Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    18/11/2009    1 recensioni
"...Nadia si coprì gli occhi con le mani e pianse. Qualcuno la toccò sulla spalla, e lei sollevò il viso, rigato di lacrime. Il bambino si era rialzato e ora la fissava attraverso i suoi occhi vuoti, ma accesi di una strana e cieca consapevolezza. Lei gli rivolse uno sguardo disperato. «Perché?» disse. «Perché tutto questo?» Perché è il tuo destino, fu la risposta, prima che lei si svegliasse..." Primo volume del mio seguito della serie “Nadia: il mistero della pietra azzurra”. Sono passati cinque anni da quando Nadia e Jean hanno combattuto contro Gargoyle. Nadia si è trasferita in Inghilterra, dove lavora come giornalista. Jean, dopo aver seguito Hanson a Berlino per motivi di studio, ora insegna in una prestigiosa università americana. Le loro vite sembrano destinate a separarsi per sempre, se non fosse per un evento inaspettato, legato a un misterioso oggetto, che li costringerà a ritrovarsi e a fare i conti con i fantasmi del passato. La trama di questa ff tiene scrupolosamente conto di quanto raccontato nella serie e nel film "Nadia e il segreto di Fuzzy". Tuttavia, essendo ambientata cinque anni dopo la fine della serie, ho creduto necessario pensare e proporre un'evoluzione del carattere dei personaggi. Dunque non stupitevi se incontrerete personaggi apparentemente fuori carattere, o un'ambientazione che si mostra a tratti lontana da quella a cui ci aveva abituato la serie: è proprio ciò che ho voluto fare, cioè immaginare come Nadia e gli altri sarebbero stati una volta "diventati grandi". Da questo punto di vista, i personaggi sono divenuti necessariamente oggetto di una "riscrittura", visto che la storia li presenta più vecchi di ben cinque anni; tuttavia, ho cercato di modellare quelli che sono i nuovi tratti del loro carattere basandoli sui tratti originali, in modo da presentare una loro possibile vita futura che risultasse però coerente con quanto era stato raccontato nell'anime. Per chi non volesse registrarsi sul sito ma intendesse comunque dire la sua: nadia.ilmisterodellapietrazzurra@yahoo.it Ciao!
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Boston, 27 Giugno 1895










«Jean, tutto bene?»

Jean alzò gli occhi. Alexandra lo stava fissando e lui colse un leggero velo di preoccupazione adombrare i suoi intensi occhi scuri. Le sorrise.

«Sì, tutto bene. Perché me lo chiedi?»

«È tutta la mattina che leggi e rileggi quella lettera. Mi sei sembrato preoccupato e ho pensato che ci fossero dei problemi. Tutto qua».

Lui abbassò gli occhi sulla lettera che teneva in mano. Era una lettera di Rebecca, che annunciava il suo arrivo proprio per quel giorno, insieme alla piccola Marie.

«No, nessun problema. Solo...»

«Solo?»

Jean sospirò, alzando gli occhi nella direzione in cui i binari curvavano per poi scomparire, oltre il limitare della stazione. Alex lo fissava, il volto leggermente reclinato, incorniciato dai bei capelli castani.

«È così tanto che non vedo Marie» si scusò lui. «Prima di partire avevo promesso a Rebecca che avrei fatto il possibile per essere sempre presente e...»

«Jean» fece Alexandra, posando dolcemente la mano sottile sul suo braccio. «Tu ci sei sempre stato, per Marie. Non hai nessuna colpa se per una volta hai cercato di seguire ciò che è meglio per te. Cosa può esserci di male, in questo?»

Lui continuò a fissare i binari, poco convinto.

«Sì, questo lo so... ma...»

«Smettila di recriminare contro te stesso» aggiunse lei. «Sei stato eccezionale con Marie, e anche con Rebecca. Pensi che lei non lo sappia? Guarda che non è colpa tua se Marie è stata allontanata da scuola. E se non ci fossi stato tu, lei e Rebecca non avrebbero nemmeno avuto una casa in cui stare».

«Forse se io fossi stato più presente, se avessi aiutato di più Rebecca...»

Alessandra scosse il capo. «Forse, forse, forse... quante storie! Tu hai fatto molto. Purtroppo Marie sta attraversando un momento difficile e proprio per questo non credo che ci sia nulla di male, se lascia la scuola per un po’. Venire qui non le farà certo male».

Jean la guardò, ma non disse nulla.

«Già, forse hai ragione» fece, alla fine. «Come sempre, d’altronde».

Lei arrossì, senza aggiungere una parola.

«Eccoli!»

Il treno comparve all’orizzonte, in uno sbuffo di vapore. Jean e Alexandra si portarono le mani agli occhi, per ripararsi dal riflesso del sole. Quando il treno raggiunse la stazione, i freni fischiarono producendo uno stridio assordante, e le persone sulla pensilina furono avvolte in una nuvola di fumo bianco che puzzava di umido, catrame caldo e polvere di ferro bruciato.

Jean passò in rassegna i vagoni con lo sguardo. L'eccitazione all’idea di rivedere Marie e Rebecca era fortissima, ma anche la paura.

«Jean! Siamo qui!»

Quando Marie apparve sul predellino del treno, Jean si dimenticò di ogni timore, ed esplose in un sorriso di gioia. Con slancio, lei corse a terra, abbandonando i propri bagagli. Gli si tuffò tra le braccia e mentre la stringeva a sé, Jean si accorse di quanto fosse diventata alta, molto più di quanto non ricordasse. Ormai non era più una bambina, e la cosa gli toccò il cuore. Per lui, lei restava la piccola Marie.

«Marie, che bellezza! Accidenti,» fece, realmente sorpreso «sei cresciuta tantissimo».

Lei sorrise sbarazzina, producendosi in una piroetta aggraziata che metteva in mostra il suo nuovo abito azzurro, adorno di nastrini. Aveva in volto una baldanza che lui non conosceva, e si chiese quanto di nuovo in lei avrebbe scoperto. Ma cosa sapeva, veramente, di quella bambina? Era stato lontano tanto di quel tempo... quanta della sua vita aveva perduto?

«Hai visto?» gli chiese allegra. «Ti piace il vestito che mi ha comprato la zia?»

Jean ostentò un’espressione meravigliata.

«È davvero stupendo! Sembri una regina!»

«L’abbiamo preso a New York, ieri. La zia mi ha portato a fare compere».

«Un’esperienza meravigliosa! Non ho mai visto tanti negozi pieni di abitini così belli...»

Jean sollevò gli occhi, incrociando lo sguardo allegro di Rebecca, che avanzava a passo elegante verso di loro. Era tutta tirata a lucido, stretta in uno splendido abito in taffetà giallo paglierino, che lasciava scoperte le spalle e il petto generoso, come fosse un abito da ballo. Sulle spalle indossava uno scialle di seta dalla tonalità più scura, annodato elegantemente sul seno, che si intonava perfettamente con il largo cappello, portato di sbieco. Tra le mani guantate di bianco, rigirava un ombrellino in tinta con il vestito, dal manico in avorio intagliato. Non appena furono vicini, Jean si alzò e la abbracciò, salutandola calorosamente. La donna ricambiò felice, sebbene mostrasse un certo imbarazzo.

«Alex» fece Marie. «Ti piace il mio vestito?»

Alexandra sorrise. «Sì, è davvero stupendo».

«Già, già» fece Rebecca agitando allegra la mano. «Merito del mio incomparabile buon gusto. Marie sta dimostrando di possedere uno spiccato senso estetico; e, modestamente, credo di avere qualche merito in questo».

«Indubbiamente» fece Alexandra, soffocando una risata.

«Avete tutto con voi? Possiamo andare?» chiese Jean, mentre Rebecca lo caricava di pacchi e pacchettini.

«Sì, il facchino dovrebbe portarci il resto. Se riusciamo a trovarlo...» Rebecca si alzò sulle punte dei suoi stivaletti di vernice bianca, scrutando tra la folla. Oltre le teste dei viaggiatori che affollavano la pensilina, intravide il berretto di un facchino. L'uomo se ne stava appoggiato con le spalle a un pilastro della stazione, intento a leggere un giornale.

«Ehi» gridò Rebecca agitando la mano con garbo. «Brav’uomo?»

Il facchino non diede segno di aver sentito. Rebecca si sfilò un guanto e, portando due dita alle labbra, lanciò un fischio tanto acuto da far girare mezza stazione. Il facchino voltò la testa a fissarla, stupito.

«Dico a lei! Può venire qui?» sbottò Rebecca.

L’uomo scattò sull’attenti e si precipitò con il suo carretto. Rebecca gli indicò distrattamente i bagagli.

«Questi facchini» lamentò, sfilandosi anche l'altro guanto. «È sempre più difficile trovare qualcuno con la voglia di far bene il suo lavoro. Allora, Siamo pronti?»

Jean annuì da sotto una montagna di scatole. «Direi di sì... Andiamo. Fuori c’è la mia automobile».

«Tu hai un’automobile?» chiese Marie, affascinata. Jean annuì, visibilmente orgoglioso.

«Sì, l’ho acquistata da poco. Ti piacerebbe farci un giro?»

«Eccome!» fece Marie, tutta eccitata all'idea. Alex le tese la mano, strizzandole l’occhio.

«Vieni, ti porto subito a vederla» le disse con complicità.

«Andiamo!» esultò la bambina. Rebecca sorrise, lanciando a Jean uno sguardo obliquo, molto significativo.

«Alex ci sa fare con i bambini...» disse semplicemente. Quindi tacque, come per lasciare alle sue parole il tempo di depositarsi. «Come vanno le cose tra di voi?» buttò lì poi, distrattamente.

Jean inciampò, lanciando un’imprecazione. Rebecca si sforzò di non scoppiare a ridere. Conosceva quel ragazzo come le sue tasche.

«Cosa vuoi dire?»

«Lo sai».»

«Siamo solo amici, tutto qui. Lei è la mia assistente.»

«Già...»

«E io sono il suo responsabile...»

«Quindi?»

Jean fissò torvo Rebecca, da sotto la montagna di pacchi. Lei rise e appoggiò una mano affusolata sull’avambraccio di lui.

«Tesoro, non pensi che sia il caso che tu dia un ordine alle tue priorità?» fece lei, con falsa noncuranza.

«Non capisco proprio cosa tu voglia dire» ribatté lui, deciso.

«È evidente che quella ragazza nutre dei sentimenti per te. Lo vedrebbe anche un cieco».

«Ti sbagli. Siamo solo...»

«Amici?»

«Esatto» rispose lui.

«Interessante. Avessi avuto anch'io, amici così» fece, ostentando una certa aria divertita. «E anche lei la pensa così?»

Jean sbuffò. Non capiva il perché di quella assurda conversazione. «Non sono mica nella sua testa...» si limitò a far presente.

«Oh, se la metti così!» ribatté Rebecca leggermente offesa, lasciando cadere l’argomento. Era intimamente decisa, però, a riaffrontarlo in seguito. Se c’era qualcosa che non era disposta a lasciar perdere, questo era la vita sentimentale di Jean. E sebbene Rebecca fosse per natura una persona avvezza a concentrarsi tendenzialmente su di sé, non poteva non accorgersi del dolore che ancora lo imprigionava. Sentiva che se qualcuno non lo avesse aiutato, sarebbe rimasto a crogiolarsi nel rimorso per anni, finché non ne fosse rimasto schiacciato. Alexandra lo amava ed era bella e intelligente. E, soprattutto, voleva molto bene a Marie. Era il momento che anche Jean se ne accorgesse.

«Ecco, siamo arrivati. Quella è la mia auto» fece Jean, contento di poter cambiare discorso.

Una specie di carrozza senza cavalli era parcheggiata davanti al marciapiede della stazione. Era piuttosto grande, con un sedile di pelle ingrassata ben fatto e dall'aspetto confortevole, su cui due persone avrebbero potuto sedersi più che comodamente; e un piccolo scranno anteriore, anch'esso di pelle imbottita, proprio accanto al volano di guida. Questo consisteva in un lungo bastone di ferro con in cima un piccolo volano, dotato di manopola per poterlo girare più comodamente. La vettura era bella a vedersi, nel complesso, e dava un senso di grande eleganza. Non appena la vide, Marie strabuzzò gli occhi, assolutamente conquistata.

«Bella» disse Rebecca, squadrando la luccicante Daimler laccata di nero senza troppo entusiasmo. Jean non poté fare a meno di notare la nota sostenuta nella sua voce. Doveva essersela presa perché lui non era stato al suo gioco.

D’altra parte, lui lo conosceva quel gioco. Tutte le volte che si incontravano era sempre la stessa storia. Lei cercava in qualche modo di affibbiargli una ragazza, nonostante lui non facesse altro che dimostrarle che la cosa non gli interessava. Non era in grado di occuparsi di se stesso, come poteva occuparsi di qualcun altro?

Fissò distrattamente Alexandra: stava giocando con Marie e parlavano fitto fitto. Marie faceva finta di guidare e Alex le stava seduta accanto, docile alle fantasie della bambina.

Beh, bisogna riconoscere che ci sa davvero fare con i bambini, pensò con un sorriso, mentre assicurava i pacchi al portabagagli. Improvvisamente incontrò gli occhi di lei. Sorpresa, Alex arrossì e altrettanto fece Jean. Rebecca, a cui non sfuggiva nulla, osservò la scena compiaciuta, senza però dire una parola.

Non appena arrivarono all’albergo, un facchino in livrea si fece pomposamente incontro alla macchina. Rebecca alzò lo sguardo verso l’hotel, incapace di trattenere la propria emozione.

«Ommioddio!» fece. «Ma è davvero qui che alloggeremo?» Si voltò speranzosa verso Jean, che aveva già arrestato l’auto ed era sceso per dare una mano a scaricare i bagagli. «Dev’esserci un errore...» disse, temendo fosse proprio così. Ma Jean scosse la testa, sorridente.

«Nessun errore. Solo il meglio per le donne della mia vita».

Rebecca si portò le mani alla bocca, gli occhi lucidi per l'emozione, mentre rimirava le vetrate scintillanti della hall. Già si sognava seduta a un tavolino nella tea room, a sorseggiare cocktail all’ora dell’aperitivo, in compagnia di eleganti dame in abiti da capogiro e di ricchi e affascinanti uomini d’affari, provenienti da tutto il mondo. Quell’idea la conquistò subito, colorando di rosa la sua immaginazione.

«Jean, ti adoro» fu il suo commento sincero.

«Non c’è di che» fece lui, divertito. Marie però, sembrava meno allegra.

«Ma Jean, non stiamo tutti insieme?» gli chiese, tutta mogia.

«Marie, io abito al campus. Il mio appartamento è troppo piccolo per tutti e non potevo certo farvi alloggiare in uno spazio così ristretto, non credi?»

«Ma non potevi trovarci qualcosa lì da te?»

«Certo, ma non avreste avuto le comodità che invece avrete qui, no? E poi io sarò sempre con voi, vi verrò a prendere la mattina e staremo sempre insieme, fino a ora di andare a letto».

Marie sorrise. «Promesso?»

«Promesso» fece Jean, serio. «Hai la mia parola».

«Allora va bene» E così dicendo, Marie saltò fuori dall’auto per correre dietro al facchino che portava i loro bagagli nella hall.

«Senti, Rebecca» disse Jean, posando a terra l'ultimo bagaglio, che il facchino si affrettò a prendere. Jean lo ringraziò, dandogli qualche moneta di mancia. «Ho lezione, stamattina, ma sarà una cosa veloce. Non mi prenderà più di un'ora e mezzo. Verso l'ora di pranzo sarò di nuovo da voi. Pensi che vada bene?»

«Andrà benissimo, tranquillo» commentò Rebecca. Quindi, sorridendogli con malizia «te la passi bene qui... vero, ragazzo mio?» disse.

Jean contraccambiò il sorriso di Rebecca con una laconica alzata di spalle. «Diciamo che non mi posso lamentare».

«Sono davvero felice per te» fece lei, stringendogli il braccio. «Va bene, allora a dopo. Adesso ho proprio voglia di bere qualcosa di fresco. In queste grandi città fa sempre così caldo!»

Jean osservò Rebecca mentre risaliva le scale ondeggiando i fianchi voluttuosamente. Avrebbe dato qualsiasi cosa per possedere quella sicurezza che trasudava da lei in modo così naturale, e di cui lui si sentiva invece completamente privo.

Eppure, pensò mentre si chinava per riavviare la macchina, Rebecca non aveva torto. La vita a Boston non era niente male, per lui.

Quando due anni prima aveva ricevuto la lettera dal MIT, Jean aveva pensato subito a uno scherzo. Era vero che di cose fino ad allora ne aveva fatte: aveva studiato ingegneria al politecnico di Berlino e fisica a Parigi; e quindi aveva cominciato a produrre progetti innovativi che le maggiori industrie meccaniche europee si erano offerte di pagargli a peso d’oro. Ma lavorare al MIT, il più moderno e innovativo istituto per la ricerca tecnologica al mondo, era tutta un'altra faccenda. Significava coronare un sogno: lavorare allo sviluppo per il progresso della scienza. Un progresso gratuito, non dettato dalle esigenze economiche di qualche privato e nemmeno dal desiderio di supremazia tecnologica di qualche governo. Il suo lavoro rispettava esattamente i suoi ideali: servire una scienza che fosse per tutti e a beneficio di tutti, una scienza che mostrasse il suo legame con il cuore umano e che avesse la sua forza nel mostrare all’uomo le possibilità per un mondo migliore.

E proprio per quella sua energia e per quegli ideali che lui non esitava a mettere in campo, quando necessario, le lezioni di Jean divennero presto le più frequentate del MIT, il Massachussetts Institute of Technologies. Dovettero assegnargli l’aula più grande dell’intero istituto e la fila di studenti che bussava alla sua porta in cerca di un dottorato era smisurata. Jean era sinceramente sorpreso di tutto quel suo successo, che senz’altro attribuiva all’effetto novità che la sua comparsa doveva aver suscitato. Probabilmente, o almeno così credeva, il fatto di avere solo ventun anni lo rendeva più vicino e simpatico ai suoi studenti, spesso più vecchi di lui. La verità però, era un'altra: tutti facevano a gara a seguire i suoi corsi perché erano, semplicemente, i più straordinari.

Ecco perché, solo il mese prima, Jean Luc Lartigue, docente di meccanica avanzata e di nuove tecnologie, era diventato il membro più giovane del comitato scientifico nazionale americano, nonché membro effettivo del consiglio accademico al MIT.

Allora, perché continuava a sentirsi come se non avesse mai combinato nulla in tutta la sua vita?

C'era qualcosa di vuoto in lui, che gli rodeva l'anima come un cancro, mandando in pezzi i suoi giorni. Uno spettro ribelle che lo abitava da tempo e che Jean aveva imparato a riconoscere in quel senso di stanca inutilità che talvolta lo spingeva a isolarsi dal mondo, e che gli metteva nel corpo un'agitazione frenetica, incontrollabile: il desiderio di alzarsi, di correre, legato all'impossibilità di stare per troppo tempo nello stesso posto. Gli accadeva di non riuscire a leggere né a lavorare. Talvolta, appena sentiva qualcuno parlare, provava fastidio. Voleva essere lasciato solo, ma allo stesso tempo soffriva di questa sua incapacità di comunicare agli altri il proprio disagio; e intanto, sentiva crescere in sé l'astio nei confronti di un mondo che non lo comprendeva e che lo abbandonava a una solitudine che talvolta cresceva fino a strozzarlo.

Cos'è che vuoi, si disse. Si può sapere cosa stai cercando?

Alzò gli occhi, incontrando il riflesso del suo volto sul lucido pannello di legno che copriva la parte posteriore della vettura. Ciò che vide fu un giovane già vecchio. Nessuna speranza, nessun sogno. Un vuoto nulla. Con nausea e rassegnazione, Jean girò seccamente la manovella di accensione. Il motore emise un borbottio, scoppiettò, quindi si avviò e lui andò a prendere posto accanto ad Alex, ignorando il suo sguardo indagatore.

Jean parcheggiò la sua Daimler al solito posto, poco lontano dall’ingresso del campus. Amava passeggiare attraverso gli ampi viali coronati di alberi che circondavano l’area universitaria. Forse era a causa dell’abitudine agli ampi spazi aperti in cui era cresciuto a Le Havre, ma la vita in una città caotica come Boston gli andava decisamente stretta. Quelle passeggiate nel verde erano una reale necessità per lui, qualcosa di assolutamente vitale: un modo per ritrovare se stesso attraverso le proprie abitudini.

Camminare accanto ad Alexandra per quei sentieri tranquilli, gli fece improvvisamente capire quanto con lei stesse bene. Il loro rapporto era molto più di un'intensa intesa intellettuale. A volte sentiva la sua esistenza vibrare insieme a quella di lei, come in sincrono: e la cosa lo sconcertava ed affascinava insieme. Erano anni che non provava un'emozione come quella. Lei lo capiva più di chiunque altro. E per questo, era diventata l'unica persona a cui lui non avrebbe mai potuto rinunciare, dopo Marie.

Una cosa che gli piaceva di quella ragazza era la sua capacità di far sentire sempre gli altri a loro agio. La sua intelligenza era qualcosa che poteva decisamente spaventare, ma lei non ne faceva mostra, a meno che non dovesse rimetter al suo posto qualche arrogante presuntuoso, che pensasse ingiustamente di valere più di lei.

Comunque, in quel momento era decisamente rilassata.

Jean ripensò alle parole di Rebecca e sentì il volto avvampare. Lanciò uno sguardo furtivo alla ragazza, che sorrideva, parlando allegramente e gesticolando, come era suo solito quando era molto presa da una conversazione.

Certo, è molto carina, pensò, indugiando per un attimo sulle sue fattezze sinuose ed eleganti.

Ma cosa dici? È uno schianto...

Forse era lei la risposta. Tanto vicina, eppure così lontana. Magari il senso della sua vita era lì, a pochi passi da lui. Si trattava solo di lasciarsi avvicinare.

Si lasciò sorprendere mentre la fissava. Lei gli piantò gli occhi in volto, curiosa. Quando lo vide arrossire e distogliere lo sguardo, lei sorrise, compiaciuta.

«Sei sempre così timido?» chiese all’improvviso. Jean sussultò.

«In che senso?»

«Nel senso se sei sempre così timido...»

«No... beh, forse. Ma riguardo a cosa, esattamente?»

Dio, ma di cosa diavolo stiamo parlando?

Alex rise, portandosi graziosamente una mano alla bocca. Il sole che filtrava tra le ampie fronde secolari del parco si rifletteva sui suoi lisci capelli castani, che le incorniciavano il volto, luccicanti come seta.

«Insomma... proprio non mi chiederai mai di uscire?»

Jean si immobilizzò. Cos’è che aveva appena detto?

«Uscire?»

Lei lo fissava piena di aspettativa, sulle guance un rossore diffuso. Forse lui attese un po’ troppo prima di risponderle, perché un velo di imbarazzo calò tra di loro, spingendola a distogliere lo sguardo e a passarsi una mano tra i capelli, nervosa.

«Alex io... il fatto è che...»

Chiediglielo, imbecille. Cosa stai aspettando?

«Professor Lartigue! Eccola, finalmente!»

Jean rimase come sospeso, con la sua dichiarazione ancora in bilico sulle labbra. Mr. Devon, il custode, avanzava verso di loro, trafelato, correndo come una papera all'ingrasso. Jean sbuffò, ma Alex parve decisamente sollevata da quell'inaspettato diversivo.

«Sapevo che l’avrei trovata qui in giro» esalò allegro il piccolo uomo in divisa, che fissava Jean attraverso due sottili occhietti vivaci, «ma quando ho veduto che tardava, ho cominciato a preoccuparmi».

Jean continuava a occhieggiare timidamente il volto di Alexandra, che ora evitava di incontrare il suo sguardo.

«Qual è il problema, signor Devon?» disse, cerando di ostentare una sicurezza che in quel momento non aveva per nulla. «La lezione comincia solo tra quindici minuti».

«Ci sono alcune persone che sono venute apposta per lei» riprese il custode.

«Per me? E chi sarebbero?» fece Jean, con un’alzata di spalle.

«Un tal signor Garrett. Con altri signori».

Jean sussultò. «Garrett? Hanson Garrett, per caso?»

«Non so» fece Devon. «Non ha lasciato detto il nome. Solo Garrett».

«E dove si trovano ora?»

«La attendono nel suo studio. Mi sono permesso di farli accomodare».

Jean si mise a correre. Era eccitato e nel contempo felice. Sperava davvero che si trattasse di Hanson, il vecchio amico con cui aveva vissuto tante avventure e che lo aveva seguito a Berlino, dove avevano studiato insieme per diverso tempo.

Era successo quasi tre anni prima, quando...

Lascia perdere. Lei è una storia chiusa.

Con emozione, aprì la porta del suo studio. Un uomo corpulento, sui trentacinque anni, era appoggiato alla scrivania, le gambe intrecciate. Parlava con qualcuno seduto alla poltrona che dava le spalle all’entrata. Quando lo vide entrare, Hanson sollevò su Jean gli occhi languidi e incavati, segnati da due perenni occhiaie, che conferivano al suo volto ampio e rotondo una dolcezza bovina. Abbozzò un sorriso, e una luce gli si accese in volto.

«Ma guarda chi si vede! Il professor Lartigue!» esclamò con la sua voce bassa e dall'inconfondibile nota nasale.

Jean gli si fece incontro, stringendolo in un abbraccio. L’uomo ricambiò cordialmente, avvolgendolo tra le sue grosse braccia e battendogli amichevolmente la mano sulla spalla.

«Hanson, quanto tempo! Quando mi hanno detto che un certo signor Garrett era qui, ho davvero sperato che fossi tu!»

«Voglio ben vedere! Chi può essere felice di trovarsi davanti l’altro Garrett?»

Jean rise. «Se proprio vuoi saperlo, Sanson fa l’attore. Vive poco lontano da qui, lo sento spesso».

Hanson rise di gusto. «L’attore? Ma per piacere... è sempre stato un pagliaccio, nulla più!»

Jean lasciò che il suo sguardo si posasse sull’uomo che se ne stava accanto a loro, seduto in poltrona. Era affascinante, alto all’apparenza e sui trent’anni. Il volto aveva lineamenti decisi e portava sottili ed eleganti baffi arricciati. Vestiva un completo estivo di lino e aveva i capelli mossi, ben impomatati e pettinati all’indietro. Fissava Jean con un mezzo, enigmatico sorriso.

Hanson si schiarì la voce.

«Jean, vorrei presentarti il signor...»

«Fisher. Jonathan Fisher» fece quello, tendendo la mano mentre si alzava. Jean la strinse macchinalmente.

Fisher? Perché quel nome gli diceva qualcosa?

Hanson lanciò a Jonathan uno sguardo severo, che lui ignorò.

«E senz'altro ti ricorderai di...»

Nadia!

Improvvisamente, il mondo si fermò. Jean rimase a fissare la giovane donna che fino a quel momento era rimasta nascosta, come fosse invisibile. Lei lo fissava piena di imbarazzo, il volto dalla pelle color dell’ambra screziato di rosso. Gli occhi erano vividi e scintillavano come quando una luce troppo forte arriva a colpirli.

«Ciao, Jean» fece lei. E si avvicinò, tendendogli la mano. «È bello rivederti».

Jean non si mosse. Tutto quello che era capace di fare, in quel momento era continuare a respirare. Ma neppure quello gli riusciva molto bene.

Nadia restò per qualche istante con la mano tesa. Quindi, non ricevendo alcuna risposta, la abbassò vergognosamente, lisciandosi la gonna e guardando di sottecchi gli altri. Il suo sguardo si posò distrattamente sul volto della giovane donna che era entrata insieme a Jean e non poté evitare di notare quanto lei la studiasse con una severità tale che la infastidì. Nadia rizzò il mento e sostenne il suo sguardo, ma la ragazza distolse immediatamente gli occhi e li concentrò su Jean.

«Jean» riprese Hanson, visibilmente in imbarazzo «perdonaci questa intrusione ma...»

«Scusatemi, devo andare a fare lezione» lo interruppe lui.

Fu tutto quello che disse, prima di uscire dalla porta senza nemmeno voltarsi indietro.

  
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