Una cattiva figlia
Diana per molto tempo, era stata convinta di essere una
cattiva figlia.
Cattiva non nel senso più banale
del termine.
Era stata una figlia abbastanza
ubbidiente, educata, ligia allo studio, non era mai tornata a casa incinta, né
rientrava tardi la sera.
Non fumava e non beveva.
Eppure non si era mai sentita
perfetta, nonostante queste “buone qualità”, che nessuno fra l’altro, le
riconosceva.
Infondo non se lo sarebbe
neppure aspettato e non lo avrebbe preteso. Non le sembrava neppure importante.
Diana non era figlia unica e le
era capitato in passato, di fare confronti con i suoi fratelli: erano
decisamente più ribelli di lei.
Ma figli ribelli non significa
necessariamente cattivi.
Lei aveva creduto di essere cattiva, lo credeva ancora a
volte, nonostante fosse ormai una donna adulta che aveva imparato a valutare le
cose in maniera più obiettiva; ma quel percorso che l’aveva portata quasi a una
sorta di riconciliazione con sé stessa, era stato lungo e tortuoso.
Vista dall’esterno nessuno l’avrebbe mai detto.
Nessuno avrebbe percepito il suo senso di colpa,
l’inadeguatezza che l’aveva permeata per anni e il motivo di quel malessere era
solo apparentemente semplice; lei aveva scoperto nel tempo di non riuscire a
provare affetto per l’uomo che chiamava papà.
Questa era l’unica cosa di cui era certa; lei non provava
quei sentimenti che avrebbero dovuto essere comuni in un rapporto tra un
genitore e un figlio. Ma non aveva mai capito esattamente che sentimenti
fossero i suoi: indifferenza, odio - solo la parola le faceva paura - rancore,
rabbia?
Un miscuglio confuso e contorto di tutte queste cose
insieme? Forse.
Non era mai stato facile dipanarli.
Era semplicemente certa di non provare affetto; non poteva
esserci, in quello che non si poteva neppure definire rapporto.
Un rapporto avrebbe dovuto presupporre un dialogo che di
fatto non esisteva.
Mancavano tutte le premesse. Erano sempre mancate.
Un giorno, semplicemente, lei aveva smesso di parlare con
lui; si era accorta che sarebbe stato un dialogo a senso unico. Non poteva
esserci scambio, comunicazione con una persona che era incapace di ascoltare,
ma pretendeva di essere ascoltata.
Diana aveva eretto tra loro un muro invalicabile per
proteggersi, custodire sé stessa e la sua ingenuità, e nel tempo quello stesso
muro l’aveva fatta diventare quasi insensibile; pensava che fosse l’unico modo
per non soccombere, per non farsi condizionare la vita da quella scomoda figura
paterna.
E nonostante tutto, credeva di essere ancora lei quella
sbagliata.
Perché quel silenzio ostinato non era normale e non lo
sarebbe stato visto dall’esterno.
E non si sentiva una buona figlia, perché una buona figlia
sarebbe stata capace di amare un genitore sempre e comunque.
Dovrebbe essere semplice e logico, naturale come il
respiro, amare chi ti mette al mondo.
Per Diana non lo era.
Semplice.
Lei non riusciva.
I suoi erano sentimenti nascosti, oscuri, mai manifestati,
che lei aveva cercato di riconoscere, forse anche giustificare. Magari solo
quello.
Una giustificazione alla fine, dopo molto tempo, l’aveva
anche trovata.
Erano sensazioni che aveva
iniziato a percepire nell’adolescenza, quel periodo della vita pieno di
conflitti, in cui cominci a sentirti estraneo al mondo che ti circonda, perfino
alle persone che ti sono più vicine e che improvvisamente vedi come fossero
sconosciuti.
Perché si cambia, ma il mondo
attorno resta uguale.
Diana si era ridestata nello
sguardo di un’ adolescente schiva, riservata e molto insicura e i suoi occhi
nuovi le avevano mostrato delle cose insolite, delle sfaccettature diverse
della realtà.
Aveva cominciato ad avere una
percezione diversa di tutto, in particolare dei suoi genitori, del loro
rapporto.
Ricordava ancora una domanda
fatta alla madre da una ragazzina dodicenne: perché lo hai sposato?
Non rammentava esattamente la
risposta, ma il tono amaro, rassegnato l’aveva colpita; il tono di chi sa di
aver commesso un errore.
Un errore senza ritorno che si
paga tutta la vita.
Era stato in quel preciso primo
momento, che aveva iniziato a vedere come stavano davvero le cose.
Loro non erano ciò che lei aveva
sempre creduto… felici?
Erano meno che infelici.
L’infelicità è riservata a chi
conosce la controparte.
Erano le due persone peggio
assortite che si potessero trovare sull’intero pianeta. Le più lontane.
Bruscamente in una manciata di
pochi anni aveva incontrato il volto nuovo di suo padre. E forse nuovo non era,
in realtà; era semplicemente quello vero.
Una persona sconosciuta, fino a
quel momento.
Probabilmente nessuno avrebbe
detto che suo padre fosse un uomo cattivo. In apparenza.
Ma non si poteva dire che fosse
un uomo buono nel senso più classico del termine.
Almeno lei non riusciva a dirlo,
neppure a pensarlo.
Gli anni dell’adolescenza erano
stati difficili. Non ricordava che ci fosse stata pace in famiglia.
Lei aveva sofferto
indirettamente, da spettatrice passiva di quella specie di vita in perenne
tensione, che coinvolgeva sua madre e la sorella minore; in quella tensione era
cresciuta la sua rabbia segreta verso il padre.
Era il livore che prendeva allo
stomaco, assistere impotente al male che faceva. Vedere quel male e non
comprenderlo, non trovare le ragioni. Ricevere male da chi avrebbe dovuto darti
il bene.
Lui tornava dal lavoro e appena
metteva piede in casa, girava per l’appartamento in cerca della figlia minore,
aspettandosi di trovarla curva su un libro a studiare.
Ma se così non era, prima
chiedeva dove fosse e la domanda era come una sentenza di condanna, poi usciva
per andare a cercarla nel quartiere e di solito la riportava a casa a calci nel
sedere.
Portava a scuola la figlia
quindicenne la mattina dopo, e lungo il tragitto dove c’erano sempre troppi
semafori, le faceva il lavaggio del cervello con delle sfuriate terribili che
l’avevano portata vicino all’esaurimento nervoso. E se la sorella non aveva
commesso pazzie era solo per non dare ulteriore dolore alla madre.
Era così quasi tutti i giorni.
Diana non aveva mai tenuto un
diario personale.
Sapeva che se lo avesse fatto,
suo padre di notte sarebbe entrato come un ladro nella sua stanza per cercarlo,
come per altro faceva con quello di sua sorella.
Lo sentiva entrare furtivo,
aprire cassetti e armadi alla ricerca di quei terribili segreti che le figlie
potevano nascondere; sigarette, anticoncezionali e il poster di qualche
cantante noto del momento.
Il suo diario segreto lei lo
teneva chiuso a doppia mandata nel cuore; lì suo padre non sarebbe mai riuscito
a entrare.
Diana impietosamente vedeva in
suo padre un uomo gretto, egoista, che pensava solo a sé stesso; il classico
padre/padrone che dettava legge, che pretendeva obbedienza e rispetto senza
rendere mai niente in cambio, o molto poco.
E non le piaceva. Nei modi,
negli atteggiamenti, nelle idee stantie, nei pregiudizi.
Suo padre aveva oltre ad un ego
smisurato, lo strano potere esercitato spesso sulla psiche della sua vittima
con parole dure e violente, di far sentire gli altri dalla parte del torto, a
volte meno di niente, uno zero, sempre inferiori comunque.
Non dava sicurezze.
Non incoraggiava.
Non dava consigli, ma ordini
come se tutti fossero stati servi suoi.
Perché secondo lui, tutto gli
era dovuto.
Perché lui non sbagliava mai.
Giudicava, ma non accettava il
giudizio altrui, soprattutto se veniva dai figli: non ne avevano il diritto.
Era il suo modo di esercitare il
controllo, qualcosa su cui aveva affinato tutta la sua esperienza; la gestione
delle vite altrui.
Quelle della moglie e dei figli
in primis.
Diana sentiva che era per tutte
queste ragioni, che non riusciva ad amarlo...
le umiliazioni alla moglie, le
meschinità, le offese, l’incapacità che aveva di comprendere le aspirazioni dei
figli e di accettarne le scelte personali.
Il suo giudizio sempre negativo
su tutto quello che i figli facevano, che fosse la scelta della scuola o il
lavoro da intraprendere nella vita.
Il suo pensare tutto il male possibile di quei figli che lui non conosceva e non si sforzava di conoscere, perché non gli interessava.
La totale e assoluta sfiducia in
loro.
Tutto, tutto, tutto sbagliato.
Con tali premesse Diana avrebbe
potuto giustificarsi, eppure non ci riusciva del tutto. Non completamente.
Per questo aveva creduto che ci
fosse qualcosa di sbagliato in lei; così aveva pensato all’inizio.
Nonostante tutti i suoi difetti,
quell’uomo era pur sempre suo padre.
Lei avrebbe dovuto volergli un
po’ di bene se i legami di sangue contano qualcosa. Ma forse non contano, e
quasi tutto l’aveva spinta a pensare che l’amore non fosse incondizionato; non
riusciva a mentire a sé stessa e allo stesso tempo non voleva credere che quel
sentimento avesse una sfumatura d’odio.
Forse era un sentimento più
vicino all’ indifferenza, o forse neppure quello. Forse era soltanto una gran
rabbia.
Forse era incomprensione. Anche
verso sua madre a volte, che non si ribellava, che sopportava tutto. Perché?
Per i figli? Forse…
Per paura? Anche…
Forse Diana si rifiutava di
capire, o forse capiva anche troppo, in realtà.
Forse vedeva quello che gli
altri non vedevano: un uomo accecato da sé stesso. Tanto da credersi quasi un
dio.
Lei ricordava l’ironia con cui
loro, tra donne avevano imparato a reagire: per non piangere, ridevano di lui.
Padre nostro che sei sulla
terra, torna nei cieli e restaci!
Era un uomo severo suo padre. Ma
solo verso gli altri.
Suo padre sì, era perfetto…
Tutti gli altri erano niente; i
figli drogati o puttane, e la moglie una pezza da piedi.
Tutto a senso unico; il
rispetto, la comprensione, la fiducia. Tutte cose che suo padre pretendeva senza
sapere cosa fossero.
Lui non restituiva mai, perché
lui non doveva niente, ma gli altri gli dovevano tutto, anche il pane che
mangiavano.
E come era capace di farlo
pesare.
Io ti mantengo – diceva.
Diana ricordava la prima volta
in cui quella rabbia trattenuta per troppo tempo, era esplosa come se fosse
stata una bomba a orologeria.
Gli aveva urlato in faccia tutto
quello che pensava ed era stato come violentare sé stessa, ma lui era rimasto
quasi senza parole. Per la prima volta.
Ma era ancora lei che stava male
dopo; lei, la rabbia poteva solo tenerla dentro e trasformarla in
qualcos’altro, usarla come un’ energia per lottare e andare avanti.
Perché non voleva somigliargli –
era il modello da non seguire.
E aveva paura di essere simile a
lui.
Ma alla fine gli anni sono
passati per tutti, anche per suo padre.
Adesso è un vecchio che ha perso
molta della sua prosopopea che lo aveva contraddistinto per gran parte della
sua vita.
Diana è convinta che
sostanzialmente non sia cambiato; è un uomo che non ha mai saputo fare
autocritica e passa le sue giornate tra la casa e il bar dove lavora quella
figlia a cui aveva tentato di fare il lavaggio del cervello.
Diana a volte lo guarda e si chiede che cosa ha raccolto
nella sua vita; di tre figli, uno solo lo sopporta e lo accompagna a fare le
visite mediche di cui ha bisogno.
Lui diceva di non aver bisogno dei suoi figli.
Prega che sia così – gli aveva risposto quell’unico figlio
che pur scontrandosi, ancora gli parlava.
E Diana ancora si sente una
cattiva figlia; l’ultima volta che il padre ha avuto un infarto, non è voluta
nemmeno andare all’ospedale a trovarlo.
Sa che non è bello, ma non si
sente in colpa.
Diana sa solo ciò che sente.
O ciò che non sente.
Il muro è ancora alto e non sembra
cedere… forse…
Nella vita si raccoglie quello
che si semina, alla fine.
Lui ha seminato poco o nulla.
I suoi genitori vivono ancora
insieme, ma in stanze diverse.
Lui non fa più tanta paura, ha
perso le forze e la cattiveria.
La domenica, quando vengono i
figli a mangiare, apparentemente sembra tutto normale. Ma lui non parla più;
guarda tutto come fosse uno spettatore poco coinvolto.
Sembra una famiglia normale.
Secondo Diana non lo è mai stata.
Diana ora guarda sua madre; l’ha
sempre vista come una vittima, l’elemento più debole, ma aveva anche pensato
che fosse la più forte, perché aveva sopportato quello che lei non avrebbe mai
tollerato; la sua apparente docilità a volte l’aveva fatta arrabbiare.
Quanti perché…
Poi un giorno, qualcuno le aveva
detto che non c’è vittima che non voglia esserlo.
Lei stessa lo crede e c’era
quasi arrivata da sola.
Diana oggi sa che è vero.
Ma è una realtà difficile da
accettare e applicare a sé stessi.
O agli altri.
Perché è sempre più facile dare
le colpe a uno solo.
Lei spera ancora di riuscire a
perdonarsi…
Fine