una vittoria per lei. Perché che
importanza poteva mai avere ricevere o meno le critiche positive di un esperto,
quando l’unica persona che avresti davvero voluto aveva detto che ci sarebbe
stata?
Perché
gli Hyuga nel bene o nel male, mantenevano sempre le promesse.
“Hinata.”
Sasuke la richiamò con la stessa intensa possessività con cui sopraggiunse alle
sue orecchie, ricordandole senza alcun bisogno che lei era sua, sua e di nessun
altro.
Lei
avvampò, perché proprio non riusciva ad abituarsene, e in ogni modo si sforzò
di apparire normale mentre si stancava in inutili e non richiesti giri di
parole.
“I-
Io v- volevo ringraziarti, p- per… Sì, per mio p-”
Ma
Sasuke non seppe mai cosa lei stava per dirgli, per quanto ne conoscesse già la
consistenza, giacché le sue labbra impedirono a quelle di lei di spingere fuori
altre parole in un gesto che chiunque avrebbe semplicemente definito baciarsi.
In
un certo senso non sapeva neppure da quando era iniziata, con i baci cioè. Di
sicuro c’era comunque quel qualcosa che li teneva legati praticamente da sempre
e che lui aveva dovuto scoprire quasi per caso, in una mattinata qualsiasi,
mentre con lo stesso treno faceva sosta in quel piccolo paese nelle vicinanze
di Fuji, con un gatto più grasso che grosso. Di altrettanto certo, inoltre,
c’era poi il fatto inequivocabile che, baci o non baci, Hinata era sua e questo
era di gran lunga più bello di qualsiasi antica parola d’amore.
-“Perché il grande Sasuke Uchiha non è
capace di dire ‘ti amo’, giusto?”-
Sasuke
ghignò, mentre si separava dalla morbida consistenza delle labbra di Hinata.
Maledetto
Uzumaki, lui e la sua orribile mania di sbucare nei momenti meno opportuni e in
posti indiscreti, quasi assurdi, con quella sua testa quadra bacata che si ritrovava. Avrebbe mai smesso di tormentarlo?
Chissà perché, sapeva che la risposta non gli sarebbe poi piaciuta questo
granché.
-No, ma vorrei provarci.-
Eppure
mentre lei lo prendeva a braccetto, spinta da un’insolita ondata di
spigliatezza, e rideva felice alla vita, nonostante l’acceso cremisi a
deliziarle le guance, Sasuke sentì che ogni punta di nervosismo o di rabbia
provata fino a poco prima si era come eclissata dietro al pallido riverbero del
sole. Non aveva importanza se aveva rischiato di saltare alla gola del signor
Hyuga quando quello, ostinato, aveva rifiutato qualsiasi contatto con il
quaderno che lui aveva agilmente sottratto alla figlia. Poco importava anche se
alla fine si era visto costretto a gettarglielo sulla scrivania, aperto, e il
fato aveva voluto che la prima immagine catturata dal lattiginoso sguardo di
Hiashi era stato proprio lo stesso ritratto che aveva aperto anche i suoi di
occhi. Poco importava se quella guerra tacita inscenata nella stanza era venuta
meno soltanto con un lapidario ‘verrò’ – lo stesso che aveva utilizzato lui
appena poco prima, con lei, rimembrando vagamente scocciato una certa insana
somiglianza con il capostipite degli Hyuga.
Tutto,
tutto si dissolveva e diveniva cenere quando lei rideva a quel modo, con la
bocca coperta da una mano a voler nascondere un piccolo peccato, senza sapere
che molti avrebbero dato la vita – lui e sì, forse persino Hiashi – per essere
in grado di fare lo stesso.
Poi
la dolce presa si sciolse e Hinata, rendendosi conto di quanto compiuto,
ritornò rigida ad essere la ragazza sempre un po’ troppo timida di tutti i
giorni. Le risate si spensero ma gettando una rapida occhiata al volto bordeaux
al suo fianco, Sasuke notò che il filino di sorriso non era scivolato via dalle
sue labbra assieme alla spigliatezza. Ci sarebbe voluto del tempo, altro tempo
ancora, per lei, ma andava bene così.
Sì,
pensò mentre recuperava la sua mano fingendo una casualità convincente, andava
bene anche così dopotutto.
Non
aveva fretta, non c’era fretta per chi come lui non riusciva ancora a capire
bene cosa fosse quel caldo nel petto.
Era
solo questione di tempo, ecco, come quel brano assurdo che Naruto gli lesse,
una volta.
E
intanto le onde s’infrangevano lamentose sulla spiaggia e il sole, ridotto ad
uno spicchio, s’inabissava in oceani infiniti, in attesa di rifiorire appena
l’indomani, all’alba di un nuovo giorno ignaro degli avvenimenti del
precedente.
Sì,
sì, andava perfettamente bene anche così, con lei che gli insegnava ad amare e
lui ad essere forte, a mostrare i disegni di una vita ad un pubblico
sconosciuto e ad un padre che per capriccio aveva deciso di non voler avere
niente a che fare con quel colore morbido come il senso di perdita intriso nel
petto, lì in quel placido paese di Fujiwara.
“S-
Sasuke?”
“Uhm?”
“L-
La signora Leah m- mi ha regalato un gattino. È tutto n- nero. L’ho chiamato S-
Sasuke.”
Hinata
arrossì e anche se lui non era poi del tutto convinto di voler condividere il
proprio nome con quello di un gatto, non riuscì ad infrangere con parole
spietate – degne di un Uchiha – la sua genuinità.
“Voglio
vederlo.” Dichiarò, perché se proprio uno stupido gatto doveva prendergli il
nome, tanto valeva conoscerlo.
“D-
Davvero?” Domandò lei ad occhi sgranati, l’iride così pallido da sembrare
irreale.
“Sì.”
Rispose telegrafico Sasuke e dal modo in cui lei gli sorrise – avvampando
seduta stante ovviamente – capì di aver fatto la cosa giusta.
Bizzarro
come, dopo aver passato una vita a sbagliare, si riuscisse ad azzeccare le cose
con altrettanta facilità. Ma forse non era facile, forse era solo merito di
Hinata, della sua freschezza. O forse era colpa di Naruto, con tutte quelle
menate mentali degne da premi nobel.
E
comunque…aveva davvero importanza saperlo infondo?
Hinata
sorrise, di nuovo, il sole calò impercettibilmente un po’ di più verso il basso
e una leggera brezza marina s’insinuò tra i suoi capelli, scuotendoli e
unendoli a quelli ugualmente alabastro di lei.
Andava
bene anche così, davvero. Adesso sì.
Adesso andava bene, non c’erano tasselli mancanti, il puzzle bianco come la
neve era incredibilmente completo – persino l’ultimo pezzo, quello più semplice
da perdere, risultava al suo posto.
Hinata
era sua, sua, andava per forza tutto
bene, con lei non esisteva un male, c’era soltanto una distesa sconfinata di
bianco – e quello si sa, non è mai un colore negativo.
E
forse lui non poteva essere buono per lei, forse avevano ragione gli altri,
forse era semplicemente troppo nero
per lei, ma… Voleva provarci, sì. Voleva davvero provarci.
-“Sai, bastardo, credo che dopotutto
potresti anche riuscirci. Miao.”
Fottiti.-
The end
“E forse è solo questione
di tempo, di fermarsi sul cipiglio della strada ad attendere il momento in cui
si ha la percezione di essere appena un po’ più maturi, quel tanto che basta
per lasciare la mano che ti ha tenuto a sé per tutta la vita fino ad ora e per
camminare leggermente timorosi verso la parte opposta. Ma certe cose le senti
dentro consistenti come il sapore dolce del miele e con la stessa intensità di
un profumo dalle fragranze muschiate.
Oh, ci vuole tempo per
metabolizzarle ed interiorizzarle, questo sì, d’altra parte tutte le cose
importanti richiedono una buona dose di concentrazione e pazienza per essere
comprese appieno, nell’intero delle loro capacità.
Perciò, a conti fatti,
vedi anche tu che è solo questione di tempo?
Soltanto tempo. Stupido,
banale, tempo. Lo stesso che ti accompagna probabilmente da sempre e che, di
sicuro, scandirà con te l’ultimo respiro.
Cos’è? Ti stupisci che
sia così facile adesso? Beh, lo sai, le cose importanti sono lunghe, ma facili,
fattene un’abitudine.”
“Oh, sta zitto Uzumaki con queste cazzate. Mi fai venire
l’emicrania.”
“Che ne dici di andare allegramente a farti fottere Uchiha, eh?”
[Disclaimer: Naruto © copyright Kishimoto. “Be be your
love” © copyright Rachael Yamagata. I Leah e il paese Fujiwara
sono di mia invenzione.]
A/N
Questa fanfiction avrebbe dovuto partecipare al contest
SasuHina. Contest annullato a questo punto, visto che non si hanno avute più
notizie, con mio immenso dispiacere visto che ci tenevo, ma vabbè. Perciò, a
distanza di secoli dalla stesura, finalmente mi accingo a pubblicare questa one-shot,
sperando che a qualcuno almeno possa gradire.
Nel contest bisognava trarre ispirazione da un’immagine,
pertanto vi segnalo quella a cui mi sono ispirata io.
È la prima SasuHina che scrivo, perciò siate clementi! ^-^ Ci
terrei davvero tantissimo a sapere cosa ne pensiate, proprio e soprattutto
perché è il mio primo esperimento su questa coppia. Scusate se manco da tempo
immemore su questo fandom, ma ultimamente le idee su Naruto scarseggiano, ahimè.
Beh, non credo ci sia altro da aggiungere, se non grazie in
anticipo a chiunque andrà a leggere, sfogliare, recensire questa storia. E a
quei pochi magnanimi che la inseriranno tra i preferiti e/o i seguiti, se mai
ce ne saranno! *-* Grazie ancora e alla prossima.
Baci.
memi J