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Autore: Shu    15/06/2005    2 recensioni
E' la fanfiction che ho inviato per la XVI edizione del concorso... e ringrazio tantissimo Erika per il suo commento! Per il resto... E' una storia. Di un uomo, di una donna. La fine, decidetela voi.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Senza titolo

Aspettava, in silenzio. La luce batteva leggera sulle lenti dei suoi occhiali sottili, diventava lattiginosa mentre attraversava il fumo della sigaretta e illuminava debolmente lo schermo del computer, unica vera fonte di luce in quel buio leggero e uniforme. Il video era così alieno, così contrastante con le vecchie assi del soffitto e gli scricchiolii del pavimento da abbagliare i suoi occhi, da stridere nel suo sguardo fino a fargli male. Spense la sigaretta, tolse gli occhiali, si passò le mani tra i capelli tenendo la testa bassa. Una lama di luce fendette l’ultimo rivolo di fumo accendendolo di pulviscoli infiniti che eseguivano la loro inconsapevole danza nell’aria. E lui sentiva gli occhi farsi pesanti, sentiva che sarebbe potuto rimanere lì per sempre, con le ciglia abbassate e in testa quei pensieri strani di quando non sai se stai sognando o sei ancora sveglio. E magari l’avrebbe sognata, lei, la sua bocca fruttata, i suoi occhi così azzurri e le ciglia sorprendentemente nere, che accavallava le gambe e spegneva la sua sigaretta nel posacenere di vetro.

E se si concentrava, o meglio, se si deconcentrava fino a far scivolare la mente nel paese che si proibiva lui stesso, dove la razionalità non esisteva, riusciva persino a sentire il sapore di fumo delle sue labbra e della sua bocca calda, a vedere il suo vecchio golf addosso a lei, quanto le stava bene, a toglierle con un dito quell’ombra di fard dalle guance.

Si arrese, e si trovò a respirare il suo profumo, a sentire il ticchettio delle unghie lunghe sulla tastiera del computer, il campanello suonava e lei ritornava a casa, il telefono suonava e lei che diceva “Non rispondere…”

La lunga fila di “a” sullo schermo lo avvertiva freddamente, tecnologicamente, che non sarebbe mai più riuscito a scrivere nulla, non sarebbe mai più riuscito a vivere. Non poteva vivere con il fantasma di lei che girava per la casa con addosso quella minigonna di pelle che non aveva avuto il coraggio di buttare via, con i vestiti di lei ancora mescolati ai suoi dentro ai cassetti, con il ricordo di quelle gambe lunghe e snelle dove stava appoggiato il libro ormai caduto perché si era addormentata, un ciuffo biondo sugli occhi chiusi.

Lui non fumava: aveva iniziato per cercare disperatamente qualche traccia di lei nell’odore di tabacco, per aggrapparsi a qualche segno tangibile della sua presenza, della sua vita. Ma il fumo non era tangibile, solo scivolava verso l’alto in leggere volute che lui s’incantava a guardare. Anneriva le tende e le travi del soffitto, e diffondeva quell’odore sgradevole e sensuale, quell’odore che ormai per lui era solo disperazione e tormento, come la luce violenta dello schermo che tornava perentoria a ripetergli che era vivo ma allo stesso tempo non lo era.

Allungò un dito per spegnere il monitor. Quella luce era troppo artificiale e vuota, da ospedale; gli dava la nausea, come quando respirava l’odore dell’auto appena messa in moto. In quella soffitta la luce non era mai viva, tutto era grigio e indistinto, lattiginoso e incerto, come incorporeo ma allo stesso tempo così terribilmente materiale, perché la luce stessa non abitava più lì, e da tempo l’ombra di lei se n’era andata da quelle pareti.

Che senso aveva tenere ancora due cuscini nel letto? Nessun volto perfetto si sarebbe mai più posato su quel guanciale, nessuna lacrima di sonno, intrisa di trucco, avrebbe più impregnato la stoffa.

Le scarpe nere, col tacco, ancora lasciate in un angolo della stanza, come se lei dovesse uscire da un momento all’altro; la giacca e la gonna di quando andava al lavoro, il bracciale d’argento e le calze a rete sfilacciate chiuse in fondo a un cassetto; e l’anello infilato al dito di lui che ancora osava catturare e moltiplicare la luce morente…

Aspettava, in silenzio. Aspettava che cosa, poi? Aspettava che venisse l’ispirazione per scrivere a tirarlo fuori dal baratro, un’altra donna che sapesse essere così sfacciatamente, maliziosamente bella, o semplicemente aspettava ancora lei, che tornava a casa ridente con i capelli brinati di pioggia e una cassetta da guardare insieme la sera sul divano…

Con uno sforzo di volontà si costrinse a riaccendere il monitor. Lo screensaver aveva sostituito la pagina bianca piena solo di caratteri insensati: e adesso sullo schermo completamente nero scorrevano in lettere rosse le parole “ti amo”

E allora pianse.

Pianse, come da lungo tempo ormai si era impedito di fare, pianse per tutto quello che non aveva più, pianse scrollandosi di dosso l’etichetta di uomo coraggioso, forte, serio. E tutti avevano pensato che per un uomo serio come lui ci volesse una donna altrettanto seria e coscienziosa, che lo aspettava la sera in silenzio con la cena sempre pronta sul tavolo, che facesse il suo dovere di moglie sempre un gradino sotto di lui, così perfetto e così duro.

Invece no, lui voleva di più, voleva una con cui ridere nelle sere d’inverno, che rompesse gli schemi e che fosse ogni volta una sorpresa, quella donna col corpo da modella che arrivava rombando sulla sua moto cromata, che doveva fermare prima che facesse qualche scemenza mentre passeggiavano per strada, quella pelle tiepida e liscia da accarezzare sotto il pigiama seguendo tutti i suoi desideri.

E dov’era lui adesso, era fuori sotto il temporale estivo a bere la pioggia con lei ridendo come pazzi, o sui gradini della chiesa aspettando che lei venisse, mescolasse il suo profumo a quello della rosa rossa e dicesse “Grazie”, o ancora dentro quella stessa chiesa piena di gente, tra l’odore stordente di gigli e d’incenso, a contemplare quei raggianti occhi blu un poco indistinti sotto il velo di tulle… oppure solo davanti a quello screensaver che ripeteva come una pugnalata “ti amo”?

Lettere rosse, lettere di sangue. No, si sentiva sotto il cielo basso, in tempesta, davanti ad una lapide vuota che riferiva senza pietà unicamente quel nome, il nome del mondo. Aveva cercato per giorni una di quelle frasi da romanzo da lasciarle come ultimo messaggio su quella pietra, ma poi aveva capito che non ne avrebbe trovate, che quello non era uno dei romanzi che scriveva ma la realtà che Qualcuno, se c’era, aveva deciso per lui. Lui che aveva sempre deciso e intrecciato i destini dei suoi personaggi di carta si trovava a subire quel potere assoluto che aveva anch’egli esercitato. Nessuna frase era riuscito a trovare perché qualcuno, passando, scostasse le foglie cadute in autunno e leggendo quelle parole pensasse “quest’uomo doveva amarla davvero.”

Lettere, le lettere di lei. Andò ad aprire un cassetto e le trovò, piene di un’allegria polverosa e ordinata, l’inchiostro reso viola da qualche goccia di pianto; le richiuse rabbiosamente nel mobile, sperando di perdere la chiave.

La concezione del tempo, dello spazio e la semplice sensazione di essere vivo lo abbandonavano pian piano, tanto che pensò: “adesso muoio”. Era un pensiero confortante. Ma tanto sapeva che non sarebbe morto nemmeno quella volta, tante, tante volte si era specchiato nel metallo lucido di una pistola e in fondo al suo essere aveva sempre trovato qualche stracciato precetto morale o paura sfuocata che gli avevano dischiuso le dita per far cadere a terra quel pezzo di metallo.

In fondo, non gli dispiaceva che quella tomba fosse vuota. Nelle giornate di sole, quando tutto sembrava palpitare di vita e indicare l’esatto contrario della sua anima nera, lo aveva sfiorato l’infantile pensiero che un giorno, proprio come in uno dei suoi romanzi, lei sarebbe tornata, che ancora c’era, e cercava solo di tornare da lui, alla loro vita.

Spense nuovamente il monitor, si asciugò le dita bagnate sui vecchi jeans e si lasciò cullare da quel pensiero così caldo, caldo. Si era proibito anche quello, per smetterla con quelle stupide, inutili illusioni, ma chi se ne frega.

E sarebbe tornata, sì, le mani agili ed eleganti che appoggiavano le chiavi sul mobile, il rumore metallico e poi quello dei suoi tacchi, la luce viva e improvvisa dell’accendino che presagiva le immancabili trine di fumo nell’aria già piena di loro due, i raggi di sole che si insinuavano dolcemente tra le se sue ciglia e giocavano nel grano dei suoi capelli, dita sottili riflesse sulla superficie specchiata di un cd…

E poi, qualcosa lo fece sussultare.

La chiave nella serratura, il rumore dei tacchi.

“Tesoro, sono a casa.”

   
 
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