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Autore: keska    29/10/2009    37 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Riemergendo dal sonno mi ritrovai beatamente stesa su un marmoreo e ghiacciato materasso, completamente avvolta da una spessa coperta.

Avvertii il contatto con il corpo di Edward, il suo profumo, la perfezione dei suoi muscoli. Sentii, con il senso dell’amore, la sua aura perfetta.

La mia bocca si piegò dolcemente in un sorriso. Sereno, felice, luminoso. Nessuna traccia, neppure quasi il ricordo, delle emozioni vissute la sera precedente.

Sentii una mano sui capelli accarezzarmi dolcemente.

Aprii gli occhi, ruotando completamente e sistemandomi seduta su di lui con gesti lenti ma fluidi, mentre la coperta in cui ero avvolta scivolava automaticamente accanto a noi. Era uno spettacolo, al mattino la sua visione per me faceva ancora parte del mondo dei sogni. Mi faceva venire voglia di restarmene tutto il giorno al letto, tentando di scaldare quelle labbra di ghiaccio e di spettinare ancor di più quei morbidissimi capelli di seta preziosa.

Dopo un po’ di tempo, accertatosi forse che della tristezza sul mio viso non c’era neppure l’ombra, fece piegare le sue labbra nel suo splendido mezzo sorriso prudente.

Avevo deciso: sarei rimasta a letto! Mi chinai con busto, fino a far avvicinare a pochi centimetri le nostre labbra.

«Nuova giornata di studio?» mi chiese con la sua voce tiepida, accarezzandomi un fianco con la punta delle dita.

Rabbrividii, facendo tremolare le mie labbra pericolosamente vicine alle sue. «No», alitai, fin troppo vicina alla sua bocca. Gli rivolsi uno sguardo famelico, poi sorrisi maliziosa. «Oggi sia la bambina - che non disturberà la mamma con le nausee -, sia la mamma - che non vede l’ora - si prenderanno cura del papà» mormorai facendo coincidere i profili delle nostre bocche.

Sentii la sua tendersi in un sorriso, mentre lambivo delicatamente il suo labbro inferiore, stringendolo forte dai capelli. «Davvero?» sussurrò roco, stringendo, con meno irruenza di me, il mio volto, rallentando il ritmo del bacio e aumentandone la passionalità.

Ansimai, scossa, rituffandomi su quel tripudio di bellezza. «Edward, ti amo» mormorai, scendendo con le labbra a baciare il collo.

Sentii il suo fiato freddo sulla spalla. «Anch’io Bella, anch’io» mormorò roco, baciandomi anche lui.

Quando i baci non mi bastarono più, infilai le mani sotto la sua maglietta, ripercorrendo gli addominali scolpiti con movimenti veloci e febbrili e beandomi del freddo che mi donava, ma che comunque non bastava a contrastare il caldo che sentivo crescere dentro. Poggiai la fronte sulla sua spalla, ansimando infastidita. «Ho… ho caldo…» mi lamentai.

Sentii le mani di Edward sui bordi della maglietta del pigiama, e poco dopo mi ritrovai senza.

Lo ringraziai con un sorriso, riprendendo la mia opera di adorazione della sua pelle centimetro per centimetro. Poi lasciai che invertisse le posizioni e che si prendesse cura di me. Scese con la bocca a lambire il decoltè.

Ansimai, reclinando il capo. Solo ora che lo stavo vivendo mi accorgevo come si mancassero quei momenti fra di noi. E comunque non saremmo potuti andare molto lontano…

Si bloccò ad un mio gemito, per un attimo spaventato. «Ti… ti ho fatto male?» mi chiese ansante e roco, spostando la mano dal lato del mio seno, dove albergava fino a qualche istante prima.

La bloccai con la mia, riportandola al suo posto. «Continua» biascicai, baciandolo.

Dopo qualche istante, prudente, ricominciò a lasciarsi andare e ad accarezzarmi con più attenzione, fino a ritornare al ritmo iniziale.

Ero così coinvolta dal tornado di emozioni, che quasi non mi resi conto dello stridente senso di nausea che in pochissimi istanti prese il sopravvento. Mi defilai velocemente dalla sua presa, nascondendo il seno con un braccio e coprendomi la bocca con l’altro.

Sputai i succhi gastrici, unico contenuto del mio stomaco, nel lavandino, sentendo immediatamente la presenza di Edward dietro di me. Mi avvolse nella coperta, aspettando che mi sciacquassi la bocca.

Sbuffai, infilando la maglietta del pigiama e lasciandomi poi andare sul suo petto. Ormai il “bacio del buongiorno” era stato rovinato. «Bimba cattiva» mormorai, accarezzandomi la pancia.

«No, non la rimproverare» fece Edward, posando una sua mano sulle mie. Poi si piegò, fino a trovarsi con la testa all’altezza del ventre. «Sono papà e la mamma che fanno i monelli, vero?».

Sembrava così tranquillo, rilassato, senza neppure una traccia del malumore che ci aveva vinto il giorno precedente. Annusai l’aria, come se l’aroma della felicità fosse percepibile. Se ancora qualcosa lo turbava avrei aspettato che si confidasse a me, come sua moglie. Volevo che mi vedesse abbastanza forte da poterlo aiutare. Sollevò il viso sul mio, notando che lo stavo osservando. Mi sorrise. «Stai bene?».

Annuii. «Sì, meglio di ieri, è tutto passato. E tu?» mi feci coraggio a chiedergli.

Sospirò, sollevandosi ad osservarmi. «Io cosa?».

Gli carezzai i capelli. «So che ieri è stato difficile ciò che ha detto mio padre, ma tu non ti lasci mai scalfire da ciò che pensa la gente, insomma… se dovessi farti influenzare da tutti i pensieri che senti» borbottai, non riuscendo neppure ad immaginare quando fosse difficile per lui.

Fece spallucce. «Quindi?».

Lo fissai, seria. «Dimmi che non ci hai pensato».

«A cosa?» domandò innocentemente, ma sapevo che aveva capito.

Incrociai le braccia al petto. «Al fatto che potessero avere ragione. Che questa bambina sia di Jacob».

«No» rispose troppo velocemente.

«Oh, Edward…».

Sospirò, portandosi le mani alla testa. «Solo per una frazione di un secondo, neppure il tempo di battere le palpebre».

«Ma ti ha fatto molto male» dissi preoccupata, carezzandogli una guancia.

Si lasciò andare contro la mia mano. «Quando all’inizio pensavamo che fosse suo mi ha distrutto più che altro per l’idea di quello che poteva averti fatto. Ma avrei accettato un bambino anche se fosse stato suo figlio. Però all’epoca non avevo mai pensato all’idea di essere padre, di avere una famiglia mia. Adesso, invece» sorrise debolmente, carezzandomi appena la pancia «non posso neppure pensare che mi possa rubare mia figlia».

«Non può» tentai di convincerlo «perché è tua figlia».

«Lo so» mormorò, chiudendo le palpebre.

Cacciai un fiato. «Cosa dobbiamo fare ancora? C’è la pelle gelida, l’ecografia con quella strana membrana, le ecografie normali di Emily. E poi» aggiunsi, lasciandogli un bacio a fior di labbra «chi se non tua figlia avrebbe cercato quasi di dissanguarmi appena una settimana fa?».

Sorrise amaramente, riaprendo gli occhi. Era già stato abbastanza difficile accettare l’idea che avesse la forza di farmi del male e mandare avanti la gravidanza nonostante tutto. Come potevamo mettere di nuovo tutto in discussione?

«Ehi» soffiai sulle sue labbra «se ne hai bisogno sono pronta a fare quel test invasivo di cui parlava Carlisle. Voglio che tu stia bene».

«Davvero?» domandò scrutandomi «quello che si fa con quell’ago di 15 centimetri conficcato nella pancia?» fece, e quando rabbrividii capii dal sorriso che non riuscì a nascondere che mi stava prendendo in giro.

«Volevi farmi vomitare ancora, vero?» deglutii, pallida.

Ridacchiò, stemperando l’atmosfera. «No, Bella. Davvero. Non mi serve alcun test rischioso per te e la bambina per sapere che questa piccola succhiasangue è mia figlia. Andiamo, così potrai fare colazione e prendere le tue medicine».

«Urrà» scherzai, lasciandomi guidare da lui verso la cucina, felice di essere riuscita a parlare dei nostri sentimenti con mio marito.

«Allora, vuoi studiare?» mi chiese più tardi, concentrato ad intrecciare le sue dita con le mie.

Finii di bere il mio latte. «Non so, hai una proposta migliore?» rilanciai.

Fece spallucce, scuotendo il capo. Poi si portò la mia mano con cui stava giocando alle labbra e chiuse gli occhi.

Per come avevo organizzato il programma di studi avevo deciso di potermi permettere due giorni di riposo alla settimana. Ora capivo, dall’esperienza del giorno precedente, che almeno in questo periodo avrei dovuto rallentare un po’ il ritmo. Sia perché non ero più abituata, sia perché avevo capito che Edward aveva bisogno che mi dedicassi a lui. Volevo mettere un po’ di ordine intorno a me.

Mi sollevai, prendendo con me la tazza. La presa di Edward si strinse intorno alla mia mano e prima che me ne rendessi conto mi trovai seduta sulla sedia senza più la tazza fra le mani.

«Ehi» mormorai risentita, squadrandolo mentre sciacquava la tazza nel lavello.

«Stai troppo tempo in piedi, l’ha detto anche Carlisle. Riposati» disse tranquillo.

«Ma dai!». Mi lasciai andare sul tavolo, sbuffando. «Domani faremo i controlli e poi… finalmente…».

Comparve di nuovo davanti a me. «Finalmente niente. Bella, lo sai che anche se risultasse che va tutto bene dovrai ricominciare con calma, senza strafare. È una gravidanza difficile, tu sei stanca e provata e ci sono molte cose che potrebbero metterci in difficoltà e…».

Smisi di ascoltare le sue idiozie e mi ritrassi, accucciata, sul tavolo, fissandolo con aria di sfida e imitando un piccolo ruggito.

Sulle sue labbra comparve un sorriso sghembo. «Ma che bel micio» scherzò. Poi in un secondo si accucciò in posizione d’attacco - molto più elegante di quella che avevo assunto io - e fece un vero ruggito coi fiocchi, che mi fece sobbalzare spaventata.

«Accidenti» biascicai, portandomi una mano al cuore, mentre intanto se la rideva di gusto.

Andai a cambiarmi, indossando indumenti comodi e larghi. Ruotai, osservandomi allo specchio. Era evidente come i fianchi fossero più larghi e la pancia lievemente più pronunciata. E poi… c’era stato un notevole aumento di volume sul seno e sul sedere. Chissà se la cosa dispiaceva a Edward…

Arrossii, ripensando a quella mattina. Non credo gli dispiacesse.

Decidemmo di passare la mattinata a fare una torta. O meglio. Lui faceva la torta e io l’osservavo e lo guidavo nell’opera, comodamente seduta sullo sgabello della cucina. Non appena dimostravo l’intenzione di alzarmi o per afferrare un oggetto, o per andare a fare qualcosa, subito mi precedeva, interrompeva la produzione della torta e lo faceva lui per me.

Ma come faceva ad accorgersene sempre? Stupidi sensi da vampiro. Tuttavia mi sentivo estremamente felice. Ogni cosa era un gioco, uno scherzo, un motivo per ridere. Mi sentivo serena e capace di riflettere lucidamente.

Risi. «Basta, basta ti prego! Non ce la faccio».

Fermò e sue dita che mi stavano solleticando sui fianchi. «Ritratta quello che hai detto» m’intimò scherzoso.

«Non sembri un vecchietto» biascicai, osservando i suoi capelli sporchi di farina e tentando di contenere un’altra ondata di risate.

Lui notò la mia espressione e fece per ricominciare a solleticarmi, ma lo presi in contropiede e misi le mie dita sui suoi fianchi. M’imbronciai quando non rise. «Ehi! Ma non è giusto! Non dirmi che i vampiri non soffrono il solletico!».

Sghignazzò. «No, non sono i vampiri che non lo soffrono, sono io!» esclamò, ricominciando la sua opera.

Dopo pranzo decisi di andare a riposarmi un po’. La felice mattinata mi aveva stancato abbastanza, e ancora non ero riuscita a togliermi l’abitudine di dormire nel pomeriggio. Mi accoccolai meglio fra le coperte, stringendomi il morbido cuscino e scivolando nel mondo dei sogni senza incubi.

A svegliarmi fu Edward e l’aroma della nostra torta.

Fiutai l’aria, stiracchiandomi. «Mmm, che profumo» biascicai «che fame» sbadigliai.

Incontrai i suoi occhi ambra. «Cosa aspetti ad andare a prenderne una fetta?» mi chiese con un sorriso.

Mi umettai le labbra, mettendomi seduta e osservando le coperte sparse attorno a me in maniera del tutto irregolare. Avrei dovuto cambiare le lenzuola…

«Vai, ci penso io!» scherzò dandomi una pacca sul sedere.

«Davvero?».

Sorrise. «Certo».

«Grazie» dissi velocemente, lasciandogli un altrettanto rapido bacio sulle labbra e correndo in cucina, ansiosa di assaggiare quella golosità.

Trovai la torta farcita e decorata sul ripiano. Con l’acquolina in bocca afferrai un coltello. «Amore scusa» dissi, alzando inutilmente la voce affinché mi sentisse «sai che lo farei io, ma visto che non ho i super-poteri e quella che si sta beccando la gravidanza vampira con nausea inesauribile sono io» lo schernii, tagliando la fetta di torta «beh, sarebbe uno spreco che lo facessi io, visto che tu ci impieghi un terzo del mio tempo» feci, sistemandola sul piattino «non trovi?!». Afferrai il cucchiaino e lo misi sul piattino, avviandomi in soggiorno in attesa di una sua sagace risposta.

Dopo tre passi mi resi conto che non avevo preso un tovagliolo, così mi voltai, facendo per ritornare indietro. Inavvertitamente il piattino mi scivolò dalle mani, cadendo a terra e frantumandosi in più pezzi.

Aprii la bocca, sconcertata.

Il rumore si ripeté nelle mie orecchie ancora. Diverso. E un’altra volta. Come l’eco lontano di un suono già sentito. Diverso.

Contemporaneamente Edward comparve dinanzi a me, osservando prima la mia espressione e poi il piattino, scoppiando a ridere. «Era troppo tempo che la tua goffaggine non si faceva sentire» biascicò fra le risate.

Sentii le sue parole come se fossi immersa nell’acqua. Poi, inevitabilmente, singhiozzai.

Immediatamente smise di ridere, facendosi serio. «Tesoro, su, non fare così. Stavo scherzando» mi disse gentilmente, come se si sentisse in colpa.

Piansi più forte.

Una ruga comparve sul suo volto, mentre mi prendeva le mani fra le sue. «Bella? Dai, mi dispiace. Non è successo nulla, davvero». Vedendo che non la smettevo di piangere si piegò a terra e raccolse i cocci del piattino, pulendo poi i residui di panna. Mi fissò con un sorriso, come se quel gesto potesse farmi smettere. «Ecco, vedi, sta’ tranquilla. È tutto a posto ora» sussurrò dolcemente.

Singhiozzai, facendomi stringere dalle sue braccia e lasciando liberamente scivolare le lacrime, senza intenzione di smettere.

«Shh, shh, forza». Edward mi strinse forte e non disse nulla per un po’, ma poi, notando che i miei lamenti si facevano sempre più acuti, si liberò dalla mia debole e inconsistente presa, fissandomi negli occhi. «Bella. Cos’hai?».

Non risposi, continuando a piangere.

«È per la torta? È per quello? Te ne prendo un’altra fetta, ce n’è una intera» fece, cercando contemporaneamente una causa più plausibile. «È per il piattino? Ce n’è un’altra confezione identica ancora intatta, ne puoi rompere quanti ne vuoi! Amore… dimmi cos’hai!».

Singhiozzai, scossa dal pianto.

Mi mise un braccio intorno alla schiena, sorreggendomi e tenendomi le mani con l’altro. «Hai dolore? Ti senti male?» mi chiese ansioso.

Mi resi conto che la sua preoccupazione stava crescendo senza controllo, così come il ritmo del mio pianto. Ma come avrei potuto rispondergli, se non sapevo neppure io da dove era giunta quella tristezza che mi stava man mano affogando sempre più?

«Bella, tesoro, rispondimi, ti prego» fece, posando una mano sul ventre, agitato. Poi la passò sulla mia fronte e sul polso, tentando di individuare la causa del mio pianto.

Mi sentivo completamente in balia della tristezza, spaventosamente simile a quella che avevo provato il giorno precedente. Con la differenza che, questa volta, mi sentivo come costretta a sfogare il dolore attraverso le lacrime. Come se quella fosse l’unica via possibile per liberarmene.

Ma era come voler svuotare un fiume con una cannuccia. Un’impresa titanica.

Sentii le sue mani fredde intorno al viso. «Bella, te ne prego, te ne prego, rispondimi. Ti senti male? Cosa ti fa male?» mi chiese ancora, sempre più agitato.

Non so come, in quell’immensa balia, riuscii a trovare la forza di reagire. Forse aggrappandomi a un altro tipo di dolore. Quello derivato dall’angoscia nelle sue parole.

Scossi il capo, breve ma determinata.

Fece un sospiro, stringendomi forte contro il suo petto. Poi mi posò le mani sulle spalle, allontanandomi per guardarmi negli occhi. «Tesoro» cominciò, più lentamente «prova a calmarti. Qualunque cosa tu stia provando in questo momento non è reale. Calmati, ti prometto che passerà» disse, pensando che fosse un ennesimo attacco di panico.

«N-no» singhiozzai, soffocata dal pianto «non ci riesco».

Vidi la sua espressione contrarsi. «Shh, sì che ce la fai, sei bravissima e ce la fai. Su, avanti, respira piano, piano, non è difficile. Calmati».

Provai a imporre la mia volontà, a fare come diceva, ripetermi che lui era in grado di calmarmi e che presto sarei stata meglio. Respirai a fondo, fra i singhiozzi, respingendolo. Inaspettato fu quello che accadde. Ritornò su con lo stesso vigore e la stessa potenza con cui l’avevo mandato via. Non funzionò. Perché per qualche strano motivo sentivo che non era come le altre volte.

«Oh, Bella» mormorò afflitto, ritornando ad abbracciarmi e a cullarmi. Vedevo il dolore sul suo volto al pensiero che stavo di nuovo male, che i miei attacchi di panico erano ritornati a tormentarmi, ed insieme vedevo la determinazione e la pazienza di volermi aiutare.

«N-non ce la faccio» singhiozzai più forte, riprovando a scacciare la tristezza. Quella, rispondendo con la stessa energia, tornò ad affliggermi. Ogni tentativo di liberarmene era vano. Era come se stessi spingendo una grossa molla; quanta la forza impiegata per comprimerla, tanta era quella con cui rispondeva, distendendosi.

Alla fine, Edward, esasperato, mi prese per la vita, tenendomi stretta. «Bella, non va bene che ti agiti così. Pensa alla bambina».

«M-mi dispiace» piansi, disperata. Esasperata tentai ancora di scacciare la tristezza, inutilmente.

«Accidenti» mormorò, serrando la mascella, afflitto. Mi prese fra le braccia e mi portò in un istante in camera da letto, stendendomi fra le coperte pulite. Mi baciò le mani, la fronte, le labbra. Mi cullò in silenzio, aspettando pazientemente che i miei lamenti si calmassero, come avevano sempre fatto in tutti quei dannati attacchi di panico che mi avevano tormentata nell’ultimo mese.

Il mio pianto era forte, doloroso. Un pianto sonoro e disperato, che si assopisce solo nella spossatezza.

Ma la stanchezza non arrivava. «Bella, amore, ti prego. Stai piangendo da un’ora. Dimmi cosa senti, posso aiutarti. Passerà anche questa volta».

«M-mi sento così t-triste» piansi stanca. Avevo gli occhi rossi e gonfi e mi sentivo terribilmente intontita.

«Per cosa?» mi domandò afflitto «cos’è successo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

Scossi il capo. «Non lo so» singhiozzai, piegandomi su me stessa. Non riuscivo e non potevo pensare a cosa mi stesse accadendo. Mi sentivo totalizzata dalle emozioni che sentivo, ma se fosse stato un attacco di panico sarebbe stato di sicuro il più lungo e doloroso della mia vita.

Ricominciò a cullarmi, agitato, scostandomi i capelli dalla fronte. Infine si staccò da me, facendo per alzarsi.

Piansi, ancora più forte, stringendo con tutta la forza che avevo la sua camicia. Non volevo andasse via. Non poteva. Non doveva. Questo lo sentivo dentro me. L’istinto di averlo accanto.

Mi fissò, sbalordito della mia faccia disperata. Poi si sedette nuovamente sul letto, prendendomi fra le braccia. «Non vado via, sto qui. Non ti preoccupare» mormorò, baciandomi la fronte.

Mi portò con sé in soggiorno, per prendere il telefono. Poi mi mise sulle sue gambe, sedendosi sul bordo del letto e facendomi poggiare la testa sul suo petto. Non smisi mai di piangere.

Compose velocemente un numero al quale risposero brevemente. A causa dell’intontimento, dal rumore assurdo causato dal mio pianto, e dalla velocità con cui parlava, colsi solo alcune parole. Avevo capito che Edward cercava Carlisle.

«Esme… no… sì, non so…» mi rivolse un’occhiata, «Sì. Sì, ti aspetto». Chiuse la comunicazione e riprese a cullarmi, cancellando, inutilmente, le lacrime che ormai mi inondavano tutto il volto, fin sul collo.

Trasalii quando sentii bussare alla porta della camera. Vidi il volto dolce mi Esme che mi fissava. Si sedette sul letto, accanto a Edward, con movimenti lenti e umani. Poi prese ad accarezzarmi la fronte. «Cos’è successo?» chiese con calma a lui.

Sospirò, esasperato. «Non so. So solo che le è caduto il piattino con la torta e poi ha iniziato a piangere. Non riesco a capire».

Singhiozzai, nascondendo il volto sul suo petto e lasciando che continuassero a parlare a velocità non udibile per le mie orecchie umane.

«Amore» fece Edward richiamando la mia attenzione «Esme ti ha portato le tue compresse. Presto starai meglio».

Scossi il capo fra i singhiozzi inconsolabili. «N-non è c-come le altre vol-te. N-on v-voglio ricomincia-re».

Posò il mento sulla mia fronte, cullandomi avanti e indietro, freneticamente. «Non è colpa tua Bella, non è colpa tua. Ma adesso devi stare meglio, capisci? Stai troppo male, troppo. Non riesco ad aiutarti in altri modi».

Mi lasciai andare fra le sue braccia, disperata. Mi sentivo così sconfitta da me stessa e da quello che stava succedendo alla mia mente ed al mio corpo senza che potessi controllarlo.

Sentii una mano fredda sulle mie. «Tesoro, stai tranquilla. Ti porto le tue compresse e una camomilla, torno subito» fece infine con un sorriso rassicurante.

Mi fidai di Edward. Tremante mandai giù due compresse, il doppio della dose che avevo preso ultimamente. Nonostante tutto, i fremiti e i singhiozzi, riuscii sorso dopo sorso a bere la mia camomilla, sperando e volendo che mi facesse smettere di piangere.

Non funzionò. Né la camomilla né gli antidepressivi mi diedero alcuna sorta di sollievo. L’esasperazione aveva raggiunto livelli incredibili. Mi faceva male la testa, come se dentro ci fosse un martello pneumatico. Tremavo come una foglia, in balia dei fremiti.

«Carlisle? Fra quanto tempo arriverà?» domandò Edward fra i denti.

«È ancora in sala operatoria» gli rispose Esme «ora provo a richiamarlo, ma calmati. Se tu ti agiti lei sta peggio».

Volevo solo liberarmi del pianto. Della tristezza. Del dolore. Non ce la facevo più.

Dopo un po’ sentii le voci confuse degli altri. Rosalie, Emmett, Alice, Jasper.

«Jasper, finalmente» sospirò Edward preoccupato.

Il mio fratello vampiro mi fissò sconvolto, facendo passare lo sguardo da me a Edward, colpito quanto lui. «Non ho mai sentito tutto questo dolore» farfugliò esterrefatto.

«Ti prego, fa’ qualcosa» fece Edward, colpito dalla profondità del mio dolore.

Annuì, avvicinandosi.

Sentii una mano sulla spalla e tentai di soffocare quello che pensavo sarebbe stato l’ultimo singhiozzo. Ma la tanta agognata quiete non arrivò. Com’era possibile?

«Non ci riesco» mi voltai fino a fissare la sua espressione sgomenta, simile a quella che c’era sul volto degli altri e anche di Edward. «Edward, non è come al solito» disse serio, studiandomi «Non è un normale attacco di panico» fece a voce bassa, come se gli facesse male starmi accanto.

«Cos’è allora?» chiese preoccupato, stringendomi più forte.

«Non è paura. Sento così tanto dolore» sussurrò, serrando le palpebre.

Edward si chinò a cancellare le nuove lacrime, baciando le guance, nel vano tentativo di calmare i sempre nuovi singhiozzi.

«Può essere una crisi d’astinenza?» domandò preoccupato a Rosalie.

«È strano» fece in difficoltà, studiandomi «è stata bene per quasi due settimane. Quanto le hai dato di sertralina?».

«100 milligrammi».

Rosalie mi studiò, preoccupata. «Diamogliene altri 100» propose.

Edward sospirò, contrariato. Non prendevo quella dose da quasi un mese. «Non voglio mandarla in overdose».

«Edward» provò a convincerlo «non vedo altre soluzioni».

Sospirò, poi annuì seccamente. Avvicinò la bocca al mio orecchio. «Te la senti? So che non vuoi ricominciare, ma abbiamo bisogno di aiutarti in qualche modo, va bene?».

Singhiozzai, non sapendo cosa rispondere.

Mi strinse più forte. «Ti prometto che starai meglio» fece disperato, non riuscendo più a credere neppure alle sue parole.

Mi lasciai convincere a prendere altre due compresse, ma non cambiò, ancora, nulla. Iniziai solo a tremare più forte e sentii il cuore battere più veloce, mentre il dolore rimaneva lì, schiacciandomi e sovrastandomi con il suo peso.

«Com’è possibile che non abbia funzionato?» chiese Esme preoccupata. Mi carezzò la fronte «Ha un po’ di febbre».

Edward posò la guancia contro la mia fronte, ma anche quel piccolo sollievo non riuscì a farmi stare meglio. «È stremata».

«Tu non vedi niente?» chiese Rosalie ad Alice.

Lei scosse il capo, afflitta e disorientata. «No, mi dispiace. Non ho mai avuto un buco nero così lungo su di lei».

Piansi di più. Disperata, esasperata. Sull’orlo di ogni sopportazione.

«Edward, falla venire da me, le posso parlare» propose Rosalie sottovoce, aprendo le braccia come per accogliermi.

Mi strinsi con tutta la mia forza a Edward, nonostante tutto, determinata a non lasciarlo andare per nessun motivo al mondo.

Lui sospirò, baciandomi la fronte. «Non vuole» disse, scuotendo la testa. Mi sollevò in braccio, adagiandomi fra le lenzuola e prendendo ad accarezzarmi la schiena, tentando un altro modo per farmi smettere di piangere.

Esme era al telefono. Alice, invece, stava seduta per terra, tenendosi due mani sulle orecchie per non sentire i miei lamenti acuti e insistenti; accanto, Emmett, come lei in impaziente e sconfortata attesa. Vidi anche Jasper, in un angolo, con la testa fra le mani, concentrato su qualcosa.

«Ti prego» gemette Edward dopo un po’, volgendosi verso Jasper «non posso vederla così e sentire il suo dolore. Non ce la faccio».

Jasper si alzò in piedi e annuì velocemente. Alice si strinse al suo braccio. «Ci allontaniamo. Saremo abbastanza vicini da venire subito per ogni evenienza» fece, avvicinandosi a lasciarmi una lievissima carezza, triste.

Edward annuì, il viso addolorato. «Grazie». Sentii la presa di mio marito farsi più salda e protettiva.

«Vi prego» singhiozzai sfinita «f-fate qualcosa».

Edward irrigidì la mascella, disperato ed impotente. «Dov’è Carlisle?» domandò fra i denti.

«Edward, è inutile, non risponde» disse Esme.

«Continua a provare» sbottò agitato.

Annuì, riprendendo il telefono e scomparendo velocemente nel soggiorno.

«Non c-ce la faccio» singhiozzai roca «v-vi prego».

«Shh, lo so, lo so. Hai ragione» tentò di consolarmi Edward.

Rosalie, con un fazzoletto, mi asciugò le lacrime. «Tesoro, te la senti di parlarmi? Di dirmi cosa provi? Potrebbe aiutarti».

«N-no» piansi, il petto dolente per i singhiozzi senza fine.

La sorella lo guardò, preoccupata.

«Sono più di due ore» fece Edward, rispondendo alla sua domanda mentale.

Singhiozzai, strofinando il volto sulla sua camicia ormai zuppa.

«Che ne dici se provi a farla dormire un po’? Potrebbe funzionare» propose Rosalie.

In effetti, mi sentivo esausta. Quasi priva di forze. Ma per quanto ne sapevo, non sarei riuscita ad addormentarmi facilmente. Annuii, disposta a qualunque cosa per stare meglio.

Edward, mi prese in braccio, sollevandosi in piedi, mentre Rose chiudeva tutte le tende per far cadere la stanza nella penombra. Prese a cullarmi, avanti e indentro per la stanza, canticchiandomi la mia ninnananna. Emmett e Rosalie uscirono, sperando che così sarei riuscita ad assopirmi.

Il pianto, strascicato e stremato, come da me previsto, predurava, senza darmi tregua. Era come una necessità. Una necessità, un istinto dal quale non potevo sfuggire.

Mi avvolse nella coperta, ricominciando a cullarmi. «Amore, non piangere, ci sono qui io con te. Ti prometto che passerà. Non piangere. Mi uccide vederti così. Scopriremo presto cosa sta succedendo, te lo prometto» sussurrò, baciandomi la punta del naso, bagnata anche quella.

Non volevo fargli vedere la profondità della mia disperazione perché sapevo quanto lo facesse soffrire, ma non sapevo come fare altrimenti.

Infine sentii i muscoli di Edward rilassarsi, mentre sospirava. Dopo pochi secondi la porta si aprì, facendo entrare Carlisle, insieme a un po’ di luce.

«Ti prego Carlisle» fece Edward, guardando il padre e sedendosi sul letto con me su. «Fa’ qualcosa».

Carlisle annuì, serio, prima di rivolgermi uno sguardo rassicurante. «Quanto tempo fa le hai dato la sertralina?».

«L’ultima dose quasi un’ora fa. Le ho dato 200 mg in tutto, pensavo che fosse una crisi d’astinenza. Non mi sembra un normale attacco di panico, non riesce a calmarsi con nulla».

Mi esaminò gli occhi, il battito, l’addome. «Altri sintomi?».

«M-mi sento c-così male. T-ti prego» singhiozzai, stringendogli una mano.

«Bella, ti faremo stare meglio, lo prometto» disse rassicurante, guardandomi negli occhi e ricambiando la mia presa.

«Ha vomitato appena sveglia e prima aveva mal di testa. Ora ha un po’ di febbre, è stremata. Ma è stata perfettamente tranquilla per tutta la mattina» fece frustrato «Carlisle, anche ieri sera, quando siete andati via, era triste. Diceva di avere uno strano presentimento. Mai poi stamattina sembrava tutto passato. E poi questo, all’improvviso. Perché?».

«Potrebbe essere una crisi d’astinenza, ma è strano. E comunque adesso avrebbe dovuto stare già meglio, anche con il potere di Jasper. Mi sorprende che non abbia funzionato. Proverò a somministrarle una benzodiazepina» convenne infine.

Tremai, stremata e disorientata, sentendo il profumo di Edward. Piansi a pieni polmoni quando sentii il doloroso contatto con l’ago.

La presa di Edward si fece più stretta per impedirmi di muovermi. «Shh, è quasi finito, non è niente. È quasi finito» mi sussurrò ad un orecchio, rassicurandomi.

Rimasi a piangere, ancora, sulla sua spalla. Ero talmente intontita che a fatica distinguevo i contorni delle persone, le cose. La razionalità era quasi del tutto scomparsa. Quasi a stento capivo dove mi trovavo. Ma non mi addormentavo, e non smettevo di piangere.

Quello, e l’istinto di avere Edward accanto, mi dominavano completamente.

Sentii di nuovo le voci, nella camera.

«Non avrebbe dovuto fare già effetto?» chiese Edward, preoccupato.

«Avrebbe dovuto».

Sentii una mano ghiacciata sulla fronte. «Povero tesoro» sussurrò Esme.

Mi sentii scuotere una mano e vidi il volto di Emmett che mi fissava a disagio. «Bellina, cara. Sai che ci stai spaccando i timpani?».

Sapevo che quell’osservazione era stata fatta con tutta l’intenzione di farmi ridere, ma scatenò l’esatto effetto contrario.

«Emmett, sei uno zuccone» lo rimproverò Rosalie, mentre Edward tentava di calmare la perennemente nuova ondata di lacrime e di singhiozzi.

«Jasper?» chiese Carlisle.

«Si sono allontanati. Non riusciva a pensare qui dentro, e neppure io» replicò Edward stentoreo.

Mio suocero mi guardò, preoccupato. «Richiamiamolo. Non so cosa altro fare, vale la pena che lui faccia un altro tentativo dopo le benzodiazepine».

«Vado io» fece Esme, scomparendo nel soggiorno.

Jasper e Alice tornarono presto da noi come avevano promesso. Alice non aveva ancora visto nulla e Jasper era sconvolto dalla nuova ondata di disperazione con cui lo investii.

«Non funziona. Non so cosa fare, mi dispiace» mormorò sconfortato.

Sapevo che stava sentendo tutta la mia sofferenza e mi dispiaceva davvero tanto. Impulsivamente mi voltai verso mio marito, tendendo le braccia verso di lui per farmi prendere in braccio.

Con un sospiro mi strinse nuovamente al suo petto.

«Accidenti, Bella. Sembri una bambina» borbottò Emmett, ancora imbronciato per il rimprovero della moglie.

Vidi, attraverso le lacrime, l’espressione di Jasper mutare in sorpresa come se finalmente avesse avuto un’illuminazione.

Edward, sotto di me, s’irrigidì. «Cos’è Jasper?» chiese velocemente.

Sfregai il viso contro la camicia di Edward, stringendo maggiormente i pugni sulla stoffa in una disperata richiesta d’aiuto.

«Io, credo…» mormorò Jasper sorpreso.

Mio marito lo guardò, sconvolto quanto lui. «Provaci. Ti prego, provaci».

«Cosa sta succedendo?» domandò Rosalie sorpresa.

Jasper si avvicinò con estrema cautela, come se ogni centimetro più vicino a me fosse un centinaio di volte più doloroso. A differenza di quello che aveva fatto prima non posò la mano sulla mia spalla.

Edward sollevò la mia maglietta di qualche centimetro, quanto bastava per scoprire la pancia.

Jasper, cautamente, posò la punta di un dito sulla mia pelle nuda.

Sentii uno stranissimo fremito attraversarmi, e i miei singhiozzi si fermarono per un attimo, sconvolgendomi, per riprendere immediatamente appena Jasper sollevò la mano.

«Jasper» sibilò Edward sconvolto.

Si fece coraggio, e posò la sua mano completamente sulla mia pancia fredda. Mi sentii improvvisamente investire da un’ondata calda, poi fu come se tutte le terribili emozioni che mi stavano schiacciando venissero improvvisamente risucchiate via, lasciandomi pallida e intontita.

Mi sentii come se mi avessero risucchiato via tutta l’aria dai polmoni contemporaneamente, così feci un respiro profondissimo, senza fiato.

Poi tutte le immagini divennero appannate e nel giro di un paio di secondi si fece tutto buio.

 

 

   
 
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