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Autore: Fissie    14/11/2009    6 recensioni
Ti avevo già perso, ma l’ho capito solo adesso.
In questi due anni di agonia ho trascinato la mia vita aggrappandomi a bugie e falsi ricordi.
Eppure non potevo lasciare la presa, non potevo lasciarti andare, non senza prima averti dato l’ultimo pegno del mio amore:
tutto il perdono di cui sono capace.

Pensieri, desideri e paure poco prima di morire, quando tutte le luci si spengono.
[ Spoiler sulla puntata 2x13 dell'anime. Non leggete se non gradite le anticipazioni! ]
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lelouch Lamperouge, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Note
Ho scritto questa oneshot quasi un anno e mezzo fa, poco dopo aver visto la tredicesima puntata della seconda serie. Oggi l'ho ritrovata nella confusione del mio hard disk e ho deciso di condividerla con voi. Come ben avrete immaginato, il tema che fa da protagonista non è dei più originali: la morte di Shirley. Non era il mio personaggio preferito, né tifavo per la Lelouch/Shirley (sono una CluClu inside XD), ma la scena della sua morte mi ha colpita molto. Questi sono, dal mio punto di vista, i suoi ultimi minuti di vita, i suoi pensieri durante l'agonia.
Buona - spero - lettura,
Fissie.






Devo andare da lui. Adesso. Ha bisogno di me, lo so, lo sento, io devo stargli accanto, devo proteggerlo, io —
…sento il battito concitato del mio cuore pulsare contro la mano che stringo al petto, animata e spaventata al contempo dalla determinazione cieca che prorompe contro la mia gabbia toracica e accelera in questo modo il mio respiro.
Per quanto abbia cercato di negarlo, persino adesso continuo a pensare al tuo bene, Lelouch, e l’idea che tu combatta da solo contro il mondo è il motivo per cui sto impugnando ancora una volta una pistola. Per te, Lelouch, non c’è niente che non potrei fare, non c’è niente che non abbia già fatto. Anche adesso che so tutto, che so chi sei, anche adesso, che io, sciocca, conosco le tue molteplici maschere, i tuoi peccati, e il sangue di cui ti sei sporcato — oh, vorrei dire che tutto è cambiato, eppure... Non posso ingannare me stessa davanti al disperato bisogno che ho di sapere che stai bene. Laverò la tua coscienza se potrò o mi macchierò con te delle tue colpe, ma lascia che ti aiuti a reggere il peso di queste bugie, perché sono perdutamente innamorata di te. Ovunque andrai, anche all’inferno, ti seguirò.
Quindi aspettami.
Aspettami.
Sto venendo da te.

Un istante diluito in cinque secondi.



Buio.


~ Say goodbye




Dolore.
Cos’è questo dolore? Non c’è nient’altro che dolore, qui. Improvviso come un temporale estivo, si abbatte su di me schiacciandomi sotto il suo corpo di spilli.
E il contrarsi delle viscere mi mozza il fiato.
È talmente inaspettato che la gola secca e arida prosciuga le mie urla ed io inghiotto i cocci taglienti come vetro di questo tormento strozzato.
Il mio essere si riduce allo spasimo che mi sconquassa. È tutto ciò che sono in grado di sentire. Nella mia testa una sarta impazzita tesse la tela della confusione e dello smarrimento. Il mio corpo è solo carne che pulsa e brucia. Posso quasi sentire il tessuto dei miei polmoni strapparsi, perché il dolore che respiro è duro come piombo.
E fa male. Fa male. Dio, fa male.
Questo dolore è la mia unica consapevolezza, mi riempie la mente, è un rumore assordante, una fiera in gabbia che si scaglia con veemenza contro le pareti della mia calotta cranica, cercando una via di fuga da quest’incubo improvviso.
Cosa…? Quando…? Come…?
Un battito, prima di essere scaraventata in questo tormento inesplicabile.
Non… io… non capisco… Rolo… Rolo… era qui… stavamo parlando, e poi… poi —
I miei ricordi sono brutalmente recisi su quel “poi”, come un filo spezzato, ed io mi affanno a cercare il frammento mancante in quel groviglio di memorie, abusate e logore, che da troppo tempo non sento più mie.
Stanno ridendo di me. Si stanno ancora prendendo gioco della mia mente, la stanno violando di nuovo.
Vorrei piangere, vorrei disperatamente piangere, perché sono stanca di sentirmi estranea persino a me stessa, e forse sono lacrime ciò che scivola ai lati del mio viso inzuppandomi i capelli.
Lelouch. Dove sei… dove sei, Lelouch.
Dischiudo le labbra per chiamare aiuto, ma non ne esce che un fiato spezzato. Sono stordita, disorientata, smarrita, i miei sensi vacillano e sento le forze scivolare via dalle mie membra, mentre ad intervalli irregolari la mia vista si offusca.
Cos- cosa mi è successo? Non capisco… io non… non…
Una morsa di terrore mi serra la gola e un panico senza nome che non ho mai provato prima si riversa fuori dalle mie viscere, quando con le dita percepisco una sostanza umida e vischiosa allargarsi a macchia d’olio sotto il mio corpo, insinuandosi tra i miei vestiti, scivolando sul pavimento di marmo gelido.
… sangue? Dio… Dio…Dio…
Sento la paura precipitare sul fondo del petto, colpendomi il cuore con violenza, non appena realizzo che è il mio sangue. Ogni parte del mio corpo diventa più vivida, brutalmente sensibile come non lo era mai stata; posso percepire distintamente ogni vena e il sangue che sgorga copiosamente da essa, ogni tessuto, ogni organo, posso persino avvertire ancora la mia vita in quella chiazza vermiglia che ha appena abbandonato il mio corpo.
No. No, no, no!
Ho paura.
Ho paura. Ho paura. Sono sola.
- A… aiu… aiuto… - Il mio sospiro rotto dal dolore si perde nella vastità della sala e l’eco lo inghiottisce.
Sono paralizzata. Il desiderio di urlare preme contro l’imboccatura della mia gola, ma non riesco a farlo uscire, non riesco a comandare al mio corpo di agire, non so cosa fare e mi sento perduta. Mi terrorizza la consapevolezza che si sta impadronendo di me.
Morte. Morte. Pensavo che non si autoannunciasse.
È sempre stata una prospettiva così distante, quasi il vagheggiato miraggio di un pazzo, e adesso non mi è più estranea della vita.
Mi atterrisce realizzare all’improvviso che potrei spirare da un momento all’altro.
E dire che, non molto tempo fa, ho quasi invocato, desiderato, agognato questo momento.
Sta succedendo davvero?
Un’immagine attraversa la mia mente come un lampo, squarciando la tela dei miei pensieri frenetici e confusi.
Papà.
Com’è stato morire per te? Faceva così male come ne fa a me adesso?
Sono sola. Eri solo anche tu?
Vorrei tanto che mi tenessi la mano. Ho paura.
Mi chiedo a chi hai pensato in quegli ultimi istanti, papà, e mi spaventa l’idea di poter essere stata io. Non lo meriterei, papà, non lo meriterei.
Amo la persona che ti ha ucciso. Questa colpa, mascherata sotto le sembianze del perdono, mi fa tremare di vergogna. Forse è questo che rende così dolorosa ed estenuante la mia agonia? La morte che ti ha accolto respinge me, papà?
Ma fa male, fa male, papà. Non riesco più a sopportarlo —
…questo senso di colpa.
Vorrei che finisse. Lo sto desiderando con tutta me stessa.
Sono troppo debole per vincere i miei sentimenti. Continuerei a infangare la tua memoria, se sopravvivessi, lo so, lo so, papà, quindi forse la morte è l’unica soluzione possibile per me.
O è codardia, la mia? Fuggo davanti alla vita non appena si apre una breccia nella morte?
Ma lei mi apre le braccia, papà, e il suo oblio è così invitante.
Sto vacillando sul filo sottile della coscienza, mi sento cedere alle lusinghe del baratro, finché mi abbandono completamente al suo abbraccio, e scivolo nel vuoto.

Quando rinvengo, scopro che il freddo pavimento del centro commerciale su cui ero sdraiata ha lasciato il posto a un morbido manto d’erba. Ciò che più mi stupisce, però, è l’assoluta assenza di dolore. Resto supina qualche secondo, attendendo che l’ondata di sofferenza mi travolga ancora, come una marea che si ritragga dal bagnasciuga per caricare il nuovo attacco - ma non succede nulla. Stranita, porto una mano al grembo e mi avvedo che non è né bagnato né appiccicoso, e che non c’è nulla di diverso dal solito, nessuna ferita. Mi levo a sedere sul prato e, sempre più confusa, mi guardo attorno, schermandomi gli occhi dal sole: con stupore, ma anche con un senso crescente di benessere e sollievo, riconosco il luogo caro in cui ho vissuto i momenti migliori della mia vita, la struttura solida e rassicurante della mia scuola, il palazzo del consiglio studentesco, il campetto da tennis, l’ultima stramberia di Millay, l’appariscente carrozza con cui ama irrompere sulla scena durante i festival. Mi trovo nell’immenso giardino dell’Ashford. Ogni angolo pullula di studenti: chiacchierano sotto il portico, si godono il sole seduti sui muretti, sostano appoggiati come statue alle colonne, prendono una boccata d’aria o si rilassano distesi sul prato come me.
Mi alzo, stordita eppure felice.
È stato un incubo? Solo un terrificante, orribile incubo?
Non riesco a raccapezzarmi, è come se avessi perso la cognizione del tempo e non ricordassi le mie ultime azioni – quando sono scesa in giardino? Che giorno è? In che trimestre siamo?
Domande confuse mormorano flebili nella mia mente, levandosi dal sentimento di gioia e sollievo che mi pervade, come pesciolini che, sbucando dall’acqua, infrangano per poco la quiete di un lago tranquillo.
Ma una brezza leggera mi accarezza il viso e, immediatamente, spazza via ogni interrogativo.
Mi guardo ancora intorno, cercando di rintracciare, in mezzo alle divise scolastiche tutte uguali, i miei compagni, i membri del consiglio studentesco, i miei amici, o...
La vedo! La sagoma che riconoscerei tra mille. Sei tu, laggiù, di spalle. Un sentimento di incommensurabile felicità mi riempie il petto; non posso fare a meno di allargarlo per cercare di contenerla tutta e trattenerla insieme al fiato, per godermela quanto più posso, fino all’ultimo respiro. Tu. La mia fonte di vita. Ti amo. Semplicemente, ti amo. E sei mio. Non più solo un compagno di classe, non più solo un membro del consiglio studentesco, non più solo un amico, ma il mio ragazzo, il mio… solo mio. È qualcosa che mi fa sentire così bene. Penso a tutto ciò che vivremo insieme, penso ai giorni che condivideremo, ai pomeriggi che trascorreremo tenendoci per mano, ai momenti che ci legheranno, a tutti i sentimenti nuovi che ci sconvolgeranno, penso ai baci che ci saranno – e arrossisco, ma ci penso, e forse piango, perché adesso non potrei essere più felice.
Lo so, non hai ancora fatto chiarezza su quello che senti, Lelou, ma stiamo insieme e so di essere importante. Per il resto, avremo tempo. Avremo tempo. E l’attesa non mi spaventa, non ho paura di aspettare ancora che tu capisca. L’amore è forza! Questa forza che sento scorrere nelle vene, e che mi fa aggrappare alla vita, nonostante tutto, che mi fa perdonare, e accettare, e lottare, e andare avanti…
La luce ha spazzato via tutte le ombre. Non ci sono più bugie. E amarti è l’unica verità che voglio conoscere. Oggi, domani, per sempre.
Ti vengo incontro. Vengo incontro al nostro futuro, a questo futuro che ho a lungo desiderato. E voglio abbracciarti, buttarti le braccia al collo, farmi stringere forte, piangere, e sentire che siamo ancora qui, che niente e nessuno mi strapperà via da te.
Allungo il passo, mi ritrovo quasi a correre.
- Lelouch! –
Urlo il tuo nome, sperando che tu possa sentirmi e quindi voltarti; sono così impaziente di incontrare il tuo sguardo, di cogliere la tua espressione felice nel vedermi, di sapere che sei qui per me.
Eppure non ti volti. Urlo più forte, ma non mi senti.
Allora mi accorgo che, per quanto abbia corso, non mi sono avvicinata a te. La distanza non si è accorciata di un passo, per quanto cerchi di coprirla sei sempre lontano e il prato mi sembra infinito.
È anomalo. Perché non riesco a raggiungerti? Perché sei così distante?
D’improvviso, la paura mi scivola sul cuore, soffocando il suo battito. Accelero ancora la mia corsa; ho fretta di sentire le tue braccia attorno a me, di sapere che i miei sono solo sciocchi timori, perché sono troppo spaventata dall’idea di perderti.
Ma più mi sforzo, più i miei sforzi sono vani, e un manto gelido mi avvolge. Freneticamente, mi guardo attorno, e mi accorgo che le figure degli studenti in cortile divengono sempre più evanescenti, fino a dissolversi, una ad una.
Cosa sta succedendo?
Rivolgo il mio sguardo alla tua sagoma, in fondo, sempre di spalle, e prego dentro di me che almeno tu non svanisca nel nulla, lasciandomi sola.
Resta! Resta!
Voglio disperatamente raggiungerti.
Poco a poco, il suolo sotto i miei piedi diventa sempre più duro e non avverto più la sensazione dei passi che affondano sul terriccio morbido, schiacciando l’erba. Stranita, guardo in basso: il prato è adesso il pavimento bianco dell’istituto.
Sono stordita e confusa, e, quando alzo di nuovo il capo, tu non ci sei più.
Le lacrime rompono gli argini delle mie palpebre e si riversano sulle mie guance, rigandomi il viso. Porto le mani a coprirmi gli occhi e scoppio in un pianto convulso, mentre mi lascio scivolare sul pavimento, in ginocchio.
Dove sei?
Un brusio indistinto raggiunge allora le mie orecchie, ed io scosto le dita dagli occhi per osservare ciò che mi circonda. Gli studenti sono riapparsi, sparpagliati adesso nel grande atrio, con la stessa aria felice che avevo letto nei loro visi in giardino. La calca maggiore sembra ingombrare l’ingresso dell’Aula Magna, dove si tengono le conferenze, e con un’inaspettata gioia che mi solleva la paura dal petto noto tra la folla la chioma bionda di Millay.
Mi alzo in piedi e immediatamente la raggiungo, sentendomi sempre più rincuorata dalla distanza che questa volta riesco facilmente a colmare coi miei passi.
Eppure, benchè la chiami, benchè cerchi di attirare la sua attenzione, lei non mi nota. Sembro invisibile.
Non capisco più nulla, il contatto con la realtà diventa sempre più labile, mi sento come un palloncino gonfiato d’elio il cui filo è in procinto di spezzarsi, disancorandolo dal suolo.
Così, d’un tratto, in modo del tutto illogico e irrazionale, vengo colta da un’intuizione e Millay passa in secondo piano. Guardo la porta dell’Aula Magna, stranamente più grande e fastosa di come la ricordassi, e comprendo che devo aprirla. Che devo entrare. Non c’è altro sbocco, ma neanch’io so perché pensi questo. Non ha alcun senso.
Poso la mano sulla maniglia – no, un battente di ferro; realizzo che quella non è la mia scuola, ma non ha importanza – e mi ritrovo di nuovo sola, davanti al portone.
Lo spingo e le ante si spalancano da sole su un’enorme stanza dall’ampiezza e dalla struttura dell’Aula Magna, benché vuota. Man mano che faccio scorrere lo sguardo lungo la sua area, essa si arreda e si riempie. Alla mia destra e alla mia sinistra sono disposte due file di panche che ospitano ancora una volta gli studenti dell’Ashford; tutto è sfarzoso, e ci sono sculture, e quadri, e affreschi ai lati della sala, sebbene le forme scolpite e dipinte mi risultino incomprensibili. Noto che ai miei piedi è comparso un tappeto rosso e con lo sguardo seguo il rettangolo vermiglio che converge verso il punto focale della sala, fin dove incontra la parete di fondo.
C’è un altare.
E di nuovo la vedo. La sagoma delle tue spalle che prima ho disperatamente cercato di raggiungere. Invano.
Mi accorgo che indossi un abito elegante e, via via che comprendo, le divise scolastiche degli studenti seduti sulle panche mutano anch’esse in abiti da cerimonia. Realizzo che è un matrimonio e nell’istante in cui ne prendo atto lo diventa davvero: come assecondando la mia mente, la sala si trasforma nella navata centrale di una chiesa.
Avanzo di un passo.
Poi, la vedo.
Un’altra figura, appena apparsa, al tuo fianco. È interamente vestita di bianco. Sebbene sia di spalle, noto, con una fitta al petto, che le vostre dita sono intrecciate.
Resto paralizzata all’ingresso della chiesa, ignorata da tutti, come invisibile, incapace di formulare quel pensiero che mi è insopportabile.
Non è vero. Non è vero. Non è vero.
Non è possibile! Non è quel che credo! Non può essere!

La disperazione mi attanaglia e inizio nuovamente a correre, questa volta verso l’altare.
Il tappeto rosso – quello che avrei voluto percorrere io, indossando quel vestito bianco, quel giorno - sembra interminabile come l’erba del prato, poco prima, ed è come se stessi correndo da ore, con il battito violento del cuore che martella contro la mia gabbia toracica insieme al dolore… un dolore sordo, che mi chiude il petto in una morsa.
I volti degli invitati si trasformano gradualmente in visi conosciuti e amici, man mano che il mio sguardo scorre lungo le panche. Vedo Millay, seduta accanto a Rivalz, e Nina, e Suzaku e Karen, e, oh, persino Nunnaly. Sono tutti qui, Lelouch, e sembrano così felici. Sono venuti ad assistere allo scambio di voti nuziali tra te e quella donna… quella donna — la donna che avrei voluto essere io.
Le lacrime mi solcano nuovamente le guance.
Mi fermo e serro gli occhi perché non voglio vedere oltre. Non voglio più vedere i miei sogni diventare la realtà di qualcun’altro. Non voglio più essere spettatrice della vita che desideravo e di tutto ciò che credevo sarebbe stato mio – non voglio più vedere le persone che amo e che credevo mi amassero ignorarmi come se fossi invisibile, gioire di fronte al mio dolore.
Perché…? Non capisco, non capisco!
Cado per terra, scossa, attonita, senza riuscire a capacitarmi del perché la felicità mi sia scivolata tra le dita come sabbia e del perché sia accaduto così in fretta.
Cosa è successo? Quando è successo?
Stringo i pugni premuti per terra fino a graffiare i polpastrelli contro la superficie ruvida del tappeto su cui sono china. Le mie lacrime, impigliate tra le ciglia, precipitano verso il suolo, infrangendosi sul tessuto rosso, quando noto un movimento strano nella chiazza vermiglia da esse formata e, quasi incantata, la osservo allargarsi e trasformarsi in sangue.
Dentro la pozza strisciano delle ombre, che ben presto prendono la forma dei miei ricordi, riflessi tra i grumi come sulla superficie ondulata di uno specchio d’acqua. Una forza mi attira verso quello spettacolo, la nostalgia mi afferra il petto con i suoi artigli ed io mi piego sempre più, fino a portare il viso a un soffio dal coagulo di sangue.
Mi ritrovo a guardare rapita le evanescenti immagini vermiglie, un macabro conforto al mio dolore.
E’ un incidente d’auto, lo riconosco: è quella volta che ti fermasti a prestare soccorso ai feriti, la prima volta che ti guardai con occhi diversi. Ma l’immagine cambia, repentinamente, e l’asfalto si trasforma nel pavimento dell’Ashford: siamo a scuola, tu stai dormendo durante una lezione che neppure io sto ascoltando - posso ricordare ancora come mi stessi perdendo nel guardarti. Adesso arrossisco, perché hai alzato lo sguardo dal libro che stavi leggendo, in cortile, sotto l’albero, e hai intercettato il mio, fisso su di te. Siamo nell’edificio del consiglio studentesco, ci siamo proprio tutti, anche Nunnaly, e sei così diverso quando parli con lei, - ci siamo fermati a chiacchierare sui muretti, in cortile, io e te, - stiamo pranzando insieme, a mensa, - ti sto rimproverando per l’ennesima delle tue stupide scommesse. Momenti apparentemente insignificanti si avvicendano velocemente tra i grumi di sangue. Ti sto cercando negli spalti che circondano la piscina, è la mia prima competizione agonistica di nuoto, - mi stai sorridendo ed io mi sto illudendo di leggere qualcosa di più dell’amicizia nei tuoi occhi, - siamo in terrazzo, tutti insieme, i fuochi d’artificio colorano di strani riflessi i tuoi capelli ed io mi do della stupida perché guardo te invece che il cielo, - ci stiamo scattando delle fotografie insieme e so già che le conserverò tutte anche se verremo malissimo, - sei davanti a me ed io sto morendo di imbarazzo chiedendoti di accompagnarmi a quel concerto, ho ricevuto i biglietti da mio —
Il respiro precipita dalla gola fino allo stomaco ed io perdo un battito.
Questo non è un ricordo, è irreale, non mi appartiene, non l’ho mai visto – ma sto tremando, sto tremando incontrollabilmente.
Il mio sguardo corre sopra le rovine di strade e palazzi, sui corpi straziati dei caduti, tra membra incastrate nelle macerie… e mio padre è lì, in piedi, in mezzo a quello scempio, - e per un istante rivedo il cadavere che mi fu chiesto di riconoscere, il cadavere di mio padre, e il funerale, il dolore, quella tomba, la consapevolezza della sua morte indelebilmente impressa sulla retina - poi precipito di nuovo su quel ricordo bugiardo, e vedo Zero, e vedo te, vedo il ragazzo che amo, davanti a lui, e una pistola, nella tua mano, e inorridisco, e scuoto la testa, e porto le mani alle tempie per liberarmi da quella menzogna… perché non è vero, non è vero, non è vero, non puoi essere stato tu, non puoi…
…la maschera scivola dal volto di Zero ed io riconosco i tuoi occhi nell’uomo che ha ucciso mio padre.
Lo sparo è assordante, rimbomba tra le pareti della mia calotta cranica traforandomi le tempie, e, simultaneo, un dolore cieco e sordo mi mozza il fiato, ed io sgrano gli occhi, attonita. Porto le mani alla pancia e con orrore noto gli interstizi tra le mie dita tingersi di rosso.
Perché…? Perché, Lelouch? Perché quel giorno ci hai uccisi entrambi…
Nella pozza di sangue per terra adesso vedo me stessa, riversa sul pavimento di gelido marmo della sala immensa, una piccola chiazza vermiglia sotto l’imponente cupola altissima, avvolta nella nebbia sprigionata dalle misure anti-incendio, che sembra quasi cullare il mio oblio. Ciò che mi circonda è il futuro ipotetico che non vedrò, eppure è anche quello che non avrei visto lo stesso.
Ti avevo già perso, Lelouch – l’ho capito solo adesso.
In questi due anni di agonia ho trascinato la mia vita aggrappandomi a bugie e falsi ricordi. Ma non potevo lasciare la presa, non senza darti prima l’ultimo pegno del mio amore: tutto il perdono di cui sono capace.
Allora perché fa così male accettarlo?
Perché non mi riesce lasciarti andare?
Perché vorrei poter prolungare ancora questa menzogna?
Mentiamo insieme, Lelouch, dimmi che và tutto bene.
Ti ho perso… ti ho perso… ti ho perso…
Mi lascerai indietro ed io resterò incastrata fra i tuoi ricordi, da cui potrò solo guardarti andare avanti.
La sala, le panche laterali, l’altare davanti al quale ho immaginato il tuo rito nuziale, gradualmente iniziano ad allontanarsi da me, mentre io resto in ginocchio sul tappeto ed ogni cosa che mi circonda svanisce. So che presto svanirò anch’io, come tutte le ombre del passato, ma vorrei potermi aggrappare a qualcosa, ad uno strascico di presente, per poterti parlare almeno un’ultima volta ancora.
Urlo, urlo il tuo nome.
Lelouch.
Non voglio andarmene, non così, non con il rimpianto di non averti neanche detto che ti amo. Solo un altro istante. Ti prego.
Lelouch. Lelouch. Lelouch.

È freddo… così freddo, il mio corpo, così tanto freddo. Non sento più dolore, e questo mi rincuora, anche se è solo una delle tante cose che non sento. Ma non importa, non importa. Ho appena scoperto che c’è buio, un buio senza spiragli, ed io mi ci perdo, errando, nella pienezza di quel nulla assoluto, lontana dal luogo spaventoso e finitamente vasto dove giace il mio corpo. Vago senza meta, quando avverto un rumore di passi. Sussulto.
C’è qualcuno, in questo luogo?
Mi sento violata, ancora una volta.
E sono triste. Mi ero illusa di essere divenuta parte del nulla.
Shirley.
Il mio nome.
Shirley.
Da dove viene? Perché…?
Shirley.
Il nulla inizia a vorticare. Si trasforma in una spirale.
Shirley.
Vengo risucchiata dal vortice, il cui fondo si apre sull’immagine del mio corpo esanime.
Shirley.
Cado giù, sempre più giù.
- Shirley! –
Di nuovo freddo. Il dolore è un’eco atrofizzata, o forse ho solo imparato a sopportarlo.
La penombra adesso ha fatto breccia nel buio, insinuandosi come fumo nello spiraglio tra le mie palpebre.
Ho una percezione remota del mio corpo, sebbene avverta solo la sua estrema pesantezza e nient’altro. Braccia, busto, gambe, sono piombo inanime che mi àncora al pavimento, e la pressione è tale che mi sento schiacciata.
Voglio aprire gli occhi, ma le palpebre tremano in modo appena percettibile. Sono così pesanti, così pesanti. Mi sforzo.
- Shirley! –
Finalmente ci riesco. Ma non focalizzo subito ciò che ho davanti, la mia vista è appannata, poco nitida, i contorni sono sfocati come fumo.
Poi, ti vedo, chino sul mio corpo.
Sei qui, sei qui, sei venuto da me.
- L…Lelou… -
Le due sillabe del tuo nome scivolano sulle mie labbra fredde, e l’alito che le accarezza appena dà loro un tiepido sollievo. Sono sorpresa, ma grata di poterti rivedere. Credevo che non avrei assaporato mai più la dolcezza di quel ridicolo vezzeggiativo, unico per il modo in cui la mia lingua accarezza il palato quando ti chiamo, quel nomignolo pregno della mia voce, il filo invisibile che ti lega solo a me. Lelou. Fa male, sai, pensare che sono le ultime volte che lo dico, e le ultime volte che lo senti.
- …sono contenta… di poterti parlare… alla fine… -
Sussulti, mi sembri sconvolto… non hai capito, Lelou?
- Non è finita… chiamerò subito un’ambulanza… perciò… -
Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace.
Me ne sto andando. Lo sento, sento la vita che abbandona il mio corpo e non c’è più niente da fare. Questi ultimi istanti sono così preziosi, per me, così preziosi… non voglio perderli affannandomi a raccogliere qualcosa che continuerà a scivolare tra le mie dita.
Trovo la forza per alzare a fatica la mano – ma è pesante, terribilmente pesante – e la poso sulla tua, quella che regge il cellulare che volevi usare per chiamare soccorso.
Ti prego.
Adesso, voglio solo parlarti, ho un disperato bisogno di parlarti, Lelou, un’ultima volta. Per dirti tutto ciò che non voglio rimpiangere.



- Io ti amo, Lelouch. -


Anche se tu, Lelou, mi hai fatto dimenticare tutto,
mi sono innamorata di nuovo di te.
Anche se i miei ricordi sono stati manipolati,
mi sono innamorata di nuovo di te.
Non importa quante volte rinascerò, sono sicura che
mi innamorerò di nuovo di te, Lelou.
Questo deve essere il destino, non credi?
Ma va bene così…
non lo pensi anche tu, Lelou?

Poter rinascere
ed amarti di nuovo.
Perché, non importa quante altre volte,
mi innamorerò sempre…
di te.






Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo avesse come orizzonte il tuo volto.
E se così fosse, mille volte vorrei nascere per mille volte ancor morire.

(L'Amleto, W. Shakespeare)






   
 
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