Desclaimer:
Ogni riferimento a fatti o persone realmente
esistenti è puramente casuale.
Città
Che Cambi, Gemella Che Trovi
[Ogni
Volta]
Cambiai stazione radio, cercando di
reprimere un istintivo
grugnito di rabbia. Proprio in un canale in cui stavano dicendo
l’oroscopo
dovevo inceppare? Possibile che delle sciocchezze inventate
dall’uomo solo per
passare il tempo e far guadagnare migliaia di euro a delle persone
ignoranti
che erano note come “astrologi” dovessero rovinarmi
la giornata anche quando
qualcosa per una volta mi era andato bene? Quel giorno, e di certo in
quelli
seguenti, nessuna stella mi avrebbe
rotto le scatole, quella era la cosa di cui ero più sicura
al mondo, più del
fatto che la Terra non fosse piatta e che io mi chiamavo Luna Solari.
Inceppai
in una canzone di Vasco e iniziai a scacciare la brutta, vivida
immagine, anzi
il volto, che si era formato nella mia mente udendo la parola
“stelle”, un
volto purtroppo molto simile al mio, ovvero quello della mia gemella
Stella, da
cui mi ero separata da ben quattro mesi e senza di cui vivevo molto
meglio
nella storica casa dei miei nonni, a più di quattrocento
chilometri di distanza
da lei.
Quella canzone voleva proprio. Ogni volta. Sorrisi, era una delle mie
canzoni preferite, in quanto
gran fan di Vasco Rossi, eppure decisi di lasciar perdere il mio mp4,
ero
troppo di buon umore, anche se lo ero molto di più prima
della soffiata
dell’oroscopo, per potermi fermare a riflettere sui vari
spunti che quella
canzone mi offriva ogni volta,
nonostante la conoscessi a memoria, parola per parola, nota per nota.
“E ogni volta
che non
sono coerente
e ogni volta che
non è importante
ogni volta che
qualcuno si preoccupa per me
ogni volta che non
c'è
proprio quanto la
stavo cercando”
Anzi, no, forse l’avevo
tolta solo perché al momento non mi andava di
perdermi in quella che era la pura verità. Ogni volta che
avevo bisogno di
qualcuno, ecco che questa scompariva come se nulla fosse… E
in quel momento mi
rendevo conto che questo qualcuno non ci teneva sul serio a me, come la
mia ex
migliore amica, Alessandra. Dalla prima media eravamo sempre state
inseparabili, avevamo frequentato insieme il liceo e tutte le sfide che
questo
aveva comportato, sempre l’una fianco
all’altra… Finchè non era giunto quello
che lei definiva l’uomo della sua vita, che me
l’aveva sottratta brutalmente. E
lei? Lei non aveva nemmeno protestato, ovviamente. Cosa se ne faceva di
me ora
che aveva qualcuno che poteva offrirle molte cose in più
rispetto a me, molta
più compagnia, affetto e chi più ne ha
più ne metta?
Scacciai questi pensieri con
difficoltà e ci riuscii dopo vari
tentativi.
Nonostante tutto, però,
l’oroscopo ci aveva azzeccato, anche
se in parte. Avevo realizzato il mio progetto del momento, ottenere un
buon
risultato dopo mesi di impegno.
Presi il cellulare e composi quel
numero che ormai conoscevo
a memoria, mentre uscivo dalla facoltà di Lingue di Napoli,
sentendo di poter
volare per la leggerezza che sentivo dentro, e aspettai pazientemente
che
qualcuno rispondesse. Le pareti bianche come il pavimento, la porta
della
segreteria, i vari annunci affissi sulla bacheca non mi erano mai
sembrati così
allegri in due mesi che frequentavo le lezioni.
“Luna! Tesoro,
dimmi” mi invitò la voce solare di zia Kitty,
quella che potevo definire la mia zia preferita e che sentivo
più vicina di mia
madre al momento.
“Indovina?” le
domandai, sorridendo come un’ebete mentre
raggiungevo la stazione per tornare a casa della nonna, dove vivevo al
momento
insieme a mio padre.
“Hai già fatto
l’esame?” chiese sorpresa. “Non sono
nemmeno
le undici!”.
“Sono stata la
seconda…” spiegai. “Su, indovina quanto
mi ha
messo il prof?” chiesi di nuovo, insistentemente.
Esitò per vari secondi,
poi alla fine disse: “Mi arrendo,
dai, dimmelo!”.
“Ventotto!”
esultai, a voce così alta che due donne si
voltarono verso di me, avvolte in lugubri cappotti neri e sciarpe
abbinate. In
effetti faceva molto freddo, ma dopotutto era il ventuno novembre e la
città
sembrava avvolta in una cupola grigia, cosa che non c’entrava
con lo smog. Invece
io mi sentivo così accaldata che probabilmente a breve mi
sarei tolta anche il
sottile giubbino di pelle che indossavo insieme alla sciarpa
multicolore che mi
aveva fatto nonna Luciana con le sue stesse mani. L’avevo
messa come
portafortuna, ed aveva funzionato.
“Ventotto? Ma sei la mia
genietta, tesoro!” esclamò,
gioiosa.
“Non ci posso credere, se
vedevi com’era il professore, un
tipo tutto tirato e altezzoso con la puzza sotto al naso! E parlava in
un modo
assurdo, ci volevano i sottotitoli per comprenderlo, infatti mi ha
guardato
male quando gli ho chiesto di ripetere la seconda domanda”
spiegai,
controllando l’orologio e constatando che il treno sarebbe
arrivato da lì a tre
minuti. Quella mattina mi ero svegliata con l’intento di
strappare almeno un
venticinque al mio primo esame all’Università,
quindi potevo ritenermi
soddisfatta.
“Intanto hai saputo
tenergli testa” mi ricordò la zia.
“Dobbiamo assolutamente festeggiare! Vieni a pranzo da me,
ok?” mi invitò. “E
porta anche papà, mi raccomando, gli farà piacere
mangiare qualcosa diverso
dalla pasta asciutta di nostra madre”.
Sorrisi spontaneamente ripensando
alla nonna e alla sua
cucina: era bravissima nel cucinare le polpette con le melanzane e la
frittata
di patate, ma la pasta non era proprio il suo piatto forte,
però nonostante
tutto noi nipoti l’adoravamo, era
molto schietta e solare, anche se a volte un po’ impicciona.
“Va bene allora,
grazie! Ma non dire
nulla a nessuno del
voto, ok? Voglio farlo io” le
ricordai. Tutta la mia famiglia mi era stata vicina durante il periodo
di
studio, chi più, chi meno. Qualche cugino di buona
volontà mi aveva aiutato con
qualche traduzione, qualcun altro aveva ascoltato la mia esposizione di
qualche
argomento o mi aveva semplicemente fatto compagnia mentre vedevo le
puntate di
Gossip Girl in madrelingua, cosa che facevo dal liceo per fare sia il
dovere
che il piacere.
“Come vuoi,
cercherò di tenere la bocca chiusa”.
“Devi
tenerla
chiusa” precisai, e scoppiammo a
ridere
prima che di salutarci e staccare la telefonata. Riposi il cellulare
nella
tasca dei miei jeans preferiti, stretti al punto giusto e con delle
decorazioni
argentate nei presi delle tasche, e aspettai un altro minuto prima di
vedere il
treno arrivare e salirci su. Presi posto sul primo sedile vuoto che
trovai e mi
rilassai, nell’attesa di arrivare nella cittadina in cui
avevo deciso di
trasferirmi quattro mesi prima, dopo essermi diplomata.
Un paesaggio pieno di prati e
alberi scorreva davanti ai
miei occhi, mentre io cercavo di non sentire il russare insistente
dell’uomo di
mezz’età che si era seduto al mio fianco,
addormentatosi dopo i primi tre secondi
di viaggio e ancora in un coma apparente. Avevo cercato di evitare di
provare
fastidio rimettendomi le cuffie dell’mp4
nell’orecchio ma senza successo, visto
che quel sottofondo odioso si sentiva ancora nonostante tutto,
così me l’ero
tolte e avevo deciso di sopportare in silenzio, cerando di consolarmi
visto ciò
che mi aspettava una volta arrivata a destinazione, una destinazione di
certo non
ambita da fresche diplomate piene di vita e voglia di fare nuove
esperienze, ma
si sapeva che io ero strana e a volte un po’ pazza, quindi
passare dal vivere
con mia madre e mia sorella a Firenze all’andare
nell’ignota cittadina campana
di Maddaloni da mio padre e la sua famiglia per me era una cosa normale
e
agognata dall’età di sedici anni.
Era stato un passo che mi aveva
portato a molti cambiamenti,
ma avrei fatto di tutto pur di non dover più sopportare il
continuo confronto
con la mia gemella e la vita passata alla sua ombra che ne conseguiva.
La convinzione nel volermi
trasferire era giunta quando
avevo detto a mamma di aver preso
ottantasette su cento all’esame di Stato al Liceo Linguistico
che avevo
frequentato e lei non si era scomposta più di tanto, anzi,
aveva anche avuto il
barbaro coraggio di dire: “Però, se ce
l’avessi messa un po’ di più saresti
arrivata a novanta. Fa niente!” quando aveva sorriso davanti
al settantadue di
Stella, diplomatasi nel Liceo Artistico della città.
Già in precedenza c’erano
stati altri episodi che mi avevano infastidita, quindi quella era stata
la
goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Per cui era ovvio che al momento il
mio umore fosse alle stelle: per i
prossimi mesi niente
gemella rompiscatole e niente madre ingiusta alle calcagna. Dopotutto,
io e
Stella avevamo abitato in quella città fino
all’età di sei anni, poi però
avevamo dovuto trasferirci a Firenze per il lavoro di mamma, prima che
lei e
papà si separassero, circa quattro anni dopo.
Così papà era
tornato nella sua città natale, ma mamma aveva
insistito nel tenerci con lei a Firenze nonostante
l’affidamento congiunto.
Alle undici e venti il treno si
fermò nell’affollata
stazione di Maddaloni, e fu con grande gioia che dissi addio
all’interno
squallido del mio scompartimento, e soprattutto al mio vicino che avevo
dovuto
svegliare con insistenza, anche se il primo istinto era stato quello di
lasciarlo lì per ripagarlo delle pene che mi aveva fatto
passare.
Con un’immensa
spensieratezza respirai a pieni polmoni
l’aria che si respirava nella stazione.
Stranamente, Maddaloni mi piaceva
sempre di più, nonostante
per certi versi potesse risultare molto squallida in confronto a
Firenze. Era
semplice, con un elevato numero di negozi forniti di tutto, e la vita
si
concentrava soprattutto attorno alla piazza principale, luogo di
incontro della
maggior parte della gioventù,
nonostante
qualche busta di immondizia di troppo sparsa per le varie strade di
tanto in
tanto.
Una volta uscita dal territorio
della stazione, così,
iniziai a camminare
a passi svelti verso
Via Roma, dove si trovava il locale in cui lavoravo da due mesi. Si
chiamava
“Speed dating”, ed era una sorta di bar in cui ogni
mercoledì e venerdì decine
di single si incontravano in una sorta di incontro al buio con altre
persone
per tre minuti alla volta, cercando di incontrare la propria anima
gemella. Era
un qualcosa di molto alternativo, un locale unico in tutta la
città, dove si
poteva mangiare qualche specialità orientale come il sushi o
qualcosa di
estremamente casareccio come la pastasciutta, e nonostante lo
scetticismo che
provavo nei confronti di quel sistema per
cercare di conoscere qualcuno molto interessante, avevo deciso di
provare a
fare domanda per essere assunta perché non volevo dipendere
completamente da
papà e volevo avere una mia piccola entrata ogni mese. E,
per fortuna, ero
stata presa.
“Buongiorno!”
esclamai, entrando nel locale e sorridendo a
due camerieri che pulivano i tavolini.
“Ciao, Luna!”
dissero loro, Gianluca e Antonio.
“Ragazzi,
c’è il Mister?” chiesi ironica. Tutti
chiamavamo
così Michele, il proprietario del locale, un uomo sulla
quarantina un po’
bassino con una calvizie incipiente e una simpatia smisurata.
“Nel retro, sta facendo
qualcuna delle sue solite birichinate”
rispose Antonio, un ventenne con lunghi capelli scuri e un sorriso
rassicurante. Era grazie a lui se il locale era ancora aperto, dato che
spesso
aveva fermato Michele nel fare qualche mossa azzardata come spendere
tutti i
suoi risparmi per qualche infruttuoso investimento.
“Ok, vado a
salutarlo” .
“Ma hai fatto
l’esame?” domandò Gianluca, fratello di
Antonio,
più grande di circa tre anni. Si somigliavano molto anche se era molto
più possente del fratello
minore.
“Si” risposi.
“E
quanto…?”.
“Ventotto!”
rispose un vocione allegro alle mie spalle, e mi
voltai stupita verso Michele che mi correva incontro a braccia aperte,
avvolto
nel suo grembiule preferito, giallo e verde.
“Chi te l’ha
detto?” domandai, mentre mi abbracciava
calorosamente.
“Un uccellino
impiccione” rispose quando ci separammo, ed io
sospirai.
“Zia Kitty non
cambierà mai...” dedussi, immaginandola
mentre entrava e annunciava la notizia facendo girare tutte le persone
presenti
nel locale a causa del suo tono enfatico.
Michele sorrise, scrollando le
spalle. “E’ una brava donna,
non riesco a capacitarmi come possa essere ancora single alla sua
età una come
lei” disse.
“Intanto non ti dispiace
che non abbia un marito che le
gironzola intorno, così sei libero di offrirle tutti i
cappuccini che vuoi” lo
punzecchiò Antonio, facendo l’occhiolino.
Guardai sbieca verso
l’uomo e lui arrossì, fingendo di
arrabbiarsi. “Antonio, quando la smetterai?! Lo sai che dopo
Lucilla non amerò
mai nessun’altra donna” gli ricordò,
accennando alla sua povera moglie defunta
circa otto anni prima a causa di un tumore al seno. Indicò
con lo sguardo la
foto onnipresente della donna di fronte a noi, sorridente e bellissima
il
giorno del loro matrimonio, ed annuii seria.
“Lo sappiamo, Mister, non
lo pensare. E poi mia zia deve
restare single per farmi compagnia, lo sai” cercai di
metterla sullo scherzo,
dato che Michele diventava molto sensibile quando si toccava questo
tasto, e
per fortuna funzionò perché mi sorrise.
Stava per dire qualcosa quando si
sentì uno scampanellio,
simbolo del fatto che qualcuno era entrato nel locale e
aveva causato quel rumore grazie al
campanellino che si trovava sopra la porta, e quando vidi chi era
entrato
sbuffai, ricordandomi che forse l’oroscopo poteva avere
ragione a modo suo,
circa le stelle. Se Stella non poteva rompermi le scatole, ecco che il
fato ci
pensava a far si che ciò accadesse indirettamente, mediante
qualcuno che stava
dalla sua parte.
Michele mi fece segno di occuparmi
del cliente con lo
sguardo, tornando nel retro bottega, ed io ubbidii di malavoglia.
“Vedo che sei entusiasta
di vedermi. Mi fa piacere”.
Avete mai conosciuto qualcuno che
ritenete ridicolo per il
suo costantemente essere contro di voi per il semplice scopo di dar
ragione a
chi vi sta contro? Io si, e questo qualcuno si chiamava Marco Valenti,
un
ventunenne cocciuto, convinto, occhialuto e, dulcis in fundo, storico
migliore
amico di mia sorella e suo primo ragazzo. La loro tempestosa
storia era nata nel 2002 , quando entrambe eravamo
venute per le vacanze estive a Maddaloni da nostro padre, e dal momento
in cui
lui e Stella si conobbero ad un corso estivo di piscina diventarono
inseparabili. Io e la mia gemella avevamo undici anni, e lei non fece
altro che
vantarsi con me del primo fatidico bacio che aveva dato a
quell’essere. Poi, a
settembre, tornammo a
Firenze e lei si innamorò di Giacomo Mirante,
un bullo che stava in terza media, così si
inventò la solita scusa del
“geograficamente incompatibili” e piantò
Marco. Avrei aggiunto un povero
prima del suo nome se nei mesi
successivi lui non avesse continuato a farsi sentire, fino ad arrivare
ad un
livello di amicizia maturo e consapevole verso i tredici anni. Lui e
mia
sorella così si vedevano in estate e durante le vacanze
natalizie, e cosa c’era
di meglio per quell’idiota che torturarmi ora che ero lontana
dalle grinfie di
Stella? Doveva certamente continuare l’opera iniziata dalla
sua migliore amica
in diciotto anni.
“Ma piantala. Sai che
ci sono altri cinque locali nel raggio di trenta metri?”
sbottai, decidendo di
non guardarlo in faccia e iniziando ad asciugare alcuni bicchieri
dietro al
bancone.
Marco fece un verso che poteva
assomigliare molto ad un “Si,
ma preferirei restare a corto di acqua per le prossime due settimane
piuttosto
che non avere la soddisfazione di infastidirti”. Negli anni
avevo imparato le
varie sfumature che un minuscolo suono vocalico poteva avere.
“E allora
perché….?” chiesi, esasperata e
scocciata.
“Se mi guardi in faccia
parlo altrimenti…”.
“Altrimenti?”.
“Altrimenti ti dico una
cosa molto spiacevole che voglio
farti scoprire da sola”.
Alzai automaticamente lo sguardo-
smettendo di osservare il
bicchiere che stavo asciugando come se sul fondo ci fosse incollata la
foto di
un modello particolarmente attraente- e vidi un velo di pura
soddisfazione
dipingersi sui suoi lineamenti marcati. La mascella un po’
quadrata, le labbra
sottili incurvate in un sorriso di sfida, gli occhi di un azzurro
intenso
celati da occhiali dalla montatura nera, i capelli neri avvolti in
ricci
abbastanza fitti, la statura alta e a volte un po’
dinoccolata, facevano di lui
la persona che meno sopportavo al mondo dopo la mia ex professoressa di
latino
e Lucia Matri, colei che al corso di letteratura spagnola si credeva
miss-madrelingua-spagnola
venuta in Italia. Non cito mia sorella perché, in quanto
tale, dire di odiarla
sarebbe crudele, ma spesso purtroppo ero arrivata a pensarlo, anche se
alla
fine ero giunta alla conclusione che tendevo a reagire male nei suoi
confronti
perché le volevo bene e ci restavo male quando una persona a
me cara mi
deludeva.
“Che paura,
brrr” lo schernii con aria di sfida. “Ti sto
guardando, quindi spara”.
“Oh, niente, oggi mi va
di rischiare così sono venuto a
prendere il caffè qui quando ti ho visto entrare dal fondo
della strada”
minimizzò, sedendosi su uno degli sgabelli che circondavano
il bancone e
poggiando la sua faccia da schiaffi sui suoi gomiti.
“Rischiare?”
chiesi, socchiudendo gli occhi in due fessure.
Rise divertito e scosse il capo.
“Ti hanno mai detto che sei
molto lenta di comprendonio?” mi prese in giro, e non so
quale forza divina mi
aiutò a non scagliargli uno dei bicchieri addosso.
Respirai con rabbia e lui parve
godersela un mondo. “Mi
riferivo al fatto che avresti potuto avvelenarmi, mettendo
chissà che nel caffè”
spiegò.
“Devo ridere? Applaudire?
Non è colpa mia se non capisco le
tue battute deficienti” sbraitai.
Vidi Antonio affacciarsi da una
delle colonne che adornavano
il locale, conferendogli uno stile romano, probabilmente attratto dai
toni che
la conversazione stava acquisendo.
Inutile dire che Marco non si
levò la sua maschera da
ragazzo da faccia di schiaffi strafottente, così
scrollò le spalle, alzandosi.
“Ho capito, mi sa che farò a meno del
caffè per il momento. Ma ti suggerisco di
farne a meno a tua volta, oggi, perché troppa caffeina
potrebbe farti stare
ancora peggio quando verrai a sapere quella
cosa” disse con aria saccente, aggiungendo anche
una sorta di occhiolino
ironico.
Incrociai le braccia.
“Sei patetico. Non sai più cosa
inventarti per darmi fastidio. Non mi provochi, Marco, mi sei
totalmente
indifferente” dichiarai, il che non era vero dato che aveva
una stranissima
capacità di farmi arrabbiare anche con mezzo sguardo.
“Se fossi in te non ne
sarei sicuro. Ma per fortuna non lo
sono, ah ah!” esclamò, per poi darmi le spalle e
fare per uscire. “E mi
raccomando, sii meno antipatica con me in futuro” aggiunse.
“Sarebbe come chiederti
di far funzionare l’unico neurone che
hai in quel cervello bacato che ti ritrovi per mezza volta!”
risposi a voce
alta, ma ormai la campanella mi aveva già annunciato la sua
uscita.
“Rompe ancora
quell’idiota?” chiese Antonio con aria
protettiva, emergendo dal fondo del locale.
Scossi il capo, cercando di non
sentirmi arrabbiata e
stizzita a causa sua.
“Non badarci, proprio
come faccio io, prima o poi si
scoccerà di fare lo scagnozzo di Stella”
borbottai, ritornando ad occuparmi dei
bicchieri.
“Ma mi dà
fastidio” precisò, avvicinandosi al bancone e
obbligandomi ad alzare lo sguardo verso di lui dopo aver preso il mio
mento
nella sua mano destra.
“Abituatici come ho fatto
io” risposi, cercando di sorridere
e scostandomi. “E’ una cosa naturale, ormai, ci
siamo sempre odiati e mi va
bene così”. Antonio parve optare di convincersi
almeno un po’, perché mi invitò
a dirglielo nel caso che Marco avesse continuato con la sua solita aria
protettiva e tornò alla sua occupazione.
Non capivo a cosa si riferisse
Marco riguardo la cosa che
stava per succedere, e decisi di non badarci più tanto,
specialmente quando
Michele e i ragazzi mi raggiunsero con una bottiglia di Baileys per
brindare
per il voto dell’esame.
All’una, finito il mio
turno, trovai papà fuori al locale ad
aspettarmi, appoggiato alla sua Citroen nera,
e corsi verso di lui dopo averli salutati.
“Papà!”
esclamai.
“Luna, allora?”
chiese, impaziente. I capelli castani un po’
ribelli come sempre gli conferivano un’aria più
giovane dei suoi quarantatré
anni, del mio stesso colore, proprio come gli occhi. “Sono
appena tornato dalla
redazione, ho perso tutta la mattinata dietro un articolo sullo
sfruttamento
minorile in Kazakistan, non ti dico”.
“Questi sono i rischi e
pericoli che corre un giornalista”
ribattei sarcastica, accennando al suo mestiere che amava con tutto
sè stesso.
“Comunque, indovina?”.
“Mmm, non voglio
esagerare, per cui dico ventisei” azzardò.
Scossi il capo e sorrise.
“No? E allora quanto…?”.
“Ventotto!”
esultai.
I suoi occhi vispi si allargarono
in un’espressione radiosa
e mi abbracciò. “No! Non mi dire!
Magnifico!”.
Per tutto il tragitto non feci
altro che raccontargli
dettagliatamente l’esame, a partire dall’orribile
cravatta del professore,
tanto che mi dimenticai di dirgli che eravamo ospiti di zia Kitty, e me
lo
ricordai solo quando parcheggiò nel cortile del palazzo in
cui abitava la nonna
insieme a nonno Gianfranco.
“Vabbè, poso
la borsa e andiamo” disse quando lo informai,
invitandomi a seguirlo.
Obbedii, e due minuti dopo ci
ritrovammo davanti zia Carola
che ci aveva aperto la porta d’ingresso. Come tutte le donne
di famiglia era
bruna, con un’altezza media e una quarta abbondante di
reggiseno, ma era raro
vederla in giro dato che era una ginecologa e aveva sempre molto da
fare. Era
la sorella maggiore di papà, a lei si succedevano altre
quattro sorelle e,
infine, dopo tante preghiere del nonno, era arrivato papà.
“Zia, ciao!” la
salutai, sorpresa nel trovarla lì a
quell’ora. Non ci vedevamo da un paio di settimane.
“Che ci fai qui?” chiesi.
Lei sorrise mentre mi dava un bacio
sulla guancia. “E potevo
mica mancare ad un simile evento!”.
Feci un respiro di rassegnazione,
dato che sentivo mille
voci diverse provenire dalla cucina.
“Zia Kitty ha sparso la voce anche
qui” mormorai.
“Io non ho sparso un bel
niente”.
Restai sorpresa nel trovarmi la mia
zia preferita davanti,
in contrario al nostro accordo precedente circa il pranzo. Aveva i suoi
soliti
capelli rosso ramato, ovviamente tinti, raccolti in una mezza coda e mi
stava
squadrando con i suoi occhi di un azzurro chiaro, che rendevano ancora
più
dolci i suoi lineamenti.
“E allora
cosa…?” chiesi senza capire, cosa che
però avvenne
quando sentii un acuto: “Luna!” provenire da una
voce che conoscevo molto bene.
Feci un passo indietro mentre mi
ritrovavo davanti quella
che sarebbe dovuta essere la mia copia genetica, più
sorridente che mai, avvolta
in un vestito di velluto blu elettrico che le metteva in risalto la
lunga
chioma castana tutta boccoli simile alla mia e il volto truccato
perfettamente
come se fosse una bambola di porcellana. E, peggio del peggio, alle sue
spalle
vidi comparire anche Marco.
“Stella”
replicai freddamente, incredula. “Che ci fai qui?”.
Mi voltai verso papà,
che sembrava a sua volta sorpreso di
vederla. Tuttavia sembrò decidere di mettere da parte le
domande e le si
avvicinò per abbracciarla. Dal canto suo, Marco mi guardava
con aria
soddisfatta, con le braccia incrociate e il mento alzato.
Stella, dopo essersi separata da
papà, corse ad abbracciarmi
a sua volta, mentre tutto il resto della famiglia ci guardava.
“Non ce la
facevo più a stare a Firenze, il lavoro con mamma non mi
piace, mi sento la
ruota di scarto, e così mi sono trasferita anche io qui,
volevo farti una
sorpresa… Non è magnifico? E poi mi mancavi
tanto…”.
Feci una risata priva
d’allegria, e mai come in quel momento
mi sentii diversa da lei, lontana mille anni luce nonostante fossimo
gemelle
omozigote. Avrei preferito che quella
festa nonostante tutto sarebbe stata dedicata a me e al
mio esame, e
invece ecco che in un giorno così felice per me, passava
quell’uragano di
Stella a rovinarmi la giornata. Maledetto oroscopo. Ci aveva azzeccato.
E
maledetto quel Marco che non la smetteva di godersela.
“Giusto, ti
mancavo” la canzonai.
Lei fece finta di non capire.
“Comunque ho preso
ventotto” dissi ad alta voce, in
direzione della nonna, una donnetta piccolina con i lunghi capelli
bianchi
legati in una crocchia.
“Ventotto? E’
buono?” chiese.
Seconda doccia di acqua fredda.
Sbuffai, scansandomi dalla
mia gemella.
“Ma in realtà
stiamo festeggiando un’altra cosa, diciamo che
più che altro abbiamo preso due piccioni con una
fava…” s’intromise mia cugina
Flavia, al fianco del suo fidanzato storico Clemente. Figlia di zia
Carla, era
sempre stata una sorta di modello della perfezione in famiglia; aveva
venticinque anni e si era appena specializzata come architetto con il
massimo
dei voti.
“Si, infatti”
asserì il suo fidanzato, cinque anni più
grande di lei.
Non mi presi nemmeno la briga di
domandare cosa fosse
successo, anche perché subito Flavia disse: “A
gennaio ci sposiamo!”, per poi
mostrarmi l’anello che portava all’anulare
sinistro, simbolo di quella promessa.
“Oh” mormorai.
Certo, la sorpresa c’era, ma al momento ero
presa dalla notizia della venuta di Stella, cosa che ritenevo
impossibile fino
a poche ore prima. Mi congratulai, come si era soliti fare.
“E mi hanno chiamato
visto che io e la mia band suoneremo
durante il ricevimento” aggiunse Marco, mentre Flavia gli
sorrideva.
Lo fulminai con lo sguardo e lui
imitò una faccia da
angioletto.
“Scusate, devo andare in
bagno, sono stanca, stamattina ho
anche lavorato” ribadii mezzo minuto dopo, non potendone
più, ma
quasi nessuno mi sentii, erano tutti presi
dal chiedere qualcosa a Stella o ai neo sposini.
I miei momenti di gloria erano
durati per quattro brevi
lunghi mesi, troppo corti per poter ripagarmi diciott’anni
vissuti all’ombra.
Sentii dei passi seguirmi nel
corridoio e non mi presi
nemmeno la briga di controllare chi fosse.
“So perché ce
l’hai con me, ma non è colpa mia se lui ha
preferito me a te!” disse la voce di Stella, esasperata.
“E poi l’ho
lasciato!”.
“Zitta, non hai la
facoltà di essere al centro del mondo per
quanto possa risultarti difficile, quindi lasciami in pace. Non me ne
frega
nulla di Chris, e ormai nemmeno di te” ribattei.
“Se così fosse
non faresti questa scenata. E poi, di che ti
lamenti? Non posso di certo biasimare quel tipo per aver scelto Stella!
Sei
così odiosa quando ti ci metti che sfido chiunque a
sopportare la tua presenza
per almeno dieci secondi” s’intromise Marco, che
stava venendo verso di noi.
Sembrava proprio infuriato, come se la questione riguardasse lui in
prima
persona.
Mi inalberai per la rabbia. Ci
mancava solo il giudice
difensore. “E allora perché non te ne vai visto
che la mia presenza è così
fastidiosa? E poi non mi sembra di aver chiesto il tuo
giudizio!” esplosi,
sentendo le guance andarmi a fuoco e il cuore battermi a diecimila.
Ecco rovinata la vita che per una
volta mi ero scelta e mi
piaceva. Li guardai un’ultima volta con risentimento prima di
entrare in bagno
e sbattergli la porta in faccia.
Ma ci restai male quando sentii i passi della mia gemella
allontanarsi decisi e
non urla di protesta.
*°*°*°*°
Ciao a tutti! Ed ecco che ho
aggiunto il primo capitolo…
Cosa ve ne sembra? Al momento vedremo l’attenzione
concentrarsi su Luna e
Stella e sul loro rapporto,
ma non
dimenticate che questa è una storia romantica, e ne vedremo
delle belle se vi
piacciono i "casini"…
Immagino ci sia stato un po’ di stupore nel vedere che la storia è narrata dal punto di vista di Luna quando nel prologo a parlare era Stella, ma ci tengo a precisare che la protagonista è proprio Luna, quindi non credo che vedremo qualche altra parte narrata dalla sua gemella.
Ribadisco che in ogni
cap ci sarà un titolo più un sottotilo alias una
canzone di Vasco che meglio rappresenta la situazione, anche
perchè il titolo stesso della fic è dovuto ad una
sua canzone.
Comunque, grazie mille a coloro che
hanno messo la fic tra
le storie seguite:
brennan
chica KM
CriCri88
huli
alina 95
pirilla88
vero15star
__piccola_stella_senza_cielo__
e coloro che
hanno letto e che hanno recensito:
Blair95:
Innanzitutto ti faccio per i complimenti per il nick, credo si
riferisca
a Blair di Gossip Girl, giusto? Io adoro quel telefilm e soprattutto
Blair e
Chuck… Infatti credo avrai visto dalla foto che ho messo a
inizio cap che per
rappresentare Luna ho scelto proprio Leighton Meester ^^ Comunque,
spero che
anche questo primo cap ti sia piaciuto! Io non ho una sorella, quindi
diciamo
che ho dovuto inventare come ci si sente ad avere una gemella come
Stella xD
CriCri88:
Carissima! Lo sai che non mi tormenti mai ^^ Eh si, i
problemi ci
sono, ma lo sai che non per me non c’è gusto a
scrivere se non c’è caos e non
si formano trame degne delle Guerre Mondiali xD Spero che anche questo
cap ti sia
piaciuto, e riguardo al blocco stai tranquilla perché sono
in pieno periodo di
interrogazioni a scuola, quindi dovendo studiare senza poter scrivere
comporta
un aumento di idee e voglia di scrivere. Un bacione carissima!
alina
95: Ciao, che bello vederti anche qui ^^ Mi fa piacere
che la storia
ti piaccia già, e riguardo a chi sarà la tua
preferita, beh, hai tanti cap a
disposizione per decidere, anche se credo che con il proseguire degli
avanti
Luna diventerà un po’ la preferita, a causa di
alcuni comportamenti di Stella, anche se poi tutto è
soggettivo. Per il
blocco stai tranquilla, è superato, devo solo avere un
po’ di tempo e mi metto
a scrivere il 5° ^^
vero15star:
Tesoro, stai tranquilla, tutti siamo impegnati e a volte
capita
di non avere tempo ^^ Tanto so che posso contare
su di te come tu puoi contare sempre su di me
=) E’ bello sapere che anche questa storia ti piaccia, sul
serio, e so che sei
sincera. Che dici, Marco ce lo dividiamo? xD Ti voglio un mondo di bene
piccola!
_piccola_stella_senza_cielo_:
Ecco qua il primo capitolo, spero che ti
piaccia e che abbia colmato un po’ la tua
curiosità ^^ Grazie mille =)
Angel
Texas Ranger: Si si, questa volta si parla di due
gemelline un po’ particolari…
Spero ti sia piaciuto questo cap ^^ Un bacione!
Visto che mi sento magnanima xD vi
lascio qualche anticipazione….:
“Parliamo
italiano” disse Feliz, continuando a sorridermi.
“Il
piacere è tutto mio”.
“Piantala,
lo sai che io sono dalla tua parte come quel Marco
sta dalla parte di tua sorella” annunciò.
“Dico
che vi auguro di fare più successo di quelli della
pubblicità della Tim ora che avete la vostra
Fiammetta” dissi sarcastica.
“Che
cosa? Vuoi paragonarmi a quella sgallettata?” chiese Stella
offesa.
… curiosi? Beh, allora
non mi resta che dirvi che ne
scoprirete molto di più nel prossimo cap! ^^
A presto,
la vostra milly92.