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Autore: MartinaN    09/11/2009    0 recensioni
Si ritrovò con le forbici in mano; guardò in basso e impallidì. Le lame gemelle erano piantate nel petto della donna. E c’era sangue, sangue dappertutto. Sangue sulle sue mani, sangue su quel ridicolo vestito nero, sangue sulle forbici. Sangue. E, a fare da cornice, lo sguardo vuoto di Virginia. [FanFiction partecipante all'iniziativa Criticombola indetta da Criticoni.net]
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Sylar
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Doverosa premessa: Questa FanFiction partecipa all’iniziativa Criticombola indetta da Criticoni.net. Il prompt utilizzato è il numero 9 – forbici.

Varie ed eventuali: Una mia personale interpretazione dell’evento che segna la nascita di Sylar. Grazie ad Ando per i nostri scleri ricorrenti su questo magnifico telefilm e al Fato, che mi ha benevolmente assegnato un prompt perfetto. Appena ho letto “forbici”, l’idea si è subito materializzata nella mia mente.

Enjoy!

 

Too  late

«Tu non sei mio figlio, sei un mostro!» Incredibile come una vocetta stridula e ansiosa potesse ferire più di uno stiletto conficcato nel cuore. Gabriel non si era mai sentito così male in tutta la sua insignificante vita.
«Mamma, mamma, ti prego...» Le stesse frasi sconnesse che aveva continuato a mormorare negli ultimi dieci minuti. Un tono implorante e disperato, un viso trasfigurato dal dolore.

«Tu... Tu non meriti di vivere.» Fu allora che vide le forbici. Le stesse con cui aveva involontariamente ferito la madre poco prima. Le stesse che gli avevano impedito di spiegare le sue vere intenzioni. Virginia Gray le impugnava con una presa tremolante, ma sul suo volto campeggiava uno sguardo deciso.

«Mamma, io non voglio farti del male. Non voglio fare del male a nessuno.» Parole pronunciate a stento, parole che sarebbero parse vuote e futili.

«Non... Non puoi...» Un lampo di esitazione negli occhi.. Un leggero tremolio della mascella. Forse fare del male al proprio figlio non era facile come pensava.

«Per favore, mamma.» Sussurrò Gabriel. Alzò lentamente la mano e la avvicinò al viso della donna, come per confortarla. Quel piccolo gesto fu la loro maledizione.

«No! Stammi lontano!» Strillò Virginia Gray, appena prima di avventarsi sul giovane. Quella breve colluttazione sarebbe rimasta come un confuso ricordo nella mente di Gabriel. A distanza di anni, la sensazione più vivida che avrebbe conservato sarebbe stato il soffocante odore di naftalina che da sempre aleggiava nella casa, misto a quello ferroso del sangue.

Si ritrovò con le forbici in mano; guardò in basso e impallidì. Le lame gemelle erano piantate nel petto della donna. E c’era sangue, sangue dappertutto. Sangue sulle sue mani, sangue su quel ridicolo vestito nero, sangue sulle forbici. Sangue. E, a fare da cornice, lo sguardo vuoto di Virginia.

«Ga...briel...» Un rantolio, poi più nulla. Troppo tardi.

«No.» Mormorò il giovane, incredulo. Ritrasse le mani dalle forbici, come se scottassero, e continuò a fissare la madre. Era morta. Troppo tardi.

«NO!» Quell’urlo straziato risuonò maldestramente fra le quattro mura dell’appartamento. Troppo tardi. Troppo tardi per qualsiasi cosa.

In preda a una furia assassina, Gabriel si avventò sugli scaffali contenenti i globi di neve preziosamente custoditi dalla madre. Parigi, Madrid, Los Angeles, Sydney. Mere imitazioni di una realtà che Virginia Gray aveva potuto soltanto sognare. Troppo tardi.

Le mani erano imbrattate da una fastidiosa poltiglia, composta da acqua, neve finta e sangue. La stanza era nel caos più assoluto, e probabilmente non sarebbe migliorata. Ma non importava. Niente di tutto ciò importava. Era troppo tardi.

“Non doveva finire così.” Si ritrovò a pensare il giovane. Non era ciò che aveva programmato, non era ciò che avrebbe voluto. Un sordo dolore inondò il suo petto, mentre tutta la stanza girava attorno a lui. Tutto ciò che vedeva erano quelle maledette forbici. Troppo tardi.

Tic tac tic tac

Tic tac tic tac

L’avambraccio sinistro fu sollevato con un movimento istintivo. Stava succedendo un’altra volta. Il ticchettio non proveniva dall’orologio: era nella sua testa. Ma non solo: risuonava in tutta la stanza. Quella melodia perfetta e immutabile lo stava facendo impazzire. O, forse, lo stava cambiando irreversibilmente. La risposta stava tutta nell’eterno ticchettio della sua mente. E, almeno in quel caso, non era ancora troppo tardi.

  
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