Capri
espiatori
Il
titolo di questo capitolo è un termine abbastanza in uso che significa ‘persona
o gruppo di persone incolpate per la tradizione popolare, per antiche questioni
o per pura sfortuna di crimini o di disgrazie che non hanno commesso o che non
potevano causare’.
Spesso
la folla, incapace di dare una spiegazione logica agli eventi, cerca di punire
il primo probabile sospetto che le capita a tiro. Infatti, nel capitolo
precedente, i pontelagolunghesi hanno subito scelto come capro espiatorio
Alcarin, perché era vestito strano e non lo avevano mai visto prima. Se invece
avessero voluto ragionare, avrebbero capito che allo stregone non importava affatto
distruggere il carretto, che lo aveva fatto solo perché era stato spintonato e
aveva sbagliato incantesimo e che a lui interessava solamente catturare Legolas
e costringerlo a pagargli le 6000 monete d’oro, logicamente più gli interessi, pattuite
per il teletrasporto con il quale il nove dicembre aveva rimandato a Gran
Burrone lui e i suoi cinque compagni. Naturalmente questo avrebbe comportato
anche il racconto di come aveva conosciuto il figlio di Thranduil e di chi era
lui in particolare, ma per una simile narrazione non sarebbero bastate meno di
dieci ore. E ovviamente la folla inferocita non avrebbe mai aspettato così
tanto tempo, ansiosa com’era di ammazzare qualcuno.
Altre
volte è invece l’autorità che, per non perdere prestigio ammettendo che la
causa del male è la propria negligenza, indica uno straniero o un ‘diverso’ in
generale come colpevole di tutto ciò che è accaduto.
In
questo caso, però, il governante deve assicurarsi che il malcapitato non sia
nessuno di importante, anzi deve essere sicuro che sia proprio una nullità,
perché sennò i suoi amici o parenti potrebbero protestare.
Ma
ora torniamo alla nostra storia.
Eomer
raggiunse subito Faramir e Boromir che correvano tirando i muli per potersi
allontanare più in fretta possibile dopo quello che aveva detto il giovane
cavaliere.
“Credo
di aver capito perché ci sono state guerre tra voi e i dunlandiani: li
offendete ed è chiaro che loro vogliano vendicarsi!” disse Faramir.
“Ma...
insomma... era facile sbagliarsi...” borbottò Eomer.
“Ha
ragione: quelle tre pecore non sembravano certo uomini!” esclamò Boromir con
voce assente.
“Visto?
Lo dice anche tuo fratello!”
“Dato
il suo stato confusionale, io non riterrei motivo di vanto il fatto che lui
condivida le tue idee.” ribattè Faramir.
“Cosa???
Non ho capito un tubo!”
“Insomma,
ho detto che hai le stesse opinioni di un drogato!”
“Come
ti permetti?!? Ti sfido a duello!” esclamò Eomer colpendo Faramir con un
guanto.
“Che
bello! Voglio fare l’arbitro!” gridò Boromir.
“Senti
Eomer, non faremo nessun duello! Siamo ancora in Dunland e quei tre pecorai
potrebbero raggiungerci!” ribattè l’unico fra i tre uomini che avesse un minimo
senso della ragione “Quindi sbrighiamoci ad andarcene e BASTA!!!”
Gli
altri due si zittirono all’istante e il viaggio continuò senza problemi.
Intanto
Gandalf, il famosissimo stregone conosciuto in tutta la Terra di Mezzo per le
sue imprese e nella Contea per i suoi fuochi d’artificio, stava camminando
proprio nella loro stessa posizione del Dunland. Aveva una missione importante:
doveva incontrare un suo informatore fra i dunlandiani per accertarsi che non
stessero preparando un’altra guerra contro Rohan. Poi, già che c’era, si
sarebbe comprato una bella pelle di pecora perché gli anni pesavano anche a lui
e le ossa gli dolevano parecchio durante l’inverno.
“Radagast
mi ha detto che il nostro amico doveva dirmi queste parole d’ordine:-Vedi una
pecora?- e io dovevo rispondere -Sì, anche bella grossa. Ci faremo un sacco di
lana con la tosatura.- Ha anche cercato di riferirmi come si chiamasse e che
faccia avesse, ma poi l’ha sentito un pettirosso ed è dovuto scappare... Io
proprio non capisco in cosa consista il suo grande potere, essere perseguitato
dagli uccelli non mi sembra ‘sto gran che...” pensava Gandalf mentre osservava
l’orizzonte sperando di scorgere una qualche presenza di vita.
Dopo
un po’ di tempo, arrivò in cima a una collina e vide alcuni dunlandiani con una
mandria di pecore in fondo al colle. Si diresse subito verso di loro, sperando
di poter trovare l’informatore.
Purtroppo
per lo stregone, quelli che aveva visto erano Pastorful, sua moglie, suo
cognato che stavano discutendo animatamente con altri pastori che avevano
appena incontrato.
“E
quell’insolente di un ragazzino a cavallo mi ha risposto che comunque era la
donna che ogni caprone avrebbe voluto! Ma vi rendete conto??? Mi ha dato del
caprone puzzolente, oltre ad aver offeso mia moglie!!!” sbraitava il capr...
ehm, Pastorful.
“Per
mille pecore e capre! Questi uomini di Rohan sono proprio degli sfrontati!
Forse dovremmo dargli una lezione...” disse uno dei dunlandiani appena arrivati.
“Purtroppo
è impossibile! Come dice sempre Dartagimb: ‘chi di spada ferisce, ne piglia
sempre una sacca’!” sentenziò un’altro.
“Ma
i proverbi non dovrebbero fare rima?” chiese il cognato di Pastorful.
“Sì,
è vero... Com’è che dovrebbe essere allora? ‘Chi ferisce una vacca, ne piglia
sempre una sacca’?” domandò la moglie.
“No,
aspetta, non mi suona... Forse era ‘Chi pesta una cacca, ne piglia una sacca’,
no?” provò il primo dunlandiano.
“Oppure
‘chi tira una cacca, ne piglia una sacca’?” azzardò il secondo.
“Basta
con questi proverbi! Quel che volevo dire era che questi uomini di Rohan non ci
vedono proprio per niente! Insomma, vi sembra forse una pecora?” domandò
Pastorful indicando sua moglie. Gli altri dunlandiani risposero insieme che non
sembrava affatto una pecora e che aveva ragione.
“Già,
ve lo dimostrerò: vedete quel tipo là che si sta avvicinando? Ora lo chiederò
anche a lui!” disse indicando Gandalf che stava scendendo la collina.
“Salve
a tutti!” disse lo stregone quando li raggiunse.
“Salve
a te, straniero! Senti, vedi una pecora?” domandò Pastorful indicando verso sua
moglie e guardandolo con fare significativo.
“Ah!”
fece Gandalf ammiccando “Sì, anche bella grossa. Ci faremo un sacco di lana con
la tosatura.”
“C-COSAAA???”
gridò il dunlandiano deformando il viso per la rabbia.
“Che
c’è, ho detto qualcosa che non va?” chiese Gandalf un po’ preoccupato per
l’espressione furibonda di tutti.
“Lo
domandi anche, brutto vecchiaccio???” urlò Pastorful tirandogli un pugno in
pancia.
“Ouch!
Ma che ho fatto?” domandò di nuovo Gandalf portandosi le mani sullo stomaco per
il dolore.
“Vecchio
idiota, te la do io la pecora!” gridò la moglie di Pastorful colpendolo con un
gancio sinistro al mento. Lo stregone cadde a terra e il bastone gli scivolò
via.
“Addosso!”
gridò il cognato di Pastorful e tutti assalirono lo sventurato Gandalf. Gliene
diedero di santa ragione, visto che non poteva difendersi usando il bastone.
Dopo che lo ebbero maciullato per bene, decisero che poteva bastare e
cominciarono ad andarsene. Pastorful fu l’ultimo ad allontanarsi, prima prese
lo stregone per il bavero della veste insanguinata e, guardandolo fisso negli
occhi, gli disse:“Non ti azzardare a far rivedere la tua brutta faccia in
questa terra! Tu e quel tuo stupido amico di Rohan che vi divertite ad
offendere mia moglie sarete fatti a pezzi a colpi d’ascia se oserete ritornare
qua! Come dice Dartagimb: ‘uomo avvisato, mezzo non tagliato’.”
Detto
questo, lasciò cadere Gandalf e raggiunse gli altri dunlandiani.
Lo
stregone rantolò disteso a terra e strisciò fino al suo bastone. Con le sue
arti magiche e la sua conoscenza delle erbe si medicò alla meno peggio,
fermando almeno le varie emorragie. Quando ebbe finito, decise che era meglio
ritornare a Gran Burrone di corsa per evitare di finire davvero male. Mentre
cercava di alzarsi in piedi nonostante le numerosissime contusioni e fratture
multiple, pensò di essere stato vittima di un cattivo scherzo da parte di Radagast
e perciò cominciò a pianificare la sua vendetta. Invece avrebbe dovuto pensare
che quello che gli era successo era stato solo colpa della sua sfortuna e che
era stato il capro espiatorio di altri caproni... ehm, di persone già infuriate
per i fatti loro.
Purtroppo
per Radagast, Gandalf non pensò assolutamente queste cose, ma aspettò di
incontrarlo nuovamente per dargli pan per focaccia.
Mentre
arrancava zoppicando sui sentieri sassosi, un dunlandiano lo scorse da lontano.
Questi altri non era che il suo informatore e subito gli corse incontro. Quando
Gandalf lo vide, temendo che fosse uno che voleva dargli un altro sacco di
legnate, subito gli puntò contro il bastone e gli gridò:“Fermo dove sei o ti
incenerisco!”
Il
dunlandiano fu piuttosto perplesso per questo suo comportamento e, rimanendo a
due metri di distanza da lui, disse:“Va bene, mi fermo qua. Non ti preoccupare,
non voglio farti del male. Devo solo domandarti una cosa: vedi una pecora?”
A
quel punto, lo stregone perse completamente la ragione: sul suo viso comparve
un’espressione di rabbia incontenibile e divenne rosso, i suoi occhi si
iniettarono di sangue e la sua mano destra strinse il bastone fino a che le
nocche diventarono bianche.
“Ti
sei messo d’accordo con Radagast per questo, vero?” chiese con voce ancora
abbastanza calma.
“Sì,
certo. Ma che ti succede? Perché sei tutto rosso?” domandò l’informatore
spaventato.
“Ah,
tu e Radagast avete organizzato questo scherzo, eh? Beh, devo dirti due cose:
la prima è che avete un pessimo senso dell’umorismo, se vi fa ridere che uno
venga riempito di legnate, e la seconda è che ve la farò pagare amaramente!!!
Non appena troverò Radagast, avrà quel che si merita; ma per ora mi
accontenterò di te! Muori!!!” gridò Gandalf saltando addosso allo sbalordito
dunlandiano. Incurante del dolore per le botte prese prima, lo stregone colpì
con violenza inaudita il dunlandiano per un bel po’ usando il suo bastone. Poi
si rialzò e gli disse:“Non conosco proverbi come quel vostro Dartagimb, ma ti
posso dire che mi sono sfogato e che ti devi ritenere fortunato se non ti ho
ammazzato! Radagast non avrà la tua fortuna!”
Lasciandosi
alle sue spalle il povero dunlandiano che si domandava ancora perchè fosse
diventato il capro espiatorio della rabbia di quello stregone pazzo, Gandalf si
allontanò zoppicando in direzione della Casa di Elrond.
Alcuni
giorni dopo, Faramir, Boromir ed Eomer arrivarono nei pressi di Edoras. La
città si stagliava sopra una collina, costruita quasi interamente di legno ad
eccezione del grande palazzo d’oro di Meduseld.
“Beh,
io sono arrivato. È stato un piacere viaggiare con voi.” disse il giovane
cavaliere.
“Sì,
insultare le pecore e i caproni è stato davvero divertente!” ridacchiò Boromir
non ancora del tutto lucido.
“Già,
ma spero che troverai il modo di scusarti, sennò ci sarà difficile passare
ancora per quelle terre a gennaio.” fece notare Faramir.
“Uffa,
sono dunlandiani, se ne saranno già scordati! Non hanno la memoria lunga, a
meno che non gli si ricordi l’insulto e non credo che ci sia qualcuno che darà
della pecora a quella signora sovrappeso e con molto pelo superfluo. Addio e
buon viaggio! Ci rivedremo a gennaio.” Dopo essersi salutati, Eomer si diresse
verso Edoras, mentre i due fratelli proseguirono per la loro strada, che li
portò infine a raggiungere Minas Tirith il venti dicembre. Ovviamente tutti
sapete com’era fatta la meravigliosa Città Bianca, perciò io non perderò tempo
a scriverlo.
Faramir
e Boromir, una volta fattisi riconoscere al portone, vennero accompagnati dalle
guardie fino alla cittadella, dove si trovava il palazzo regale e sede dei
Sovrintendenti.
Loro
padre, Denethor figlio di Ecthelion, un uomo sulla cinquantina dagli occhi
scuri e i capelli neri con qualche ciocca grigia, li aspettava seduto sul suo
scranno di pietra nera disadorno in fondo alla sala del trono. Non appena
entrarono, si alzò felice e corse ad abbracciarli. Anzi, per la precisione
corse ad abbracciare Boromir, ignorando bellamente il suo secondogenito, che un
po’ ne soffrì, anche se ormai era abituato a quel trattamento.
“Oh,
finalmente sei tornato, Boromir, figlio mio adorato, mio degno erede!” esclamò
Denethor e si profuse per un bel po’ in lodi sperticate di Boromir continuando
ad abbracciarlo. Poi infine sembrò accorgersi anche della presenza di Faramir.
“Ah, e hai riportato anche il tuo fratellino. Bravo, lui da solo non ce la
farebbe mai!” Il ragazzo sospirò: questo non era proprio quel che si dice un
caldo benvenuto, ma perlomeno non lo aveva ancora accusato di cose che non
poteva aver fatto, usandolo come capro espiatorio.
“Dobbiamo
festeggiare il tuo ritorno, mio erede preferito! Andiamo a pranzare!” disse il
Sovrintendente al figlio maggiore, il quale però indicò il fratello con un
movimento degli occhi. Denethor sbuffò e aggiunse:“Vieni anche tu, Faramir.”
Mentre
camminavano verso la sala da pranzo, l’uomo anziano si toccò con una mano una
costola come se gli dolesse.
“Stamattina
svegliandomi sono caduto dal letto.” spiegò rivolto ai figli una volta che
furono entrati nella sala sobria dove si trovava un tavolone apparecchiato per
quattro.
“Oh...
Mi spiace!” rispose Faramir, sinceramente dispiaciuto.
“Certo
che ti dispiace! Ipocrita, è colpa tua!”
“Ma
come può essere colpa mia??? Io non c’ero!” ribatté Faramir, mentre pensava:“Ho
gioito troppo presto...”
“Certo,
sempre scuse patetiche. E poi è vero: tu non ci sei mai ad aiutare il tuo
anziano padre, a sostenerlo, a fargli compagnia!”
“Ma
papà, sei stato tu che ci hai mandato via e...”
“Ecco,
dai sempre la colpa a tuo padre! Inoltre stamattina il cibo a colazione era
pessimo, ed era colpa tua!”
“Ma...”
“Zitto!”
“Insomma
papà, lui non c’era, era con me, non può averti rovinato la colazione!” esclamò
Boromir con la faccia di uno che dice una cosa talmente ovvia che tutti la
dovrebbero capire, visto che l’ha compresa perfino lui.
“Ah,
che spirito nobile, Boromir! Difendi sempre quell’immeritevole di tuo fratello!
E lui non ti ringrazia mai, anzi! Fa di tutto per farti andare male a scuola!
Non mi inganni, Faramir: nonostante nella lettera che mi è arrivata ci fosse
scritto il contrario, ho capito benissimo che è tutta una congiura per farti
sembrare più intelligente e più dotato di Boromir, quando invece è chiaramente
lui il migliore!”
“Non
è vero, io...” provò a ribattere Faramir, ma Denethor lo zittì con un gesto.
“Basta!
Questo è troppo. Addio!” Detto questo, prese una torcia dalle pareti della sala
da pranzo e salì su una catasta di legna accumulata lì per accendere il fuoco
nel camino. “È la fine, non cercate di fermarmi!” Ma un attimo prima che buttasse
giù la torcia una mano gentile gliela strappò via.
“Ancora
queste scene, Denethor? La vuoi finire una buona volta con queste manie da
piromane suicida?” lo rimproverò la moglie Finduilas usando la torcia per
accendere il fuoco nel camino. Era una donna dagli occhi chiari molto bella e
giovane rispetto al marito, non aveva infatti più di trent’anni. Il suo viso era
quasi pallido e contornato da capelli ramati.
“Manie??
Non è vero, donna! Non l’ho mai fatto!” ribatté Denethor furioso.
“Ma
se è già la quinta volta dall’inizio del mese!”
A
questo punto il Sovrintendente, preso in contropiede, non seppe cosa
rispondere, ma dopo un attimo gli venne un’idea. La moglie tuttavia lo
precedette:“E non ti provare a dare ancora la colpa a Faramir! Non ce la faccio
più: ogni cosa che ti succede dai sempre la colpa a Faramir. Di questo passo
arriverai a dire che è colpa sua se stanotte sei caduto dal letto! O l’hai già
fatto?” domandò inquisitoria.
Dal
silenzio capì che ciò era effettivamente appena successo.
“Denethor,
non la smetterai mai di prendertela con Faramir per ogni cosa? Non capisci che
in questo modo ti comporti ingiustamente con tuo figlio, favorendo troppo suo
fratello invece?” lo rimproverò la moglie sospirando.
“Ma
sta’ zitta, donna fantasma! Va’ via! Vattene a ululare da un’altra parte!”
sbottò stizzito Denethor sedendosi a tavola. Finduilas sospirò con
rassegnazione e andò ad abbracciare i figli.
“Papà
è ancora convinto che tu sia morta otto anni fa, mamma?” le domandò poi
Faramir. La madre sospirò ancora.
“Sì,
ma ormai ci hanno fatto tutti l’abitudine, così come con le sue altre piccole
follie.” rispose guardandolo con compassione. Infatti otto anni prima, Denethor
si era svegliato una mattina con la ferma convinzione che la moglie fosse
morta. Poco gli importava che Finduilas gli ripetesse che non solo era viva, ma
anche in perfetta salute. Lo aveva annunciato al maggiordomo e ai camerieri, i
quali avevano guardato stupiti la presunta morta che si vestiva, faceva
preparare la colazione e svegliava i figli. Poi anche loro furono informati
della morte di loro madre dal padre in lacrime. Boromir e Faramir fissarono
loro padre allibiti, dato che Finduilas era seduta di fronte a loro e li stava
rimproverando per il modo in cui tenevano le forchette. Nella corte tutti
cercarono in ogni modo di far ragionare il Sovrintendente, facendogli vedere
che sua moglie era viva e vegeta, ma Denethor non volle cambiare idea,
ripetendo testardamente che era così perché “me l’ha detto la pietra rotonda”.
A quel punto si cominciò a sospettare che fosse un po’ tocco e perciò si pensò
che fosse meglio assecondarlo. Si tennero i finti funerali di Finduilas e tutti
piansero per la sua morte in così giovane età. La corte e tutta Minas Tirith
furono a lutto per un anno. Anche la stessa Finduilas portò il lutto, dicendo
che piangeva “la morte di quel poco di intelligenza che aveva mio marito”. Poi
la vita tornò alla normalità: nessuno parlò mai più al Sovrintendente di sua
moglie, la quale continuò a vivere con lui e a badare ai suoi figli. Denethor
tuttavia, anziché rendersi conto, come una qualunque persona dotata di senno,
che la moglie era viva, poiché continuava a vederla, affermò che era il suo
fantasma che non voleva lasciarlo. Perciò da sette anni Finduilas conviveva con
un uomo che la credeva un fantasma e non le parlava mai, se non per chiederle
notizie sull’Aldilà.
“Povera
mamma!” dissero in coro i due figli.
“Oh,
non preoccupatevi,” rispose lei “io ho promesso di rimanere qui solo finché voi
non sarete diventati adulti, poi farò le valigie e me ne andrò via da questa
gabbia di matti! E ora venite, mangiamo qualcosa e raccontatemi di Gran
Burrone.”
“Smettetela
di parlare con un fantasma o vi prenderanno tutti per matti!!!” tuonò Denethor
da capotavola.
“Sì,
papà.” risposero in coro i figli.
“No,
Faramir, tu continua pure, tanto sei irrecuperabile. Invece tu, Boromir, mio
eroe, parlami di come hai superato in abilità e forza tutti gli elfi di quel
postaccio dove il fantasma mi ha convinto a mandarvi tormentandomi con i suoi orribili
gemiti.”
Mentre
Faramir e Boromir erano alle prese con il loro pranzo di famiglia, Aragorn
veniva posto di fronte a una scelta terribile: o sposare una delle figlie di
Surdabanipal XXVII o perdere la testa in senso letterale a opera dell’ascia del
boia. Per capirci però qualcosa di più dobbiamo tornare indietro al quattordici
dicembre a Pontelagolungo, dove abbiamo lasciato il ramingo svenuto e coperto
dalle macerie della Locanda del Totano Ciucco nella Piazza dei Mercanti
Avvinazzati.
Subito
dopo il crollo di quel che rimaneva della locanda i soldati e il governatore,
al sicuro nelle retrovie, avanzarono oltre la barricata per vedere cosa fosse
successo. Osservato il disastro, il governatore diede immediatamente ordine di
cercare fra le macerie i feriti e di portargli il figlio di Thranduil e il suo
amico vivi o morti. Contemporaneamente Legolas, fingendo di essere un
fantomatico nuovo comandante elfico, mandava alla carica i soldati che
presidiavano l’altra barricata a nord che così si ritrovarono tutti nella
piazza insieme agli altri.
“Ma
che è successo qua? Dov’è il mostro?” domandarono i soldati appena arrivati.
“Cosa
ci fate qui? Vi avevo ordinato di non muovervi dalla barricata!!” gridò il
governatore “Sergente, perché hai disubbidito??”
“Ma
cosa dice, signor governatore? È lei che ci ha ordinato di caricare!” ribatté
il sergente a capo del manipolo.
“Sei
uscito di senno??? Io non ho dato nessun ordine!!!” sbraitò l’uomo furioso.
“Senta,
è vero che lei in persona non ci ha dato nessun ordine, ma è stato il suo nuovo
comandante elfico, Turgon, mi pare, insieme al suo vice che ci ha detto di
andare all’attacco. Noi abbiamo solo obbedito!” spiegò il sergente.
“Nuovo
comandante elfico??? Ma io non... Aspetta un attimo. Sergente, l’elfo per caso
aveva i capelli biondi perfettamente in ordine, neanche una goccia di sudore
nonostante avesse corso e mantello e stivali all’ultima moda?” domandò con una
strana luce negli occhi.
“Ora
che mi ci fa pensare, sì. In effetti era molto simile a...” e si interruppe
fissando impaurito il governatore. Deglutì e finì la frase:“Ehm, era molto
simile a Legolas...”
“Ah,
davvero? BRUTTO IDIOTA!!! Certo che era simile a Legolas, era Legolas!!! E
scommetto che il suo compare era Imlelil! Deficienti, ve li siete fatti scappare!!!”
ululò il governatore fuori di sé.
Nel
frattempo i soldati avevano tirato fuori da sotto le macerie quasi tutti,
compresi Aragorn e Bausciòn. Quest’ultimo, appena rinvenuto, era subito corso
dal governatore, distogliendo così la sua attenzione dal sergente che venne
salvato dalla sua terribile punizione.
“Governatore,
dov’è finito quel maledetto elfo donnaiolo?”
“Ma
che ne so! Quegli idioti sull’altra barricata l’hanno fatto fuggire e... Ma
aspetta, tu che ci fai qui? Non eri fra quelli che avevano tentato i primi
attacchi contro il mostro.” domandò il governatore, che conosceva molto bene
Bausciòn, dato che si presentava spessissimo nel suo palazzo chiedendo il
permesso di istituire una ronda per sorvegliare la sua casa e impedire così che
Legolas andasse a trovare sua figlia.
“Io
ho inseguito Legolas per i miei motivi che lei conosce bene e sono salito dal
lago.” spiegò indicando l’acqua alla loro destra.
“Allora
tu forse puoi anche spiegarmi chi ha fatto crollare definitivamente la
locanda.” disse il governatore “Perché sarà lui a pagare il conto al
proprietario, quando si sveglierà.” Al sentire queste parole Bausciòn cominciò
a sudare freddo. Doveva assolutamente dare una spiegazione convincente di ciò
che era accaduto senza dire la verità, perché non era certo in possesso di una
somma simile a quella necessaria per ripagare l’oste della sua locanda
distrutta. Doveva trovare qualcun altro a cui dare la colpa, qualcuno a cui
tanto nessuno avrebbe creduto o che si sarebbe preso la briga di ascoltare, uno
sconosciuto, uno straniero, magari pure sporco e malconcio. Insomma, doveva
trovare un capro espiatorio. In quel momento Aragorn, disteso a terra poco
lontano, tossì e borbottò qualcosa riguardo alle budella di Legolas appese a un
palo. Bausciòn lo osservò con interesse. Era senza dubbio uno straniero e, da
quel che gli suggerivano le sue narici, pure parecchio sporco. Sì, era
perfetto!
“Adesso
le spiegherò tutto, caro governatore. Vede quell’uomo là a terra, sporco e
puzzolente? Ecco, è tutta colpa sua! È stato lui che, volendo uccidere Legolas,
mi ha strappato la lancia di mano, gliel’ha lanciata contro, ma lo ha mancato e
ha centrato invece la locanda facendola crollare.” affermò Bausciòn.
“Molto
bene, Bausciòn. Ho ascoltato la tua versione della storia, ma, per equità, devo
fare qualche domanda anche a quello straniero, prima di dichiararlo colpevole e
costringerlo a risarcire l’oste.” disse il governatore, felice che Bausciòn gli
avesse offerto un così bel capro espiatorio sul piatto d’argento. Ordinò ai
soldati di gettare un secchio d’acqua in faccia ad Aragorn per svegliarlo. Il
ramingo aprì gli occhi di scatto e schivò abilmente la secchiata.
“Ma
che modi sono? Cercare di lavare una persona mentre non può difendersi!” gridò
furioso alzandosi in piedi. Il governatore avanzò verso di lui, mentre con dei
cenni ordinava alle guardie di attorniarlo impedendogli di fuggire.
“Signore,
io sono il governatore di Pontelagolungo e, come tale, devo farle alcune
domande. Prima di tutto, che ci fa lei qui?”
“Stavo
inseguendo quel lurido verme infame e diffamatore di Legolas per tagliargli la
lingua e qualche altro attributo, in modo da lavare l’offesa fatta da costui
alla purezza del mio amore.” spiegò Aragorn usando il linguaggio contorto che
aveva ereditato dai suoi antenati.
“Dunque
tu odi Legolas Verdefoglia e lo vorresti uccidere?” incalzò il governatore.
“Sì,
per questo l’ho inseguito fin qui.” rispose Aragorn cominciando a
insospettirsi.
“In
base a questa tua confessione, ti dichiaro colpevole di aver abbattuto la
Locanda del Totano Ciucco nel tentativo di uccidere Legolas, principe di Bosco
Atro!” dichiarò il governatore.
“Cosa?
No, aspettate un attimo...” si oppose Aragorn, ma venne ignorato.
“Guardie,
portatelo via!” ordinò il governatore. Le guardie fecero per afferrare Aragorn,
ma l’uomo si liberò dalla loro presa e corse verso il lago. Stese con un pugno
Bausciòn che cercava di fermarlo, si tuffò in acqua e fuggì a nuoto.
“Cosa
aspettate, idioti? Tirate le frecce, colpitelo!!” gridò il governatore saltando
per la rabbia. Ma ormai Aragorn, nuotando velocissimo sia per il freddo sia per
allontanarsi più velocemente possibile da quei matti, era già fuori tiro.
“Maledetto Legolas! Aveva veramente ragione: gli orchi almeno mi avrebbero
catturato senza darmi colpe assurde! Me la pagherà anche per questo!” pensò
mentre nuotava a tutta birra verso settentrione.
Il
governatore guardò con rabbia indicibile il suo capro espiatorio che fuggiva e
poi osservò Bausciòn ancora stordito. “Beh, adesso sarà lui a pagare l’oste...
poi punirò il sergente dandogli la colpa di aver fatto scappare Legolas e
Imlelil. Sì, dovrei essere a posto, la folla non potrà avercela con me per non
aver saputo gestire bene la situazione.” rifletté fra sé sorridendo
furbescamente. Ma i suoi piani furono sconvolti ancora una volta. Infatti
proprio in quel momento dal porto settentrionale arrivò la folla furibonda che
stava inseguendo lo stregone Alcarin ed era stata resa ancora più furiosa dalla
scomparsa del suo capro espiatorio.
“Dov’è
sparito quel maledetto vecchiaccio???” gridò l’uomo a cui Alcarin aveva fatto
esplodere il carretto del pesce e a cui Legolas e Imlelil avevano rubato la
barca.
“Sembra
scomparso nel nulla...” azzardò un ometto piccolo.
“Non
dire stupidaggini!!!” gridò il donnone che era sua moglie tirandogli un pugnone
in testa.
“Tipico
degli evasori fiscali: scompaiono sempre nel nulla!” sentenziò il ramingo che
portava ricamata sulla manica della giacca la sigla ATA.
“Peccato!
Dovrò rinunciare alla mia carriera di romanziere!” si lamentò il signore
grassoccio con dei baffoni e folti capelli ricci.
“Magari
ha usato una delle sue magie per volatilizzarsi.” suggerì l’uomo con la canna
da pesca.
“Già,
dev’essere così.” concordò il giovanotto che lo aveva precedentemente derubato
del portafogli.
“Ma
cosa è successo qua?” domandò la donna con una cesta con tre pesci. Solo a quel
punto la folla sembrò accorgersi delle macerie della Locanda del Totano Ciucco
sparse qua e là nella Piazza dei Mercanti Avvinazzati.
“Ma
chi può essere stato a fare questo disastro?” si chiese il tizio che camminava
sulle mani.
“È
stato il mostro.” gli rispose un soldato e gli raccontò quel che aveva capito
della vicenda. In breve tra la folla circolava una gran moltitudine di diverse
versioni dell’accaduto:
1) un elfo furioso aveva distrutto la locanda senza
motivo, era stato salvato da un suo amico, insieme avevano sbaragliato tutte le
guardie ed erano fuggiti;
2) l’elfo furioso in realtà era un beorniano magro e
presto ne sarebbero arrivati altri con l’avanzare dell’inverno;
3) a distruggere la taverna erano stati Legolas e un uomo
infuriato con lui (probabilmente per una questione di donne);
4) a distruggerla erano stati Legolas e Bausciòn
(certamente a causa di Melania, come tutti sapevano);
5) il nuovo comandante elfico Turgon aveva ordinato la
carica nel momento sbagliato e quindi la locanda era crollata per la delusione
data da un simile fallimento (questa in effetti era la versione ritenuta meno
verosimile).
Subito
l’ex proprietario della barca e del carretto si ricordò che i ladri che gli
avevano rubato l’imbarcazione erano due elfi. Perciò fece due più due e capì
che erano stati Legolas e un suo amico che avevano distrutto la locanda e
rubato la sua barca. Ma anche lo stregone li aveva aiutati. Purtroppo, quel che
era certo era che tutti e tre i colpevoli se l’erano data a gambe e, stando a
quanto aveva sentito, pure lo straniero infuriato con Legolas. Quindi, non
sapendo con chi prendersela, cominciò a inveire contro il governatore.
“Sapete
di chi è veramente la colpa di quel che è successo oggi? Del governatore!”
esordì mentre la folla si zittiva e anche i soldati e i feriti si avvicinavano
per sentirlo “Non è forse lui che dovrebbe proteggerci da pericoli come questi?
E invece guardate cosa mi è capitato! Ho perso ogni cosa! Il mio carretto, la
mia barca e il mio posto dove ubriacarmi!” gridò indicando le macerie della
locanda “E il governatore cos’ha fatto per impedirlo? Ve lo dico io: niente! E
non solo non ha fatto niente, scommetto che se la sarà pure presa con chi fra
voi ha commesso qualche piccolo errore, non è vero?”
“Hai
ragione!” gridò il sergente. Il governatore, solo in un angolo della piazza,
cominciò a preoccuparsi. Un brivido gli corse lungo la schiena e pensò
freneticamente a un modo per evitare di essere linciato dalla folla.
“Ma
io vi chiedo, o Pontelagolunghesi, noi non abbiamo forse un posto di guardia
sulla riva per impedire che i pericolosi criminali patentati come il principe
Legolas e i suoi compari entrino in città? Ebbene sì, lo abbiamo, peccato che
vi sia un’unica guardia sottopagata al suo interno! E sapete perché? Perché il
governatore si è intascato i soldi pubblici destinati a quella struttura!” A
quel punto il governatore si sentì osservato da un centinaio di occhi furiosi e
assetati di sangue.
“Io
ho sentito anche dire che la guardia è narcolettica!” affermò un soldato.
“COOOSA???
Siamo protetti da uno che dorme di continuo???” gridò la folla.
“Sì,
non c’è da stupirsi che faccia lui la guardia: era quello che si faceva pagare
di meno.” spiegò il soldato.
“E
poi io credo sia anche un lontanto nipote del governatore!” disse il sergente
rincarando la dose. Come se le cose non andassero già abbastanza male per il
primo cittadino di Pontelagolungo, in quel momento l’oste, riavutosi completamente
dalle botte subite, arrivò nella piazza e vide le macerie di ciò che una volta
era stata la sua locanda.
“COS’È
SUCCESSO ALLA MIA LOCANDA???” urlò infuriato come una belva.
“Legolas
e il suo amico l’hanno distrutta, ma noi pensiamo che, in fondo, la colpa sia
del governatore!” gli rispose l’ex proprietario del carretto e della barca.
“Ah,
è così? E pensare che facevo sempre lo sconto a quell’ubriacone di suo figlio!”
“Governatore
ladro! Governatore incompetente! Governatore nepotista!” rumoreggiò la folla
avvicinandosi minacciosamente al poveruomo, pronta a dargli una bella (e in
questo caso pure giusta) punizione. Tuttavia, si dice, la Fortuna è
capricciosa: cambia continuamente, se un attimo prima ti avversa, l’attimo dopo
ti favorisce. E infatti fu ciò che accadde. Mentre il governatore
indietreggiava impaurito cercando di ribattere alle accuse, un nano dalla barba
rossa ansimante e sfinito dopo una lunga corsa e un ancor più lungo digiuno
fece il suo ingresso nella piazza.
“Anf!
Scusi, -pant!- ha per caso visto -sbuff!- un uomo che inseguiva un elfo? Pant!”
domandò Gimli al governatore tenendosi una mano sulla milza.
“Cosa?”
chiese di rimando il governatore al nano voltandosi a guardarlo. Poi il suo
volto si illuminò: era salvo! Senza rispondere a Gimli si rivolse alla
folla:“Cittadini, statemi a sentire: so che siete giustamente infuriati per
quello che è successo oggi e vi capisco. Fate bene a essere arrabbiati! Ma
nella fretta di trovare il colpevole della sciagura abbattutasi su di noi avete
commesso degli errori di valutazione. Tuttavia non dovete temere: vi spiegherò
io come stanno veramente le cose. Ascoltatemi tutti bene: la colpa di tutto
quello che di male vi è successo oggi è di questo nano!!!” E finì il discorso
indicando Gimli con un gesto teatrale.
“EEEH?!?
No, aspettate un attimo! Non posso aver fatto niente, sono arrivato adesso! Non so neanche che vi sia capitato di male!” gridò il nano disperato. Ma ormai la
folla aveva deciso che sarebbe stato lui il suo capro espiatorio.
“Ah,
lo sapevo che era tutta colpa di quel nano!” affermò l’ex proprietario della
barca e del carretto.
“Già,
dev’essere stato lui a distruggere la mia locanda!” disse l’oste, quando sapeva
benissimo che era stato Imlelil, perché l’aveva visto e aveva ricevuto anche un
sonoro ceffone da lui.
“Sono
sicuro che è stato lui a rubarmi il portafogli, poco fa!” dichiarò l’uomo con
la canna da pesca.
“Già,
ha proprio la faccia da delinquente!” concordò il giovanotto che lo aveva
borseggiato prima.
“Scommetto
che è anche un evasore fiscale!” aggiunse il ramingo che portava ricamata sulla
manica della giacca la sigla ATA.
“Non
va neanche bene per trarne un romanzo!” si lamentò il signore grassoccio con
dei baffoni e folti capelli ricci.
“Di
certo è lui che ha ingannato me e gli altri soldati fingendosi un elfo!”
concluse il sergente, senza rendersi conto dell’assurdità di ciò che aveva
appena detto.
“UCCIDIAMOLO!!!”
gridò la folla all’unisono sollevando bastoni, lance, spade e canne da pesca.
Gimli, deciso a non farsi fare la pelle da quel branco di pazzi psicolabili,
optò per la fuga e si tuffò anch’egli nel lago allontanandosi a nuoto mentre i
cittadini gli lanciavano addosso tutto ciò che capitava.
Chi
non muore si rivede, eh? So che non è una scusa, ma tra l’ultimo aggiornamento
e questo me ne sono capitate così tante (sono pure diventato maggiorenne, si dice)
che solo le disavventure dei miei personaggi sono di più!
Ringraziamenti:
@Suikotsu: Sono un po’ tutti
tremendi!
@Rakyr il Solitario: Già, è
un bel tipo.
@evening_star: In qualche
maniera Aragorn si è salvato, no?
@stellysisley: Grazie mille!
@Chary: Confermo che ha preso
dalla madre!
@Amaerize: Beh, anche questo capitolo
è piuttosto lungo.
@Afaneia: In effetti,
seguendo la tua logica ferrea, avrei dovuto scrivere i dialoghi in elfico o in
lingua corrente e le parole di Gimli e dei suoi parenti in lingua nanica, e
avevo anche pensato di farlo, ma poi chi mi avrebbe capito?... Scherzo! Complimenti
per l’attenzione! Continua a seguirmi!