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Autore: demoniopellegrino    28/10/2009    1 recensioni
Questo racconto (scritto con un incipit obbligato, in grassetto, e un numero di parole massimo imposto), descrive le sensazioni di un uomo che per l'ultima volta fa una cosa che l'appassiona, prima che la malattia glielo impedisca del tutto.
Genere: Generale, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ultima volta

 

Degli altri quattro sensi non c’era traccia. Tutto ciò che riuscivo a sentire era uno stucchevole sapore di glassa alla fragola. Era così ogni volta che scendevo dalla moto dopo un giro di centinaia di kilometri senza mai fermarmi: l’udito era annichilito dal suono del motore, che mi aveva bombardato per ore, basso e brutale; la vista doveva riacquistare consapevolezza dei contorni, mentre il cervello continuava a vedere una striscia d’asfalto grigia sfiorata da macchie indistinte. Anche il tatto era assente, annientato dal freddo e dal goretex dei guanti che impedivano qualsiasi sensazione.

 

Rimanevano pero’ il gusto, e il mio lecca-lecca alla fragola. Un rituale da quando avevo quattordici anni, e me ne andavo in giro con il Malaguti Fifty SH per i colli bolognesi. Fermarsi, scartare il lecca-lecca con le mani malferme, e ciucciare, lasciando al mio corpo il tempo di riappropriarsi di sè. Un giro in moto senza il lecca-lecca non era completo. Tutto qui.

 

Quella mattina ero partito prestissimo, alla ricerca di uno stordimento fisico che annientasse i miei pensieri ed ero saltato su Camilla, la mia Honda rossa, la mia vera compagna da ormai tanti anni. Faceva davvero freddo, e il mio abbigliamento tecnico non riusciva a tenere fuori il gelo tremendo. Ma ero contento, era esattamente quello che volevo. Anche se la tristezza di fondo permaneva.

 

La cena della sera precedente non aveva aiutato: conversazioni già sentite, già dibattute. Dieci, cento, milioni di volte. In anni che forse erano dieci, forse sono mille, ma sembravano appartenere ad altri. E l'immagine chiara, nitida: tirare la tovaglia, scaraventarla a terra, prendere a sberle metà dei commensali, risvegliarli dal torpore in cui sembravano caduti. Dal torpore in cui eravamo caduti tutti.

 

Non l’avevo fatto. Ci sarebbero stati troppi casini con Emanuela. Erano amici suoi, dopo tutto. Nostri, avrebbe detto lei. Non per molto. 

Ero andato a letto con una pioggia sottile che rifletteva e allo stesso tempo condizionava l'umore. E pensavo a Camilla, fuori, coperta da un telo del tutto incapace di proteggerla dalla pioggia, dai topi, dal fetore dei gatti. Per l’ultima volta.

 

Avevo dormito male, e mi ero alzato alle sei, tra le grida immediate di Emanuela, che mi accusavano di cose profondamente vere. Aperta la porta, avevo liberato Camilla dal telo. Mi aveva guardato, triste anche lei. Come se sapesse. Ma, senza domande, mi aveva sorriso in modo ammiccante, un’amante consapevole del suo ruolo, ignara nell’ultimo giorno "Prendimi, portami dove puoi godere di me...di me che ti appartengo, di me che sono tua e che solo posso essere tua".

 

Avevo avuto un senso di colpa lancinante. No Camilla, non oggi, avrei dovuto rispondere.  Oggi devo stare con Emanuela, Camilla, ché l'equilibrio per poter uscire con te oggi proprio non ce l'ho.

 

Ma non avevo resistito. Nonostante gli anni insieme, l’attrazione era ancora troppa, e il suo odore inebriava le mie narici. Le mie ginocchia avevano subito trovato posto nei suoi incavi, come le mani sui fianchi di una donna. Camilla mi aveva accolto borbottando allegramente con il suo motore brusco, ma gentile. Come aveva sempre fatto. E come non si sarebbe mai stancata di fare, se solo gliel’avessi permesso. Se solo avessi potuto permetterglielo. E mi aveva subito fatto capire che non avrei dovuto preoccuparmi di niente, che si sarebbe fatta carico lei di tutto. Io dovevo solo andare. Ed ero andato.

I kilometri erano passati, nel rumore sordo del motore, mentre i miei sensi mi abbandonavano. Sei ore ininterrotte, con l’obiettivo chiaro di riuscire a svuotare il cervello per riempirlo di vuoto. Con la scelta precisa di non mangiare, affinché la mente dovesse occuparsi anche della sensazione di fame fisica, e avesse meno risorse da dedicare ad altro.

E’ un gioco di strategia, ma alla lunga si puo’ vincere, si puo’ arrivare ad un punto dove l’unico elemento che occupa la mente è la posizione del piede sulla pedana, la posizione del corpo rispetto all’asfalto, il desiderio di piegare veloce, per capire se i tuoi limiti arrivino prima di quelli della moto, toccare le pedane per terra, consumare la ruota sui bordi. Anticipare sempre di più il momento in cui spalancare l’acceleratore in uscita di curva, fino a sentire la ruota posteriore sbandare, e vederla quasi affiancarti...Come fare sesso brutalmente, senza sentimento, con lei che ti lascia fare perché sa che comunque non le farai del male. Che ti fermerai un attimo prima.

Finendo il mio lecca lecca, le lacrime presero a rigarmi il viso, mischiando il salato al sapore di fragola. Guardai Camilla sorridermi. Mi avvicinai, per permetterle di abbraciarmi nell’alone caldo del suo motore.

 

Cominciai a singhiozzare.

 

Camilla non sapeva che questo era il nostro ultimo giorno insieme, che l’avevo venduta, e che sarebbero venuti presto a separarci, forse già stasera. D’altro canto il cancro che mi avevano diagnosticato non lasciava scampo. E il pensiero di Camilla da sola, venduta al primo stronzo dopo che me ne fossi andato, non mi dava pace.

 

Cullato dal suo calore, mi domandavo che ne sarebbe stato di lei. Su quello che sarebbe capitato a me, dubbi non me ne avevano lasciati.


  
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