Una Notte Di Luna Piena
1.
La volpe
arancione
In
quel momento era in piedi sulla cima di un grattacielo, a pochi centimetri dal
bordo dell’edificio. Una brezza leggera gli scompigliava i capelli, mentre con
gli occhi socchiusi si godeva la pace di quel momento. La Luna era quasi piena,
e neanche una nuvola copriva il cielo stellato, steso sulla città come un manto
nero ornato di centinaia di diamanti.
Nulla turbava il silenzio, solo i
rumori della strada che giungevano ovattati fin lassù, appena percettibili. Le
centinaia di luci colorate che illuminavano così tanto
il terreno, fino a stordire chi non vi fosse abituato, erano per lui un lieve
alone di lucine tremolanti, come se si trovasse sospeso sopra un mare di
lucciole colorate.
Le piume delle sue ali erano appena
mosse dal vento, le sue mani chiuse a pugno ma
rilassate, il corpo che ondeggiava lentamente alla ricerca di un equilibrio. Un
sorriso appena accennato si apriva sul suo volto.
Takuto Kira aprì gli occhi.
Sospeso tra cielo e terra, si sentiva
avvolto in un bozzolo di pace in cui il tempo scorreva in maniera infinitamente
più lenta rispetto al caos sottostante, ma infinitamente più veloce dell’eterna
quiete delle stelle.
Volse lentamente lo sguardo verso il
basso. Nulla poteva turbare quella calma, nulla poteva
interrompere quel silenzio, nulla poteva…
“MALEDIZIONE!” Urlò all’improvviso
sgranando gli occhi, e dopo essere saltato giù piombò
in picchiata verso la strada.
“Ah no, se ci prova anche stavolta gliela stacco quella coda!” Pensò mentre
raggiungeva velocemente il terreno. Troppo velocemente.
Si accorse troppo tardi che forse era
sceso troppo in fretta, e rallentò bruscamente un attimo prima di schiantarsi a
terra, continuando a volare a livello della strada. Ma non potè
tirare un sospiro di sollievo, perché un rombo assordante e un’esplosione di
luci gli fece capire che stava volando dritto contro
un camion! Scartò a sinistra, per ritrovarsi giusto in mezzo alla carreggiata,
e dopo uno slalom frenetico fra le macchine attraversò la strada a tutta
velocità urlando a squarciagola, fino a schiantarsi dentro un cassonetto
dell’immondizia, che tremò con un fracasso assurdo, prima che tutto ripiombasse
nel silenzio.
Takuto emerse
dai rifiuti togliendo una buccia di banana dal suo cappello e mormorando parole
decisamente irripetibili. Un attimo
dopo il coperchio del cassonetto si richiuse sulla sua testa con un tonfo
metallico.
Nel frattempo una vecchietta che doveva
avere almeno un’ottantina d’anni camminava dall’altro lato della strada,
appoggiandosi ad un bastone e guardando furtiva
attorno a sé attraverso un paio di occhiali spessissimi, mentre teneva stretta
sotto l’ascella una borsetta di pelle.
Un passetto dopo l’altro si affrettava
velocemente verso la fermata dell’autobus, avvolta in abiti pesanti nonostante
il caldo, e dando l’impressione di potersi sgretolare da un momento all’altro.
“Che ci fai qua tutta sola, nonnetta?”
Una voce ruppe il silenzio facendo fermare di colpo la vecchietta, che si voltò
tremante verso la fonte del richiamo. A parlare doveva essere stata per forza
una ragazza, anche se la voce suonava dura e innaturale.
L’anziana signora strizzò gli occhi per
guardare meglio, e vide una giovane in piedi su un muretto alto un paio di
metri accanto a lei, che la guardava con aria di sfida, le mani poggiate sui
fianchi e un sorriso beffardo in volto.
La ragazza indossava un paio di
scarpette, una minigonna, una camicetta arricciata coperta sulla pancia da una
specie di corpetto, dei guanti a righe e un paio di maniche rigonfie; il tutto,
tranne la camicia bianca, di un arancione sgargiante.
Ma ciò che colpiva di più nel suo
aspetto erano altri particolari: un grosso cappello senza visiera, sempre
arancione, sul quale troneggiavano due orecchie da volpe, una delle quali era leggermente piegata verso l’esterno; una
coda di volpe molto grande che le spuntava sul retro della camicetta e che
ondeggiava lentamente; un’asta che teneva in mano che finiva con una grande
chiave appuntita molto stilizzata e, per finire, due piccole ali come quelle di
un angelo.
La strana ragazza saltò giù dal
muretto, atterrando senza fare rumore davanti alla vecchia. La guardò
attentamente, rivelando due occhi di un azzurro stupefacente e un visino dai
lineamenti delicati.
“Lo sai che non dovresti girare da sola
a quest’ora, vero?” Mormorò mentre la sua coda continuava ad
ondeggiare, e sollevò lentamente l’asta, che terminava con una punta
affilatissima sulla quale si rifletteva la Luna, facendola rilucere di un
bagliore sinistro.
La
vecchietta si fece piccola piccola,
osservando la ragazza che le si avvicinava fluttuando lentamente.
“AAAARGH!!!”
Un fortissimo urlo ruppe il silenzio e
le due donne si voltarono verso la strada, da dove proveniva il grido. O
meglio, fu la vecchia a girarsi, perché la ragazza non fece neanche in tempo a
volgere lo sguardo che Takuto le piombò addosso e la
gettò in un vicolo, avvinghiandosi a lei in una lotta.
I due cominciarono
a prendersi a pugni e a insultarsi a gran voce, sotto lo sguardo perplesso
della vecchietta che si avvicinò lentamente al groviglio di corpi. Osservò per
qualche secondo i due con un espressione curiosa sul
volto, che si trasformò presto in una smorfia di rabbia.
“Giovinastri che non siete altro, come
vi permettete di importunare una povera signora indifesa!” Urlò, e cominciò a
prendere selvaggiamente a bosettate i due. Takuto si voltò per protestare, ma dopo aver ricevuto la
cerniera della borsa nell’occhio si separò dalla
ragazza e si mise a correre insieme a lei, entrambi inseguiti dalla vecchietta
furiosa.
Dopo aver constatato
che non sarebbero riusciti a seminarla, e aver ricevuto entrambi una serie di
colpi sulla testa, i due si alzarono in volo terrorizzati portandosi sulla cima
di un palazzo, inseguiti dalle grida della vecchietta:
“E non fatevi più vedere!”
Takuto e la
giovane si chiusero freneticamente nella tromba delle scale dell’edificio, e
dopo aver constatato che non erano inseguiti si
accasciarono con le spalle alla porta, ansimando pesantemente.
Appena ebbero ripreso fiato, i due si
voltarono lentamente l’uno verso l’altra, e si
fissarono in silenzio per un paio di secondi.
“Maledizione… non posso credere che
l’hai fatto di nuovo!” Tentò di urlare Takuto, costretto però a fermarsi per il fiatone.
“Ah, io? Ma sei stato tu a interferire!” Rispose lei stizzita, parandosi di
fronte a lui.
“Ma sentila! Come ti permetti?” Takuto si rizzò e
provò invano a torreggiare su di lei.
“Brutto…” Ma non finì la frase, perché
si gettò di nuovo addosso a lui, e i due ricominciarono a lottare.
La situazione non cambiò quando si
trasformarono in forma animale, Takuto in un micino e
la ragazza in una piccola volpe arancione con la coda e le orecchie molto
grandi, e gli occhioni azzurri che troneggiavano sul
visino. L’asta si era tramutata in un piccolo ciondolo a forma di chiave che
pendeva dal collo della volpe.
Continuando a combattere, persero
l’equilibrio e rotolarono giù per le scale, rimbalzando per un paio di piani
come una grossa palla di pelo in cui si distinguevano ogni tanto delle membra
aggrovigliate, e dal frastuono si udiva qualche insulto affibbiato all’uno o
all’altra.
I due smisero di rotolare giù per le
scale, fermandosi su un pianerottolo e continuando a fare un baccano assurdo
mentre Takuto tirava la coda alla piccola volpe e lei
gli mordeva le orecchie.
Ad un tratto
un lampo di luce invase la tromba delle scale e i due si bloccarono come
paralizzati, fissando il pianerottolo al di sopra di dove si trovavano loro, da
cui continuava a spandersi una luce abbagliante, mentre un varco circolare si
apriva lentamente crepitando di energia.
“Oh-oh…”
dissero piano il gattino e la volpe, guardandosi.
Il varco si fece sempre più grande, finchè nel suo centro si cominciarono a materializzare i
contorni di una figura umana che brandiva una grossa falce.
Izumi uscì
lentamente dal varco, fluttuando giù dalla rampa di scale verso i due
animaletti. L’energia che turbinava attorno a lui gli
scompigliava i capelli e gli faceva ondeggiare i vestiti, ma il suo
volto era segnato da una profonda calma, e lo sguardo da una severità
tagliente.
Li raggiunse piano, mentre loro lo
guardavano impauriti sbarrando gli occhioni.
“Takuto.”
Mormorò, e il micetto rabbrividì.
“Aryuna”
Disse con voce ancora più bassa, e la piccola volpe abbassò le orecchie
guardandolo dal basso verso l’alto.
“Esigo una spiegazione.” Si posò
sull’ultimo gradino, osservandoli senza far trasparire alcuna emozione.
Il silenzio durò ancora per pochi
secondi, dopodiché Takuto e Aryuna,
tornati in forma di messaggeri, cominciarono a urlare le loro spiegazioni in un
miscuglio indefinito di parole che avrebbe fatto impazzire chiunque.
“SILENZIO!!!”
Urlò Izumi e i due si azzittirono nuovamente
all’istante. “Takuto, prima tu.”
Takuto guardò
sogghignando Aryuna, che in tutta risposta gli fece
una linguaccia.
“Beh, io stavo aspettando la vittima
designata in tutta tranquillità, quando ho visto lei” e sottolineò
con la voce questa parola “che stava lì tutta tranquilla aspettando la vecchia!
È stata tutta colpa sua, lei non doveva essere lì, toccava a me recuperare
quell’anima!”
“Ma guarda un
po’!” Urlò Aryuna, scattando in piedi. “Io avrei
recuperato subito quell’anima se non fosse arrivato lui” e sottolineò
questa parola ancora più di quanto aveva fatto Takuto
“e mi avesse buttato a terra senza motivo!”
“Senza motivo?” Intervenne Takuto, e ripresero ad urlarsi
addosso sotto lo sguardo a metà fra lo stupito e il rassegnato di Izumi.
“Fatemi capire bene…” Riuscì a farli
tacere un’altra volta anche parlando a bassa voce “io vi ho chiesto di
collaborare per recuperare un’anima, e voi non solo vi siete ostacolati a
vicenda, tralasciando inoltre la prima regola fondamentale, ovvero
non mostrarsi agli umani, ma avete anche sbagliato persona, visto che la
vecchia alla quale dovevate prendere l’anima era DALL’ALTRA PARTE DELLA
STRADA!!!! Non avete nulla da dire, ora?”
Lo sguardo di Izumi
passò lentamente da Takuto che si toccava
piano gli indici deglutendo, ad Aryuna che disegnava
cerchietti sul pavimento.
“Ora mi avete davvero stufato! Ho
accettato l’incarico di addestrarvi ad usare i vostri
poteri per prepararvi ad ottenere incarichi ufficiali con dei messaggeri di
morte esperti come compagni - e spero proprio di non dover essere io uno di
questi - ma da una settimana dopo che avete ricevuto i vostri abiti non siete
riusciti a combinare nulla, dico nulla di buono!” Visto che i due continuavano
a stare in silenzio, proseguì “Vogliamo parlare di quando tu, Takuto, non sei riuscito a ritrasformarti da gatto e sei
stato inseguito per dieci isolati da un pitbull? Aryuna,
non ridacchiare! Vogliamo invece parlare di quando tu hai provato ad
attraversare un muro e hai lasciato la coda dall’altra parte?”
I due, trasformatisi nuovamente in
animaletti, erano il ritratto della tristezza.
“Per non parlare di come non la finite
di punzecchiarvi e ostacolarvi! E ora, che ho provato a insegnarvi come una
coppia di messaggeri di morte deve agire in perfetta simbiosi per recuperare
un’anima, voi vi ostacolate a vicenda? Beh, se è la competizione che volete,
allora l’avrete! Seguitemi.”
L’ultima parola fu pronunciata con
un’autorità tale da non ammettere repliche, e i due seguirono Izumi nel varco, dandosi dei piccoli calcetti a vicenda.
Takuto,
varcando il cerchio di energia, socchiuse gli occhi e nascose una smorfia di
dolore. Ancora non si era abituato all’attraversamento di un varco. A crearne,
poi, non ci si avvicinava neanche. Un attimo prima di entrare nel varco lanciò
un ennesimo sguardo torvo ad Aryuna.
Era inutile negarlo, lei era molto più
brava di lui. E il problema era che lo sapeva benissimo, e non mancava mai di
farglielo notare. Nonostante entrambi fossero novellini, Aryuna
imparava in fretta a dominare tutti i suoi poteri, e lui restava costantemente
indietro. Sentiva come una forza che lo tirava indietro ogni volta che provava
a volare, o a trasformarsi, o a mostrarsi agli umani, ma non aveva idea del
perché. Né si era sognato di dirlo a Izumi,
ovviamente.
Chissà, magari era stato così per tutti, all’inizio.
Dopotutto, doveva ancora abituarsi all’idea. Un messaggero di morte… sembrava
così irreale! Era passata appena una settimana da quando si era risvegliato,
convinto di aver abbandonato il mondo, e invece era ancorato ad
esso. Nessuno aveva dovuto spiegargli la sua situazione, il suo ruolo, o la sua
pena infinita da scontare: ne aveva avuto coscienza subito, non sapeva neanche
come. E così, lui che aveva scelto di abbandonare la vita, era costretto a
sottrarla agli altri, giorno dopo giorno, senza
tregua.
Messaggero di morte… così lo aveva
chiamato il capo, avvolto nel suo mantello, assolutamente imperscrutabile. E
aveva conosciuto Izumi, altrettanto silenzioso e
chiuso, che era stato costretto ad occuparsi dei nuovi
arrivati. Era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, e Takuto
lo sapeva bene. D’altronde, Izumi glielo faceva
notare continuamente.
E poi c’era lei. Saccente, egocentrica,
logorroica. Estremamente
logorroica. Non si erano piaciuti dal primo momento, e l’antipatia tra i due si
era accresciuta in maniera esponenziale. Dopotutto, Takuto
non aveva mai incontrato una persona con la testa più dura della sua, ed ora che era successo il risultato era ben visibile.
Il ricordo del loro primo incontro era
assolutamente indelebile: tempo prima, Takuto aveva
preso da poco coscienza del fatto che ciò che gli stava accadendo non era un
sogno, e si trovava in uno stanzone immenso pieno di scaffali.
Izumi l’aveva
mandato lì dentro a prendere i suoi nuovi vestiti, dopo avergli spiegato
che una volta finito l’addestramento il suo lavoro sarebbe stato recuperare le
anime dei bambini, e l’abbigliamento doveva essere “adatto allo scopo”. Con una
smorfia Takuto stese una mano per afferrare il suo
cappello con sopra due orecchie da gatto, e la sua mano si sfiorò con quella di
Aryuna.
I due sollevarono lentamente lo
sguardo, e si fissarono negli occhi per pochi istanti.
“Scusa, questo cappello è mio.” Disse
lei tirandolo lievemente verso se stessa.
“Veramente è mio, devi esseri sbagliata”
“Ah certo, lo sapevo! Sono appena
arrivata e già qualcuno comincia a fare il prepotente! Allora, bello, quello è
il mio cappello, quindi dammi il mio cappello e la facciamo finire qui, visto
che quel cappello è mio!”
Takuto la guardò sgranando gli
occhi, mentre lei cominciava a tirare più forte.
“Diamine, la vuoi
finire? Guarda che così lo strapp…”
Non potè finire di parlare che su un lato del
cappello si aprì un lungo strappo. I due si bloccarono, e Takuto la guardò socchiudendo gli occhi.
“Hai rotto il mio
cappello!” Urlò Aryuna “Io odio quando qualcuno rompe
le mie cose! Come ti sei permesso! Ora vedrai che ti
combino!” E si allontanò sbraitando.
Takuto
indossò il cappello, che ovviamente era suo, scuotendo piano la testa. Per
fortuna lo strappo era proprio sul davanti, e avrebbe potuto farci passare i
suoi capelli. Si affacciò per guardare che fine avesse fatto quella matta e la
vide che saltellava felice intorno a un altro cappello, urlando:
“O mio Dio, è fantastico! È tutto
arancione! È proprio il mio cappello!”
Da quel momento si impose
di non averci più nulla a che fare, e poco dopo i due scoprirono di dover
essere addestrati insieme da Izumi. Il resto, furono
pure conseguenze.
Takuto
sospirò ripensando a quel momento, e si passò la mano sul cappello, cucito alla
bell’e meglio per far sembrare che lo strappo ne facesse
parte.
Sì, doveva scontare una pena, ma era
sempre più convinto che non fosse essere un messaggero di morte, ma sopportare
quella specie di volpe arancione!
Il varco si richiuse e i tre furono
catapultati in un altro luogo. Takuto e Aryuna si guardarono intorno, cercando di capire dove
fossero finiti.
Si trovavano
sulla cima di un altro grattacielo, ai confini della città, e davanti a loro
c’era un grande edificio, una specie di villa circondata da un parco. Il
cortile era pieno di bambini che giocavano tra scivoli, altalene e altre
piccole giostrine.
“Qui si deciderà chi tra voi otterrà il
suo primo incarico.” Sussurrò Izumi, e i due lo
fissarono allibiti.
“Di già?”
Pensò Takuto. “Ma non è troppo
presto? L’addestramento è appena cominciato!” e
osservando l’espressione di Aryuna vide che
probabilmente pensava le stesse cose.
“So quello che volete
dire” continuò il messaggero di morte, come leggendo i loro pensieri “Ma non ho
altro da insegnarvi. Il resto lo imparerete strada facendo. Ora, visto che amate tanto le sfide, ve ne impongo una. In questo
palazzo c’è un anima da recuperare, l’anima di un
bambino di nome Yu. Sulla lista c’è scritto che è
destinato a morire in una notte di questo mese, quando la Luna splende fino ad offuscare tutte le altre luci. Visto
che alla Luna Piena mancano tre giorni, quella notte non deve essere
molto lontana. Perciò, a partire dalla prossima notte,
sorveglierete quel bambino. Il primo di voi che mi porterà la sua anima avrà
diritto a diventare un messaggero di morte e otterrà il suo primo incarico
ufficiale. Ora vi spiegherò di chi si tratta, e come dovrete agire…”
Takuto guardò
ancora Aryuna, assorta nell’ascolto delle parole di Izumi. Non gliel’avrebbe data vinta. Lei era più brava di lui ad usare i suoi poteri, certo, ma non avrebbe permesso che
questo le desse un vantaggio. Essere un messaggero di morte era qualcosa che
non riusciva ancora a comprendere, e diventandolo ufficialmente avrebbe potuto
imparare di più, soprattutto da un compagno esperto. Non voleva essere sospeso
ancora a lungo in quella condizione indefinita. Gli dispiaceva per Aryuna, ma lui sarebbe diventato un messaggero prima di
lei. Anzi, in realtà non gli dispiaceva affatto.
Lei lo guardò e gli fece l’occhiolino. Takuto rispose con un breve sorriso di sfida. Di certo Aryuna era sicura di vincere. Beh, gli avrebbe fatto vedere
chi comandava! Si voltò verso l’edificio, osservando i bambini che giocavano.
Chissà, di quale ragazzino avrebbero dovuto rubare l’anima? E cosa si provava
nel rubare l’anima ad una persona? Presto l’avrebbe
scoperto. Izumi ripeteva sempre che la prima regola
era lasciare le emozioni fuori dalla porta, ma lui non credeva di sentirsi
pronto. Si sentiva ancora troppo… umano.
Guardò la targa sul cancello
dell’edificio e vide che la struttura era un orfanotrofio. Un luogo adatto per
terminare l’addestramento di un messaggero di morte, pensò. Poi riprese a dare
ascolto alle parole di Izumi.
Intanto nel cortile dell’orfanotrofio
una bambina rideva felice sull’altalena, spinta da un
ragazzo un po’ più grande di lei.
“Dai, Eichi,” gridava, “più in alto, più in alto!”
“Va bene, va
bene! L’hai voluto tu! Reggiti forte, Mitsuki!”
Continua...