Riemergendo dal sonno mi ritrovai
beatamente stesa su
un marmoreo e ghiacciato materasso, completamente avvolta da una spessa
coperta.
Avvertii il contatto con il corpo
di Edward, il suo
profumo, la perfezione dei suoi muscoli. Sentii, con il senso
dell’amore, la
sua aura perfetta.
La mia bocca si piegò
dolcemente in un sorriso.
Sereno, felice, luminoso. Nessuna traccia, neppure quasi il ricordo,
delle
emozioni vissute la sera precedente.
Sentii una mano sui capelli
accarezzarmi dolcemente.
Aprii gli occhi, ruotando
completamente e sistemandomi
seduta su di lui con gesti lenti ma fluidi, mentre la coperta in cui
ero
avvolta scivolava automaticamente accanto a noi. Era uno spettacolo, al
mattino
la sua visione per me faceva ancora parte del mondo dei sogni. Mi
faceva venire
voglia di restarmene tutto il giorno al letto, tentando di scaldare
quelle
labbra di ghiaccio e di spettinare ancor di più quei
morbidissimi capelli di
seta preziosa.
Dopo un po’ di tempo,
accertatosi forse che della
tristezza sul mio viso non c’era neppure l’ombra,
fece piegare le sue labbra
nel suo splendido mezzo sorriso prudente.
Avevo deciso: sarei rimasta a
letto! Mi chinai con
busto, fino a far avvicinare a pochi centimetri le nostre labbra.
«Nuova giornata di
studio?» mi chiese con la sua voce
tiepida, accarezzandomi un fianco con la punta delle dita.
Rabbrividii, facendo tremolare le
mie labbra
pericolosamente vicine alle sue. «No», alitai, fin
troppo vicina alla sua
bocca. Gli rivolsi uno sguardo famelico, poi sorrisi maliziosa.
«Oggi sia la
bambina - che non disturberà la mamma con le nausee -, sia
la mamma - che non
vede l’ora - si prenderanno cura del
papà» mormorai facendo coincidere i
profili delle nostre bocche.
Sentii la sua tendersi in un
sorriso, mentre lambivo
delicatamente il suo labbro inferiore, stringendolo forte dai capelli.
«Davvero?»
sussurrò roco, stringendo, con meno irruenza di me, il mio
volto, rallentando il
ritmo del bacio e aumentandone la passionalità.
Ansimai, scossa, rituffandomi su
quel tripudio di
bellezza. «Edward, ti amo» mormorai, scendendo con
le labbra a baciare il
collo.
Sentii il suo fiato freddo sulla
spalla. «Anch’io
Bella, anch’io» mormorò roco, baciandomi
anche lui.
Quando i baci non mi bastarono
più, infilai le mani
sotto la sua maglietta, ripercorrendo gli addominali scolpiti con
movimenti
veloci e febbrili e beandomi del freddo che mi donava, ma che comunque
non
bastava a contrastare il caldo che sentivo crescere dentro. Poggiai la
fronte
sulla sua spalla, ansimando infastidita. «Ho… ho
caldo…» mi lamentai.
Sentii le mani di Edward sui bordi
della maglietta del
pigiama, e poco dopo mi ritrovai senza.
Lo ringraziai con un sorriso,
riprendendo la mia opera
di adorazione della sua pelle centimetro per centimetro. Poi lasciai
che
invertisse le posizioni e che si prendesse cura di me. Scese con la
bocca a
lambire il decoltè.
Ansimai, reclinando il capo. Solo
ora che lo stavo
vivendo mi accorgevo come si mancassero quei momenti fra di noi. E
comunque non
saremmo potuti andare molto lontano…
Si bloccò ad un mio
gemito, per un attimo spaventato.
«Ti… ti ho fatto male?» mi chiese
ansante e roco, spostando la mano dal lato
del mio seno, dove albergava fino a qualche istante prima.
La bloccai con la mia, riportandola
al suo posto.
«Continua» biascicai, baciandolo.
Dopo qualche istante, prudente,
ricominciò a lasciarsi
andare e ad accarezzarmi con più attenzione, fino a
ritornare al ritmo iniziale.
Ero così coinvolta dal
tornado di emozioni, che quasi
non mi resi conto dello stridente senso di nausea che in pochissimi
istanti
prese il sopravvento. Mi defilai velocemente dalla sua presa,
nascondendo il
seno con un braccio e coprendomi la bocca con l’altro.
Sputai i succhi gastrici, unico
contenuto del mio
stomaco, nel lavandino, sentendo immediatamente la presenza di Edward
dietro di
me. Mi avvolse nella coperta, aspettando che mi sciacquassi la bocca.
Sbuffai, infilando la maglietta del
pigiama e lasciandomi
poi andare sul suo petto. Ormai il “bacio del
buongiorno” era stato rovinato. «Bimba
cattiva» mormorai, accarezzandomi la pancia.
«No, non la
rimproverare» fece Edward, posando una sua
mano sulle mie. Poi si piegò, fino a trovarsi con la testa
all’altezza del
ventre. «Sono papà e la mamma che fanno i monelli,
vero?».
Sembrava così
tranquillo, rilassato, senza neppure una
traccia del malumore che ci aveva vinto il giorno precedente. Annusai
l’aria,
come se l’aroma della felicità fosse percepibile.
Se ancora qualcosa lo turbava
avrei aspettato che si confidasse a me, come sua moglie. Volevo che mi
vedesse
abbastanza forte da poterlo aiutare. Sollevò il viso sul
mio, notando che lo
stavo osservando. Mi sorrise. «Stai bene?».
Annuii. «Sì,
meglio di ieri, è tutto passato. E tu?»
mi feci coraggio a chiedergli.
Sospirò, sollevandosi ad
osservarmi. «Io cosa?».
Gli carezzai i capelli.
«So che ieri è stato difficile
ciò che ha detto mio padre, ma tu non ti lasci mai scalfire
da ciò che pensa la
gente, insomma… se dovessi farti influenzare da tutti i
pensieri che senti»
borbottai, non riuscendo neppure ad immaginare quando fosse difficile
per lui.
Fece spallucce.
«Quindi?».
Lo fissai, seria. «Dimmi
che non ci hai pensato».
«A cosa?»
domandò innocentemente, ma sapevo che aveva
capito.
Incrociai le braccia al petto.
«Al fatto che potessero
avere ragione. Che questa bambina sia di Jacob».
«No» rispose troppo velocemente.
«Oh,
Edward…».
Sospirò, portandosi le
mani alla testa. «Solo per una
frazione di un secondo, neppure il tempo di battere le
palpebre».
«Ma ti ha fatto molto
male» dissi preoccupata,
carezzandogli una guancia.
Si lasciò andare contro
la mia mano. «Quando
all’inizio pensavamo che fosse suo mi ha distrutto
più che altro per l’idea di
quello che poteva averti fatto. Ma avrei accettato un bambino anche se
fosse
stato suo figlio. Però all’epoca non avevo mai
pensato all’idea di essere
padre, di avere una famiglia mia. Adesso, invece» sorrise
debolmente,
carezzandomi appena la pancia «non posso neppure pensare che
mi possa rubare
mia figlia».
«Non
può» tentai di convincerlo
«perché è tua figlia».
«Lo so»
mormorò, chiudendo le palpebre.
Cacciai un fiato. «Cosa
dobbiamo fare ancora? C’è la
pelle gelida, l’ecografia con quella strana membrana, le
ecografie normali di
Emily. E poi» aggiunsi, lasciandogli un bacio a fior di
labbra «chi se non tua
figlia avrebbe cercato quasi di dissanguarmi appena una settimana
fa?».
Sorrise amaramente, riaprendo gli
occhi. Era già stato
abbastanza difficile accettare l’idea che avesse la forza di
farmi del male e
mandare avanti la gravidanza nonostante tutto. Come potevamo mettere di
nuovo
tutto in discussione?
«Ehi» soffiai
sulle sue labbra «se ne hai bisogno sono
pronta a fare quel test invasivo di cui parlava Carlisle. Voglio che tu
stia
bene».
«Davvero?»
domandò scrutandomi «quello che si fa con
quell’ago di 15 centimetri conficcato nella
pancia?» fece, e quando rabbrividii
capii dal sorriso che non riuscì a nascondere che mi stava
prendendo in giro.
«Volevi farmi vomitare
ancora, vero?» deglutii,
pallida.
Ridacchiò, stemperando
l’atmosfera. «No, Bella.
Davvero. Non mi serve alcun test rischioso per te e la bambina per
sapere che
questa piccola succhiasangue
è mia figlia. Andiamo,
così potrai fare colazione e prendere le tue
medicine».
«Urrà»
scherzai, lasciandomi guidare da lui verso la
cucina, felice di essere riuscita a parlare dei nostri sentimenti con
mio
marito.
«Allora, vuoi
studiare?» mi chiese più tardi,
concentrato ad intrecciare le sue dita con le mie.
Finii di bere il mio latte.
«Non so, hai una proposta
migliore?» rilanciai.
Fece spallucce, scuotendo il capo.
Poi si portò la mia
mano con cui stava giocando alle labbra e chiuse gli occhi.
Per come avevo organizzato il
programma di studi avevo
deciso di potermi permettere due giorni di riposo alla settimana. Ora
capivo,
dall’esperienza del giorno precedente, che almeno in questo
periodo avrei
dovuto rallentare un po’ il ritmo. Sia perché non
ero più abituata, sia perché
avevo capito che Edward aveva bisogno che mi dedicassi a lui. Volevo
mettere un
po’ di ordine intorno a me.
Mi sollevai, prendendo con me la
tazza. La presa di
Edward si strinse intorno alla mia mano e prima che me ne rendessi
conto mi
trovai seduta sulla sedia senza più la tazza fra le mani.
«Ehi» mormorai
risentita, squadrandolo mentre
sciacquava la tazza nel lavello.
«Stai troppo tempo in
piedi, l’ha detto anche
Carlisle. Riposati» disse tranquillo.
«Ma dai!». Mi
lasciai andare sul tavolo, sbuffando. «Domani
faremo i controlli e poi… finalmente…».
Comparve di nuovo davanti a me.
«Finalmente niente. Bella,
lo sai che anche se risultasse che va tutto bene dovrai ricominciare
con calma,
senza strafare. È una gravidanza difficile, tu sei stanca e
provata e ci sono
molte cose che potrebbero metterci in difficoltà
e…».
Smisi di ascoltare le sue idiozie e
mi ritrassi,
accucciata, sul tavolo, fissandolo con aria di sfida e imitando un
piccolo
ruggito.
Sulle sue labbra comparve un
sorriso sghembo. «Ma che
bel micio» scherzò. Poi in un secondo si
accucciò in posizione d’attacco -
molto più elegante di quella che avevo assunto io - e fece
un vero ruggito coi
fiocchi, che mi fece sobbalzare spaventata.
«Accidenti»
biascicai, portandomi una mano al cuore,
mentre intanto se la rideva di gusto.
Andai a cambiarmi, indossando
indumenti comodi e
larghi. Ruotai, osservandomi allo specchio. Era evidente come i fianchi
fossero
più larghi e la pancia lievemente più
pronunciata. E poi… c’era stato un
notevole aumento di volume sul seno e sul sedere. Chissà se
la cosa dispiaceva
a Edward…
Arrossii, ripensando a quella
mattina. Non credo gli
dispiacesse.
Decidemmo di passare la mattinata a
fare una torta. O
meglio. Lui faceva la torta e io l’osservavo e lo guidavo
nell’opera, comodamente
seduta sullo sgabello della cucina. Non appena dimostravo
l’intenzione di alzarmi
o per afferrare un oggetto, o per andare a fare qualcosa, subito mi
precedeva,
interrompeva la produzione della torta e lo faceva lui per me.
Ma come faceva ad accorgersene
sempre? Stupidi sensi
da vampiro. Tuttavia mi
sentivo estremamente felice. Ogni
cosa era un gioco, uno scherzo, un motivo per ridere. Mi sentivo serena
e
capace di riflettere lucidamente.
Risi. «Basta, basta ti
prego! Non ce la faccio».
Fermò e sue dita che mi
stavano solleticando sui
fianchi. «Ritratta quello che hai detto»
m’intimò scherzoso.
«Non
sembri
un vecchietto» biascicai, osservando i suoi capelli sporchi
di farina e
tentando di contenere un’altra ondata di risate.
Lui notò la mia
espressione e fece per ricominciare a
solleticarmi, ma lo presi in contropiede e misi le mie dita sui suoi
fianchi.
M’imbronciai quando non rise. «Ehi! Ma non
è giusto! Non dirmi che i vampiri
non soffrono il solletico!».
Sghignazzò.
«No, non sono i vampiri che non lo
soffrono, sono io!» esclamò, ricominciando la sua
opera.
Dopo pranzo decisi di andare a
riposarmi un po’. La
felice mattinata mi aveva stancato abbastanza, e ancora non ero
riuscita a
togliermi l’abitudine di dormire nel pomeriggio. Mi
accoccolai meglio fra le
coperte, stringendomi il morbido cuscino e scivolando nel mondo dei
sogni senza
incubi.
A svegliarmi fu Edward e
l’aroma della nostra torta.
Fiutai l’aria,
stiracchiandomi. «Mmm,
che profumo» biascicai «che fame»
sbadigliai.
Incontrai i suoi occhi ambra.
«Cosa aspetti ad andare
a prenderne una fetta?» mi chiese con un sorriso.
Mi umettai le labbra, mettendomi
seduta e osservando
le coperte sparse attorno a me in maniera del tutto irregolare. Avrei
dovuto
cambiare le lenzuola…
«Vai, ci penso
io!» scherzò dandomi una pacca sul
sedere.
«Davvero?».
Sorrise.
«Certo».
«Grazie» dissi
velocemente, lasciandogli un
altrettanto rapido bacio sulle labbra e correndo in cucina, ansiosa di
assaggiare quella golosità.
Trovai la torta farcita e decorata
sul ripiano. Con
l’acquolina in bocca afferrai un coltello. «Amore
scusa» dissi, alzando
inutilmente la voce affinché mi sentisse «sai che
lo farei io, ma visto che non
ho i super-poteri e quella che si sta beccando la gravidanza vampira
con nausea
inesauribile sono io» lo schernii, tagliando la fetta di
torta «beh, sarebbe
uno spreco che lo facessi io, visto che tu ci impieghi un terzo del mio
tempo»
feci, sistemandola sul piattino «non trovi?!».
Afferrai il cucchiaino e lo misi
sul piattino, avviandomi in soggiorno in attesa di una sua sagace
risposta.
Dopo tre passi mi resi conto che
non avevo preso un
tovagliolo, così mi voltai, facendo per ritornare indietro.
Inavvertitamente il
piattino mi scivolò dalle mani, cadendo a terra e
frantumandosi in più pezzi.
Aprii la bocca, sconcertata.
Il rumore si ripeté
nelle mie orecchie ancora. Diverso.
E un’altra volta. Come l’eco lontano
di un suono già sentito. Diverso.
Contemporaneamente Edward comparve
dinanzi a me,
osservando prima la mia espressione e poi il piattino, scoppiando a
ridere. «Era
troppo tempo che la tua goffaggine non si faceva sentire»
biascicò fra le
risate.
Sentii le sue parole come se fossi
immersa nell’acqua.
Poi, inevitabilmente, singhiozzai.
Immediatamente smise di ridere,
facendosi serio. «Tesoro,
su, non fare così. Stavo scherzando» mi disse
gentilmente, come se si sentisse
in colpa.
Piansi più forte.
Una ruga comparve sul suo volto,
mentre mi prendeva le
mani fra le sue. «Bella? Dai, mi dispiace. Non è
successo nulla, davvero».
Vedendo che non la smettevo di piangere si piegò a terra e
raccolse i cocci del
piattino, pulendo poi i residui di panna. Mi fissò con un
sorriso, come se quel
gesto potesse farmi smettere. «Ecco, vedi, sta’
tranquilla. È tutto a posto
ora» sussurrò dolcemente.
Singhiozzai, facendomi stringere
dalle sue braccia e
lasciando liberamente scivolare le lacrime, senza intenzione di
smettere.
«Shh,
shh,
forza». Edward mi strinse forte e non disse nulla per un
po’, ma poi, notando
che i miei lamenti si facevano sempre più acuti, si
liberò dalla mia debole e
inconsistente presa, fissandomi negli occhi. «Bella.
Cos’hai?».
Non risposi, continuando a
piangere.
«È per la
torta? È per quello? Te ne prendo un’altra
fetta, ce n’è una intera» fece, cercando
contemporaneamente una causa più
plausibile. «È per il piattino? Ce
n’è un’altra confezione identica ancora
intatta, ne puoi rompere quanti ne vuoi! Amore… dimmi
cos’hai!».
Singhiozzai, scossa dal pianto.
Mi mise un braccio intorno alla
schiena, sorreggendomi
e tenendomi le mani con l’altro. «Hai dolore? Ti
senti male?» mi chiese
ansioso.
Mi resi conto che la sua
preoccupazione stava
crescendo senza controllo, così come il ritmo del mio
pianto. Ma come avrei
potuto rispondergli, se non sapevo neppure io da dove era giunta quella
tristezza che mi stava man mano affogando sempre più?
«Bella, tesoro,
rispondimi, ti prego» fece, posando
una mano sul ventre, agitato. Poi la passò sulla mia fronte
e sul polso,
tentando di individuare la causa del mio pianto.
Mi sentivo completamente in balia
della tristezza,
spaventosamente simile a quella che avevo provato il giorno precedente.
Con la
differenza che, questa volta, mi sentivo come costretta a sfogare il
dolore
attraverso le lacrime. Come se quella fosse l’unica via
possibile per
liberarmene.
Ma era come voler svuotare un fiume
con una cannuccia.
Un’impresa titanica.
Sentii le sue mani fredde intorno
al viso. «Bella, te
ne prego, te ne prego, rispondimi. Ti senti male? Cosa ti fa
male?» mi chiese
ancora, sempre più agitato.
Non so come, in
quell’immensa balia, riuscii a trovare
la forza di reagire. Forse aggrappandomi a un altro tipo di dolore.
Quello
derivato dall’angoscia nelle sue parole.
Scossi il capo, breve ma
determinata.
Fece un sospiro, stringendomi forte
contro il suo
petto. Poi mi posò le mani sulle spalle, allontanandomi per
guardarmi negli
occhi. «Tesoro» cominciò, più
lentamente «prova a calmarti. Qualunque cosa tu
stia provando in questo momento non è reale. Calmati, ti
prometto che passerà»
disse, pensando che fosse un ennesimo attacco di panico.
«N-no»
singhiozzai, soffocata dal pianto «non ci
riesco».
Vidi la sua espressione contrarsi.
«Shh,
sì che ce la fai, sei bravissima e ce la fai. Su,
avanti, respira piano, piano, non è difficile.
Calmati».
Provai a imporre la mia
volontà, a fare come diceva, ripetermi
che lui era in grado di calmarmi e che presto sarei stata meglio.
Respirai a
fondo, fra i singhiozzi, respingendolo. Inaspettato fu quello che
accadde.
Ritornò su con lo stesso vigore e la stessa potenza con cui
l’avevo mandato
via. Non funzionò. Perché per qualche strano
motivo sentivo che non era come le
altre volte.
«Oh, Bella»
mormorò afflitto, ritornando ad
abbracciarmi e a cullarmi. Vedevo il dolore sul suo volto al pensiero
che stavo
di nuovo male, che i miei attacchi di panico erano ritornati a
tormentarmi, ed
insieme vedevo la determinazione e la pazienza di volermi aiutare.
«N-non ce la
faccio» singhiozzai più forte, riprovando
a scacciare la tristezza. Quella, rispondendo con la stessa energia,
tornò ad
affliggermi. Ogni tentativo di liberarmene era vano. Era come se stessi
spingendo una grossa molla; quanta la forza impiegata per comprimerla,
tanta
era quella con cui rispondeva, distendendosi.
Alla fine, Edward, esasperato, mi
prese per la vita,
tenendomi stretta. «Bella, non va bene che ti agiti
così. Pensa alla bambina».
«M-mi dispiace»
piansi, disperata. Esasperata tentai
ancora di scacciare la tristezza, inutilmente.
«Accidenti»
mormorò, serrando la mascella, afflitto. Mi
prese fra le braccia e mi portò in un istante in camera da
letto, stendendomi
fra le coperte pulite. Mi baciò le mani, la fronte, le
labbra. Mi cullò in
silenzio, aspettando pazientemente che i miei lamenti si calmassero,
come
avevano sempre fatto in tutti quei dannati attacchi di panico che mi
avevano
tormentata nell’ultimo mese.
Il mio pianto era forte, doloroso.
Un pianto sonoro e
disperato, che si assopisce solo nella spossatezza.
Ma la stanchezza non arrivava.
«Bella, amore, ti prego.
Stai piangendo da un’ora. Dimmi cosa senti, posso aiutarti.
Passerà anche
questa volta».
«M-mi sento
così t-triste» piansi stanca. Avevo gli
occhi rossi e gonfi e mi sentivo terribilmente intontita.
«Per cosa?» mi
domandò afflitto «cos’è
successo? Ho
fatto qualcosa di sbagliato?».
Scossi il capo. «Non lo
so» singhiozzai, piegandomi su
me stessa. Non riuscivo e non potevo pensare a cosa mi stesse
accadendo. Mi
sentivo totalizzata dalle emozioni che sentivo, ma se fosse stato un
attacco di
panico sarebbe stato di sicuro il più lungo e doloroso della
mia vita.
Ricominciò a cullarmi,
agitato, scostandomi i capelli
dalla fronte. Infine si
staccò da me, facendo per
alzarsi.
Piansi, ancora più
forte, stringendo con tutta la
forza che avevo la sua camicia. Non volevo andasse via. Non poteva. Non
doveva.
Questo lo sentivo dentro me. L’istinto di averlo accanto.
Mi fissò, sbalordito
della mia faccia disperata. Poi
si sedette nuovamente sul letto, prendendomi fra le braccia.
«Non vado via, sto
qui. Non ti preoccupare» mormorò, baciandomi la
fronte.
Mi portò con
sé in soggiorno, per prendere il
telefono. Poi mi mise sulle sue gambe, sedendosi sul bordo del letto e
facendomi poggiare la testa sul suo petto. Non smisi mai di piangere.
Compose velocemente un numero al
quale risposero
brevemente. A causa dell’intontimento, dal rumore assurdo
causato dal mio
pianto, e dalla velocità con cui parlava, colsi solo alcune
parole. Avevo
capito che Edward cercava Carlisle.
«Esme…
no… sì, non so…» mi rivolse
un’occhiata, «Sì. Sì,
ti aspetto». Chiuse la comunicazione e riprese a cullarmi,
cancellando,
inutilmente, le lacrime che ormai mi inondavano tutto il volto, fin sul
collo.
Trasalii quando sentii bussare alla
porta della
camera. Vidi il volto dolce mi Esme che mi fissava. Si sedette sul
letto, accanto
a Edward, con movimenti lenti e umani. Poi prese ad accarezzarmi la
fronte. «Cos’è
successo?» chiese con calma a lui.
Sospirò, esasperato.
«Non so. So solo che le è caduto
il piattino con la torta e poi ha iniziato a piangere. Non riesco a
capire».
Singhiozzai, nascondendo il volto
sul suo petto e
lasciando che continuassero a parlare a velocità non udibile
per le mie
orecchie umane.
«Amore» fece
Edward richiamando la mia attenzione «Esme
ti ha portato le tue compresse. Presto starai meglio».
Scossi il capo fra i singhiozzi
inconsolabili. «N-non
è c-come le altre vol-te.
N-on v-voglio
ricomincia-re».
Posò il mento sulla mia
fronte, cullandomi avanti e
indietro, freneticamente. «Non è colpa tua Bella,
non è colpa tua. Ma adesso
devi stare meglio, capisci? Stai troppo male, troppo. Non riesco ad
aiutarti in
altri modi».
Mi lasciai andare fra le sue
braccia, disperata. Mi
sentivo così sconfitta da me stessa e da quello che stava
succedendo alla mia
mente ed al mio corpo senza che potessi controllarlo.
Sentii una mano fredda sulle mie.
«Tesoro, stai
tranquilla. Ti porto le tue compresse e una camomilla, torno
subito» fece
infine con un sorriso rassicurante.
Mi fidai di Edward. Tremante mandai
giù due compresse,
il doppio della dose che avevo preso ultimamente. Nonostante tutto, i
fremiti e
i singhiozzi, riuscii sorso dopo sorso a bere la mia camomilla,
sperando e
volendo che mi facesse smettere di piangere.
Non funzionò.
Né la camomilla né gli antidepressivi mi
diedero alcuna sorta di sollievo. L’esasperazione aveva
raggiunto livelli
incredibili. Mi faceva male la testa, come se dentro ci fosse un
martello
pneumatico. Tremavo come una foglia, in balia dei fremiti.
«Carlisle? Fra quanto
tempo arriverà?» domandò Edward
fra i denti.
«È ancora in
sala operatoria» gli rispose Esme «ora
provo a richiamarlo, ma calmati. Se tu ti agiti lei sta
peggio».
Volevo solo liberarmi del pianto.
Della tristezza. Del
dolore. Non ce la facevo più.
Dopo un po’ sentii le
voci confuse degli altri.
Rosalie, Emmett, Alice, Jasper.
«Jasper,
finalmente» sospirò Edward preoccupato.
Il mio fratello vampiro mi
fissò sconvolto, facendo
passare lo sguardo da me a Edward, colpito quanto lui. «Non
ho mai sentito
tutto questo dolore» farfugliò esterrefatto.
«Ti prego, fa’
qualcosa» fece Edward, colpito dalla
profondità del mio dolore.
Annuì, avvicinandosi.
Sentii una mano sulla spalla e
tentai di soffocare
quello che pensavo sarebbe stato l’ultimo singhiozzo. Ma la
tanta agognata
quiete non arrivò. Com’era possibile?
«Non ci riesco»
mi voltai fino a fissare la sua
espressione sgomenta, simile a quella che c’era sul volto
degli altri e anche
di Edward. «Edward, non è come al
solito» disse serio, studiandomi «Non è
un
normale attacco di panico» fece a voce bassa, come se gli
facesse male starmi
accanto.
«Cos’è
allora?» chiese preoccupato, stringendomi più
forte.
«Non è paura.
Sento così tanto dolore» sussurrò,
serrando le palpebre.
Edward si chinò a
cancellare le nuove lacrime,
baciando le guance, nel vano tentativo di calmare i sempre nuovi
singhiozzi.
«Può essere
una crisi d’astinenza?» domandò
preoccupato a Rosalie.
«È
strano» fece in difficoltà, studiandomi
«è stata
bene per quasi due settimane. Quanto le hai dato di sertralina?».
«100
milligrammi».
Rosalie mi studiò,
preoccupata. «Diamogliene altri 100»
propose.
Edward sospirò,
contrariato. Non prendevo quella dose
da quasi un mese. «Non voglio mandarla in
overdose».
«Edward»
provò a convincerlo «non vedo altre
soluzioni».
Sospirò, poi
annuì seccamente. Avvicinò la bocca al
mio orecchio. «Te la senti? So che non vuoi ricominciare, ma
abbiamo bisogno di
aiutarti in qualche modo, va bene?».
Singhiozzai, non sapendo cosa
rispondere.
Mi strinse più forte.
«Ti prometto che starai meglio»
fece disperato, non riuscendo più a credere neppure alle sue
parole.
Mi lasciai convincere a prendere
altre due compresse,
ma non cambiò, ancora, nulla. Iniziai solo a tremare
più forte e sentii il
cuore battere più veloce, mentre il dolore rimaneva
lì, schiacciandomi e
sovrastandomi con il suo peso.
«Com’è
possibile che non abbia funzionato?» chiese
Esme preoccupata. Mi carezzò la fronte «Ha un
po’ di febbre».
Edward posò la guancia
contro la mia fronte, ma anche
quel piccolo sollievo non riuscì a farmi stare meglio.
«È stremata».
«Tu non vedi
niente?» chiese Rosalie ad Alice.
Lei scosse il capo, afflitta e
disorientata. «No, mi
dispiace. Non ho mai avuto un buco nero così lungo su di
lei».
Piansi di più.
Disperata, esasperata. Sull’orlo di
ogni sopportazione.
«Edward, falla venire da
me, le posso parlare» propose
Rosalie sottovoce, aprendo le braccia come per accogliermi.
Mi strinsi con tutta la mia forza a
Edward, nonostante
tutto, determinata a non lasciarlo andare per nessun motivo al mondo.
Lui sospirò, baciandomi
la fronte. «Non vuole» disse,
scuotendo la testa. Mi sollevò in braccio, adagiandomi fra
le lenzuola e
prendendo ad accarezzarmi la schiena, tentando un altro modo per farmi
smettere
di piangere.
Esme era al telefono. Alice,
invece, stava seduta per
terra, tenendosi due mani sulle orecchie per non sentire i miei lamenti
acuti e
insistenti; accanto, Emmett, come lei in impaziente e sconfortata
attesa. Vidi anche
Jasper, in un angolo, con la testa fra le mani, concentrato su
qualcosa.
«Ti prego»
gemette Edward dopo un po’, volgendosi
verso Jasper «non posso vederla così e sentire il
suo dolore. Non ce la
faccio».
Jasper si alzò in piedi
e annuì velocemente. Alice si
strinse al suo braccio. «Ci allontaniamo. Saremo abbastanza
vicini da venire
subito per ogni evenienza» fece, avvicinandosi a lasciarmi
una lievissima
carezza, triste.
Edward annuì, il viso
addolorato. «Grazie». Sentii la
presa di mio marito farsi più salda e protettiva.
«Vi prego»
singhiozzai sfinita «f-fate qualcosa».
Edward irrigidì la
mascella, disperato ed impotente.
«Dov’è Carlisle?»
domandò fra i denti.
«Edward, è
inutile, non risponde» disse Esme.
«Continua a
provare» sbottò agitato.
Annuì, riprendendo il
telefono e scomparendo
velocemente nel soggiorno.
«Non c-ce la
faccio» singhiozzai roca «v-vi prego».
«Shh,
lo so, lo so. Hai
ragione» tentò di consolarmi Edward.
Rosalie, con un fazzoletto, mi
asciugò le lacrime. «Tesoro,
te la senti di parlarmi? Di dirmi cosa provi? Potrebbe
aiutarti».
«N-no» piansi,
il petto dolente per i singhiozzi senza
fine.
La sorella lo guardò,
preoccupata.
«Sono più di
due ore» fece Edward, rispondendo alla
sua domanda mentale.
Singhiozzai, strofinando il volto
sulla sua camicia
ormai zuppa.
«Che ne dici se provi a
farla dormire un po’? Potrebbe
funzionare» propose Rosalie.
In effetti, mi sentivo esausta.
Quasi priva di forze. Ma
per quanto ne sapevo, non sarei riuscita ad addormentarmi facilmente.
Annuii,
disposta a qualunque cosa per stare meglio.
Edward, mi prese in braccio,
sollevandosi in piedi,
mentre Rose chiudeva tutte le tende per far cadere la stanza nella
penombra. Prese
a cullarmi, avanti e indentro per la stanza, canticchiandomi la mia
ninnananna.
Emmett e Rosalie uscirono, sperando che così sarei riuscita
ad assopirmi.
Il pianto, strascicato e stremato,
come da me
previsto, predurava,
senza darmi tregua. Era come una
necessità. Una necessità, un istinto dal quale
non potevo sfuggire.
Mi avvolse nella coperta,
ricominciando a cullarmi. «Amore,
non piangere, ci sono qui io con te. Ti prometto che
passerà. Non piangere. Mi
uccide vederti così. Scopriremo presto cosa sta succedendo,
te lo prometto»
sussurrò, baciandomi la punta del naso, bagnata anche
quella.
Non volevo fargli vedere la
profondità della mia
disperazione perché sapevo quanto lo facesse soffrire, ma
non sapevo come fare
altrimenti.
Infine sentii i muscoli di Edward
rilassarsi, mentre
sospirava. Dopo pochi secondi
la porta si aprì,
facendo entrare Carlisle, insieme a un po’ di luce.
«Ti prego
Carlisle» fece Edward, guardando il padre e
sedendosi sul letto con me su. «Fa’
qualcosa».
Carlisle annuì, serio,
prima di rivolgermi uno sguardo
rassicurante. «Quanto tempo fa le hai dato la sertralina?».
«L’ultima dose
quasi un’ora fa. Le ho dato 200 mg in
tutto, pensavo che fosse una crisi d’astinenza. Non mi sembra
un normale
attacco di panico, non riesce a calmarsi con nulla».
Mi esaminò gli occhi, il
battito, l’addome. «Altri
sintomi?».
«M-mi sento
c-così male. T-ti prego» singhiozzai,
stringendogli
una mano.
«Bella, ti faremo stare
meglio, lo prometto» disse
rassicurante, guardandomi negli occhi e ricambiando la mia presa.
«Ha vomitato appena
sveglia e prima aveva mal di
testa. Ora ha un po’ di febbre, è stremata. Ma
è stata perfettamente tranquilla
per tutta la mattina» fece frustrato «Carlisle,
anche ieri sera, quando siete
andati via, era triste. Diceva di avere uno strano presentimento. Mai
poi
stamattina sembrava tutto passato. E poi questo,
all’improvviso. Perché?».
«Potrebbe essere una
crisi d’astinenza, ma è strano. E
comunque adesso avrebbe dovuto stare già meglio, anche con
il potere di Jasper.
Mi sorprende che non abbia funzionato. Proverò a
somministrarle una
benzodiazepina» convenne infine.
Tremai, stremata e disorientata,
sentendo il profumo di
Edward. Piansi a pieni polmoni quando sentii il doloroso contatto con
l’ago.
La presa di Edward si fece
più stretta per impedirmi
di muovermi. «Shh,
è quasi finito, non è niente. È
quasi finito» mi sussurrò ad un orecchio,
rassicurandomi.
Rimasi a piangere, ancora, sulla
sua spalla. Ero
talmente intontita che a fatica distinguevo i contorni delle persone,
le cose. La
razionalità era quasi del tutto scomparsa. Quasi a stento
capivo dove mi
trovavo. Ma non mi addormentavo, e non smettevo di piangere.
Quello, e l’istinto di
avere Edward accanto, mi
dominavano completamente.
Sentii di nuovo le voci, nella
camera.
«Non avrebbe dovuto fare
già effetto?» chiese Edward,
preoccupato.
«Avrebbe
dovuto».
Sentii una mano ghiacciata sulla
fronte. «Povero
tesoro» sussurrò Esme.
Mi sentii scuotere una mano e vidi
il volto di Emmett
che mi fissava a disagio. «Bellina, cara. Sai che ci stai
spaccando i
timpani?».
Sapevo che
quell’osservazione era stata fatta con
tutta l’intenzione di farmi ridere, ma scatenò
l’esatto effetto contrario.
«Emmett, sei uno
zuccone» lo rimproverò Rosalie,
mentre Edward tentava di calmare la perennemente nuova ondata di
lacrime e di
singhiozzi.
«Jasper?»
chiese Carlisle.
«Si sono allontanati. Non
riusciva a pensare qui
dentro, e neppure io» replicò Edward stentoreo.
Mio suocero mi guardò,
preoccupato. «Richiamiamolo.
Non so cosa altro fare, vale la pena che lui faccia un altro tentativo
dopo le
benzodiazepine».
«Vado io» fece
Esme, scomparendo nel soggiorno.
Jasper e Alice tornarono presto da
noi come avevano
promesso. Alice non aveva ancora visto nulla e Jasper era sconvolto
dalla nuova
ondata di disperazione con cui lo investii.
«Non funziona. Non so
cosa fare, mi dispiace» mormorò
sconfortato.
Sapevo che stava sentendo tutta la
mia sofferenza e mi
dispiaceva davvero tanto. Impulsivamente mi voltai verso mio marito,
tendendo
le braccia verso di lui per farmi prendere in braccio.
Con un sospiro mi strinse
nuovamente al suo petto.
«Accidenti, Bella. Sembri
una bambina» borbottò
Emmett, ancora imbronciato per il rimprovero della moglie.
Vidi, attraverso le lacrime,
l’espressione di Jasper
mutare in sorpresa come se finalmente avesse avuto
un’illuminazione.
Edward, sotto di me,
s’irrigidì. «Cos’è
Jasper?»
chiese velocemente.
Sfregai il viso contro la camicia
di Edward, stringendo
maggiormente i pugni sulla stoffa in una disperata richiesta
d’aiuto.
«Io,
credo…» mormorò Jasper sorpreso.
Mio marito lo guardò,
sconvolto quanto lui. «Provaci.
Ti prego, provaci».
«Cosa sta
succedendo?» domandò Rosalie sorpresa.
Jasper si avvicinò con
estrema cautela, come se ogni
centimetro più vicino a me fosse un centinaio di volte
più doloroso. A
differenza di quello che aveva fatto prima non posò la mano
sulla mia spalla.
Edward sollevò la mia
maglietta di qualche centimetro,
quanto bastava per scoprire la pancia.
Jasper, cautamente, posò
la punta di un dito sulla mia
pelle nuda.
Sentii uno stranissimo fremito
attraversarmi, e i miei
singhiozzi si fermarono per un attimo, sconvolgendomi, per riprendere
immediatamente appena Jasper sollevò la mano.
«Jasper»
sibilò Edward sconvolto.
Si fece coraggio, e posò
la sua mano completamente
sulla mia pancia fredda. Mi sentii improvvisamente investire da
un’ondata
calda, poi fu come se tutte le terribili emozioni che mi stavano
schiacciando
venissero improvvisamente risucchiate via, lasciandomi pallida e
intontita.
Mi sentii come se mi avessero
risucchiato via tutta
l’aria dai polmoni contemporaneamente, così feci
un respiro profondissimo,
senza fiato.
Poi tutte le immagini divennero
appannate e nel giro
di un paio di secondi si fece tutto buio.