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Autore: crimsontriforce    22/11/2009    2 recensioni
La ferita è una via di pace in tempo di necessità; un luogo di pazienza, un luogo di pietra, un luogo in cui cadere, rialzarsi e venire cresciuti, se lo si vuole. Gehn no. Gehn per il suo compleanno vuole...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Gehn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1. Gente che viaggia nei libri'
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Il titolo fa il verso alla definizione Words-ficiale della Cleft, la ferita nella terra.

Scritta per le Storie d'infanzia indette da OttoNoveTre e classificatasi prima (:3) con meravigliosa fanart in premio (:333)!

E per la challenge No line on the horizon di Harriet, prompt "Beware of small men with big ideas" che propongo come slogan assoluto di Gehn: si adatta a qualunque cosa lo veda in scena, vieppiù qui che lo 'small' è non solo morale ma anche letterale.

ETA febbraio 2023 (!!): il mio adorato compagno mi vizia e me l'ha illustrata!










Il ferito nella terra





] The wound gives birth to the rebuilder of pride.
(Words, 4:88)







“Fra un mese è il tuo compleanno. Prima che passi la carovana vuoi dirmi, piccolo mio, cosa desideri per regalo?”

Suo figlio la scrutava per metà, sporgendo fino al naso dalla grossa ciotola fumante della colazione. Anna bevve l'ultimo sorso dalla sua e restò in attesa di una risposta, lasciando che il silenzio del deserto sopra di loro riguadagnasse i suoi spazi. Era un buon silenzio. Solo, a volte, troppo.
Respirando piano, Gehn si ritirò dietro la sua ciotola e restò immobile. Anna sentiva ancora i suoi occhi addosso.

Stava rassettando quando ebbe la sua risposta.
“Tre cose”, disse d'improvviso Gehn, solenne, mettendosi dritto sulla sedia dall'alto dei suoi undici anni. I suoi lineamenti sottili, da vero figlio di D'ni, si fissarono in una maschera di serietà assoluta. “Legno. Accesso al ripostiglio. E non entrerai nella mia stanza.” E scappò via, con la fronte ancora aggrottata, silenzioso come un senomar, lasciando sul tavolo la ciotola vuota, briciole e qualche ditata.
Anche Anna aggrottò la fronte. “Va bene, amore mio. Tutto quello che vuoi”, sussurrò al tavolo. Prese uno straccio per ripulirlo.


*



Sessantun colpi di spazzola come le partite a Gemedet che aveva perso prima di riuscire a capire il gioco di Aitrus.
Sessantadue colpi di spazzola come le favoleggiate amanti di Re Ti'amel.
Sessantatre colpi di spazzola come l'anno in cui fu completato il Regeltovokum.
Anna non era devota ai suoi capelli: “Finché mi restano in testa, facciano un po' quel che vogliono”, era solita ripetere. Ma di tanto in tanto, quando il lavoro lo permetteva, trovava piacevole sedersi sul letto e districare quei pochi fili bianchi al ritmo delle storie della sua vita. Era pur sempre Ti'ana, la narratrice, e quella cantilena l'aiutava a non dimenticare, in quegli anni in cui non aveva nessuno che volesse prestarle orecchio. Teneva sempre la porta-tenda aperta, nella speranza che il vento le consegnasse nuovi racconti.
Si interuppe a novantacinque, come l'età di Re Veesha quando salì al trono: Gehn le era passato davanti con passo da soldato, portando come nuovo bottino di guerra una catinella vuota. Gli faceva da marcia il cozzare delle pesanti chiavi del ripostiglio, che ora portava sempre e fieramente appese alla cintura. La spianata di roccia che collegava le loro camere si era trasformata in una via affollata: avanti e indietro, avanti e indietro, a volte ben oltre l'ora in cui i bravi bambini dovrebbero essere a letto. In quelle occasioni i passi erano cauti e leggeri, ma c'era sempre qualche falla nel suo silenzio, che fosse il metallo delle chiavi a tradirlo, un ciottolo o un singolo starnuto sfuggito al suo controllo nel freddo delle notti della Fenditura. Il sonno inquieto di Anna cedeva e lei tendeva l'orecchio, ma rispettava le righe piccole implicite nel terzo comma del suo regalo e non era mai uscita per rimproverarlo. Non ci riprovasse dopo aver finito, però.

Cosa vedi, Anna?, si chiese, com'era sua abitudine, quando Gehn si fu allontanato. Vedo mio figlio che cresce e si apre al mondo, che scopre il piacere dell'impegno e delle sue mani. Vedo che ha il naso e il mento di suo padre e non ancora il cuore. Ma Aitrus ebbe cent'anni e più per diventare l'uomo che era, il mio Gehn così poco, e attorniato da colpe non sue. Vedo speranza dopo la distruzione.
Avrebbe voluto tornare a porre a Gehn quella domanda, come suo padre l'aveva sempre posta a lei, ma la paura la bloccava ancora. Un anno prima, in una sera primaverile, sedevano insieme sugli scalini dell'ingresso. Alle loro spalle, qualche metro più in alto, si stendeva il deserto, mentre sotto di loro c'era la Fenditura: casa, coi suoi ponticelli sospesi, le stanze scavate nella roccia rossa e un fondo umido di vita. La costellazione del Leone riempiva la loro fetta frastagliata di cielo.
“Cosa vedi, Gehn?”, aveva chiesto Anna, stringendo il suo bambino in un abbraccio.
“Il cielo è nero. Ci sono tante luci: lampioni azzurri e arancioni e verdi e orologi grandi come palloni. E c'è un lago bellissimo che fa tanta luce.”
“Non è quello che vedi davvero, piccolo mio.”
“Sì che lo è.”


*



Non le parlava più di prima. Forse ancor meno, se fosse stato possibile – e non aveva mai avuto altra scelta che restarsene in silenzio, quel suo fantasma di bambino di cui era riuscita a salvare solo il corpo dalle rovine di D'ni, ma non le speranze. Non le parlava più di prima ma viveva, lasciava tracce, acquisiva sostanza. In quei giorni, per la prima volta, la Fenditura si vedeva vissuta da due persone. E Anna seguiva quelle tracce, che vedeva come getti di colore sulla tela di casa.

Proprio un pezzo di tela fine era stato il primo a sparire, assieme a poche spanne di canna. Quando Gehn le aveva chiesto dei chiodi e il martello pesante, lei gli aveva dato solo dei chiodi piccoli, quelli che avanzavano, e lui non si era lamentato. Non c'era dubbio che ne facesse buon uso, ogni mattina, di gran lena. Ma per unire cosa a cosa, e con che scopo, le era dato di scoprire solo per assenze, oggetti spostati, macchie.
Una mattina, la prima luce della finestrella di pietra rotonda in cucina inondò le pareti di un chiarore insolito: gli stracci appesi si erano ridotti a due.
Trovò uno scarabeo schiacciato a terra, vicino alle verdure. E un altro.
Poi la libreria iniziò a sorridere come un bambino sdentato: dallo scaffale in basso era scomparso il suo massiccio supplemento al ricettario, su cui da sei anni annotava i risultati di ogni esperimento in padella. Le ricette vere e proprie invece erano rimaste ritte al loro posto, appena a destra. E fu una fortuna per Gehn, che altrimenti quel giorno avrebbe mangiato zucchine crude. Appena sopra, un grosso buco era tutto quel che rimaneva della vistosa rilegatura gialla con cui aveva riunito i suoi diari del 1734 e successivi.


*



Il rosso del cielo tradiva un sole già sorto lontano, invisibile, sopra l'orizzonte piatto. Di sotto vigeva ancora la notte: le forme degli oggetti si distinguevano appena, colpite dalla prima luce, mentre Anna, avvolta nel suo scialle bianco, scivolava fra i ponti facendosi strada con una lanterna, come l'ultima stella caduta laggiù. Scese a terra costeggiando la parete e, con quattro scalini e un salto, si lasciò cadere ancora più in basso, nelle profondità umide del ripostiglio.
Un'anfora scoperchiata catturò la sua attenzione. Anna inarcò un sopracciglio: quella grotta naturale era tutto fuorché sicura per i loro viveri, fra infiltrazioni e polvere, ma non tutto poteva venir conservato nella piccola dispensa secca e calda del primo livello e le alternative erano peggiori. Sopravvivere richiedeva attenzione, l'attenzione di cerare i sacchi di tela, di barattare solo quel tanto di carne che si era sicuri non andasse a male; soprattutto, di non lasciare che l'acqua preziosissima potesse venir contaminata. Si avvicinò per accertarsene. Era vuota.
Quella a fianco lo era solo per metà, ma un'alga bianchiccia si allungava, tentacolare, sul suo fondo. Il suo respiro si fece pesante. Si appoggiò all'anfora, poi alla parete, lasciandovisi scivolare fino a ritrovarsi per terra, con gli occhi fissi nel buio e il battito impazzito del sangue nelle orecchie.
Sarebbero sopravvissuti solo perché quello era giorno di carovana. Niente ninnoli, niente pranzo speciale. Quello che aveva le sarebbe bastato appena per ricomprare parte dell'acqua che era andata perduta.

Si forzò a finire l'inventario per cui era scesa. Non poteva tardare; anche a Gehn avrebbe parlato dopo. Nel chiudersi la porta alle spalle, con un sospiro e il cuore pesante, fece scattare anche la serratura piccola, di cui esisteva un'unica chiave, e si incamminò.


*



Gehn si svegliò sotto il sole cocente, stordito dall'ora tarda e dalle veglie notturne. La Fenditura era insolitamente silenziosa. Niente Ti'ana che scolpiva, Ti'ana che cucinava, Ti'ana che leggeva ad alta voce scandendo al muro le parole di quella lingua che non le apparteneva. Due falchi si chiamavano in lontananza mentre il resto della fauna, a parer suo con grande assennatezza, soccombeva alla cappa immobile di caldo. Era innaturale, secco e offensivo ai suoi occhi. Cercò a tastoni le lenti protettive.
Del suo sogno ricordava catene di lampioni blu, verdi e arancioni specchiarsi rifratte nell'acqua, suo padre che lo guidava in quella festa di luci stringendogli la manina e gli raccomandava di non toccare. Gehn se ne guardava bene: era tutto perfetto così, una felicità esplosiva e colorata sotto la cupola di vapori che li proteggeva. Poi festoni appesi di cui non leggeva le scritte, un sentiero di sassi rotondi in mezzo all'acqua sormontato da un cappello di grossi funghi – non era troppo sicuro di quest'ultima parte e stava già sfumando tutto, al punto che non era già più certo che fosse un sogno o lo strascico di un ricordo di quand'era piccolo piccolo. Forse su un punto Ti'ana aveva ragione: avrebbe fatto bene a tenere un diario vicino al guanciale per le annotazioni al risveglio.
Ma Gehn, al contrario della saggia fauna a riposo, non aveva tempo da perdere e comunque lo attendevano tutte le notti che voleva in cui sognare che suo padre fosse fiero di lui. Scacciò in fretta il sonno residuo, si buttò giù dal letto senza grazia e diede dei vigorosi giri di manovella alla pompa che aveva costruito sul suo tavolo da lavoro, osservando con soddisfazione l'acqua della tinozza risalire il tubo e filtrare lentamente dal telaio, portando con sé un po' delle impurità che ancora soffocavano il suo capolavoro. Aveva raggiunto l'ultima fase. Quel drenaggio doveva essere frequente e costante, con un'umidità minima finché tutte le fibre non si fossero allineate, e Gehn non aveva esitato a dedicargli ore del suo sonno, spesso spalancando gli occhi nel cuore della notte in preda all'ansia e attivando la pompa avvolto in un fagotto di coperte, tremante per il freddo.
Cacciò un dito nella tinozza. Acqua torbida. Doveva cambiarla ancora.

La chiave aveva scattato, ma la porta restava chiusa. Con pugni, calci o giri a vuoto di quell'inutile pezzo di metallo, la porta restava chiusa. Gehn non si accorse nemmeno di avere la faccia fradicia di lacrime.


*



Anna tornò sotto il sole cocente, stanca sotto il peso delle contrattazioni e delle merci che ogni volta gravavano di più sulla sua schiena. La Fenditura era quieta, per la media di quei giorni. Niente Gehn che martellava in segreto, Gehn che ripeteva ad alta voce frasi formali in quel suo D'ni infantile e stentato, Gehn che usciva dal ripostiglio con le mani cariche di attrezzi che giacevano inutilizzati da anni e chissà come avevano fatto a finire lì in prima battuta. Accatastò in terra il suo carico e si affrettò a scendere per cercarlo.
Vide dapprima le orme pesanti, scomposte, che giravano in cerchio davanti alla porta chiusa. Si morse un labbro. La chiave grande che gli aveva affidato giaceva abbandonata nel fango. La raccolse e strinse il pugno al petto, la ripulì con un orlo della veste e la custodì in tasca: gliel'avrebbe riconsegnata di persona assieme a delle spiegazioni e un bacio in fronte, se lui gliel'avesse permesso. Sapeva già che non sarebbe successo.
“ Gehn!”, chiamò, quando non lo vide in cucina né al lavoro nella sala attigua. “Gehn!”
Non che sperasse in una risposta, non alla sua vecchia madre. Voleva convincersi che fosse solo uno scherzo, una ripicca come ne aveva vissute tante. Era ancora all'inizio di una lunga, lunga lista di peccati da scontare, che poi erano sempre lo stesso: essere discesa; avergli fatto da madre al posto di qualunque altra donna; risalendo, aver cercato la vita invece di rimanere riversa sul cadavere del suo amore. Voleva convincersene, ma il suo bambino poteva essere in pericolo. “Gehn!” Era sua madre, non una qualunque altra donna, e non si sarebbe data pace finché non l'avesse trovato.
Serrandosi lo scialle al petto, Anna percorse per intero tutti i livelli della Fenditura con la velocità che le sue gambe stanche permettevano prima di trovarsi, ansimante e sconfitta, appoggiata allo stipite della sua stanza. Il suo sguardo vuoto si era fissato, senza che se ne accorgesse, sui fruscii ipnotici che l'aria imprimeva alla porta-tenda di Gehn, pochi passi più avanti.
Se ne accorse.

“ Gehn. Se sei lì dentro, esci al mio tre o entrerò io. Tutto ha un limite.”
Uno. Due. Tre. Nessuna risposta – non che ci sperasse. Anna scostò la tenda. Quello che l'attendeva era la stanza di suo figlio, ed era vuota. Gli orrori imbastiti dalle sue paure svanirono di fronte alla normalità di lenzuola meticolosamente rifatte e vestiti impilati in fondo al letto. Al loro posto prendeva forma, al centro del piano di lavoro, il regalo che Gehn si stava preparando da settimane.
C'erano boccette e macchie e reagenti rubati al suo cassetto e un pestello sporco, ma soprattutto c'era un barattolo riempito per metà di un fluido nero malsano in cui s'intravedevano zampette e chele.
C'erano schemi idraulici gualciti e appallottolati e un pennino che era stato di Aitrus e di cui Anna notava solo in quel momento la scomparsa, ma soprattutto c'era un foglietto grande una spanna su cui era ripetuta fino all'ossessione, in grande, in piccolo e in ogni spazio vuoto, la parola D'ni per “Altrove”. La grafia migliore era evidenziata da un cerchio.
C'erano trucioli e chiodi sparsi e una bacinella piena della stessa alga che aveva visto nel ripostiglio, che a guardarla bene, a onor del vero, sembrava più un deposito che una creatura vivente, ma soprattutto c'era un telaio su cui giacevano due fogli striminziti, imperfetti, rugosi, asciugati anzitempo. Due fogli fatti dalle mani di un bambino che sarebbero andati bene sì e no per appuntarsi i risultati parziali di un esperimento, ma che nella sua incrollabile certezza infantile rispondevano a regole vecchie millenni e avrebbero aperto alla sua penna le infinite possibilità del Grande Albero.

Aveva il Libro, l'Inchiostro, il testo. L'unico desiderio di Gehn per il suo compleanno era fuggire da solo in un altro mondo. Un'Era qualunque, un “altrove” che poteva anche essere il cuore dell'esplosione di una stella purché non fosse “qui” con sua madre, Ti'ana la Distruttrice, a sopravvivere da un giorno all'altro mangiando polvere e sognando la pioggia.
È colpa mia, si disse Anna richiudendo la tenda come fosse una camera ardente.


*



È colpa mia, si ripeté quando, tornata in superficie a prendere gli otri d'acqua, intravide una linea scura di orme dirigersi dall'altro capo della Fenditura verso il vulcano spento che la sovrastava.

È colpa mia, si ripeté poggiando i piedi al fianco di ogni passo del suo bambino, seguendo la sua rabbia e cercando di cogliere da quelle tracce un indizio qualsiasi per poterla calmare.
Non ci riuscì, ma la linea che stava seguendo, sempre più accennata quanto più dura e spoglia si faceva la terra, si riuniva a un sentiero roccioso che conoscevano entrambi.
Le era rimasto in tasca l'uccellino di legno colorato che gli aveva preparato come sorpresa, uno di quei piccoli corridori che le piacevano tanto. L'aveva fatto per tenergli compagnia mentre lavorava. Se lo rigirò fra le mani studiandone ogni intaglio; non trovò la forza di abbandonarlo per terra.

“ È colpa tua”, le urlò Gehn fra i singhiozzi quando lo trovò rannicchiato dietro a una sporgenza, stanco, affamato e rosso dal pianto e dalla rabbia.
Era sempre stata colpa sua.




Tre anni dopo, né un mese più, né un mese meno, una fila scura di orme si perdeva nel deserto.















E, con quest'allegria prorompente, al momento chiudiamo qui. Era il mio tentativo di costruire una storia con una trama lineare e uno stile comprensibile. Se non ha funzionato ne sono drammaticamente incapace, almeno per ora. Note:

@ 'retcon' geografico, posizione della sottoscritta in merito a: la mia vita e la mia fedeltà alla vera Cleft. Quindi New Mexico all the way, anche se la fanfic si basa sui libri. Anche graficamente e spazialmente ho tenuto conto di quel che ho visto e non di quel che ho letto, quando c'era da dover scegliere.
@ senomar: senomar. Gli amici di Yeesha (cfr diario di EoA) sono i miei amici e li cito volentieri XD
@ colpi di spazzola: l'espediente è inventato, i dettagli degli sfidoni a Gemedet fra i due piccioncini anche (che giocassero spesso invece è documentato), le amanti canoniche di Re Ti'amel sono “tante”, gli altri due son dati ufficiali e rimando a MYSTlore per i dettagli.
@ costellazione del Leone: se ho sbagliato anche stavolta a leggere la mappa online faccio seppuku XD Ad aprile 1747, nove di sera, Albuquerque e dintorni, a stare col naso per aria si vedeva il Leone... ...spero.
@ scarabeo: lui, nel caso interessasse a qualcuno.
@ dispensa e ripostiglio: Cleft mapping FAIL da parte mia salvato in corner, credo. In realtà il fatto che quella scena si svolga nella grotticina in cui oggi si trova il libro di Relto non ha la minima importanza per la storia, ma mi piaceva così e l'ho tenuto.
@ sogno: il wallpaper di novembre proposto da Almak sul suo blog è così bello che a forza di vedermelo sotto il naso l'ho voluto mettere nella fanfic. Grazie, Almak, vai forte così! B| (chissà che ci facevano Aitrus e il piccolo Gehn in un quartiere popolare...)
   
 
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