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Autore: Amalia89    27/11/2009    4 recensioni
La storia della vita di Emmett, prima che diventasse un vampiro... Secondo il mio punto di vista...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Emmett Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia vita… Prima…

Bene, nulla di nuovo, ho solo corretto e ripostato anche questa J.

Eccomi ragazze! Allora, come va? J. Vi posterò, qui di seguito la mia Short. Con questa storia, ho partecipato ad un contest letterario, nel quale sono arrivata terza! Spero che vi piaccia J. Bene, ora vi saluto… Con la speranza di risentirci presto J. Un bacione. E buona lettura.

Amalia.

 

 

 

 

 

Autore: Amalia89

Personaggio scelto: Emmett

Titolo: La mia vita… Prima…

 

 

 

La mia vita… Prima…

 

 

 

 

1915, anno di guerre, morti e distruzione. Periodo in cui io, Emmett McCarty, ero nato.

La prima guerra mondiale mi aveva portato via un fratello, Luis, di cui non ricordavo molto, avevo solo due anni, quando ci lasciò.

Sapevo che era stato un periodo molto lungo, per tutta la mia famiglia. Mio padre, era arruolato nello squadrone dei minatori, costruivano barriere che servivano a difendere i nostri militari.

Ricordavo bene la reazione di mamma Elisabeth, ogni qualvolta che qualcuno bussava alla porta della nostra piccola, ma modesta casa. Sussultava, il terrore nei suoi occhi era chiaro, la paura di scoprire d’aver perso anche mio padre, oltre che mio fratello, era tanta.

La vita non era facile, ci potevamo permettere ben poco, ed ogni pezzo di pane, diventava prezioso. La mancanza di mio padre si faceva sentire, si poteva toccare nell’aria. Mia madre era sempre triste, e le giornate trascorrevano lente, monotone.

Ma non ci furono solo momenti cupi. Ricordo, quando nel 1918, mio padre Harry ritornò dalla guerra. Nonostante avessi avuto solo tre anni, non avrei mai potuto dimenticare quei momenti.

Il sorriso sul volto stanco di papà, le lacrime di gioia e dolore, che scendevano dagli occhi di mia madre.

“Elisabeth…”, aveva sussurrato mio padre, sulla soglia di casa.

“Harry…”, era stata la risposta di mia madre, prima di lanciarsi in un lungo e tenero abbraccio.

Io me ne stavo in un angolo, a fissarli.

“Emmett!”. Aveva gridato mio padre vedendomi.

Ero un bambino molto timido, per questo non riuscii a rispondere subito al suo richiamo.

Fu lui a venirmi incontro, prendendomi in braccio e cominciando a girare in tondo.

“Com’è cresciuto il mio piccolo ometto!”, urlava felice.

Quelli erano ricordi molto nitidi. Momenti di pura felicità, o forse, così mi sembravano. Un sorriso dopo tanta guerra e distruzione equivaleva ad un immenso fascio di luce, all’interno di un lungo tunnel buio senz’uscita.

Il ritorno di papà significò tanto per tutti noi. La mamma sorrideva di nuovo, anche se un’ombra di dolore, continuava a nascondersi nei suoi occhi a causa della morte di mio fratello. Io ero tornato il bambino di sempre, giocavo con i miei genitori, sorridevo ed avevo imparato a riconoscere il mio papà. Tre anni di lontananza non avevano certo contribuito al nostro rapporto.

Gli anni successivi, erano passati lenti, senza fretta. Un solo evento aveva scosso, ancora una volta, la nostra famiglia. Si trattava di qualcosa di bello, puro. La nascita della mia sorellina, Caroline.

Era molto bella, candida, con i capelli e gli occhi scuri, ci assomigliavamo molto o almeno, così era una volta cresciuta.

Avevo otto anni quando, anche lei, aveva fatto il suo ingresso nel mondo.

“Emmett… Ti presento Caroline, la tua sorellina”. Aveva detto mio padre, porgendomela per farmela vedere. Ricordo che appena nata, era strana, tutta rossa, un po’ schiacciata e… decisamente troppo pelosa.

“Mmm, ma… La cicogna ti ha portato la figlia di una scimmia? Forse si è sbagliata?”. Chiesi, esponendo le mie perplessità.

Ero solo un bambino e i miei pensieri erano molto puri e semplici.

Tutti si misero a ridere della mia osservazione, ma io non ci vedevo nulla di comico, era piuttosto bruttina…

Crescendo, il nostro rapporto divenne più forte. Eravamo molto legati, indivisibili. Ci volevamo bene, anche se lei, ogni tanto, tendeva a diventare un tantino scontrosa e dispettosa.

Si divertiva ad incolparmi di cose che non facevo, mi picchiava, sapendo che non potevo reagire.

Era anche furba, aspettava sempre il momento giusto.

Quando io mi dirigevo verso la cesta dei giochi, piegandomici dentro, lei mi assaliva alle spalle, circondandomi con un braccio il collo per immobilizzarmi, subito dopo, provava a mordere ogni parte che riusciva a raggiungere del mio corpo.

Io ovviamente, urlavo per il dolore, ed era in quel momento che lei scoppiava a piangere, senza motivo. Affermando poi, che fossi stato io a farle male.

Sorrisi a quel ricordo.

“A che cosa pensi Emmett?”. Chiese il mio capo, facendomi tornare alla realtà.

“Oh, ha nulla capo… Vecchi ricordi”. Risposi, continuando ad intagliare il tavolino di legno al quale stavo lavorando.

Ero un uomo fatto e finito. Avevo vent’anni e lavoravo come falegname presso un negozio del Nashville, città in cui avevo sempre vissuto.

Ma non erano sempre stati questi i piani della mia vita. Fino a due mesi prima studiavo nell’accademia della marina militare. Era sempre stato il mio sogno diventare un marines.

Questo, prima dell’undici agosto. Mio padre aveva continuato a fare il minatore. Il lavoro lo portava sempre lontano da casa. Ma non sembrava pesargli.

Sapevo che lo faceva per noi, per permettere a me e a mia sorella di continuare a studiare.

Ma quella maledetta notte d’agosto, la diga costruita attorno alla miniera alla quale lavorava mio padre aveva ceduto. L’acqua aveva spezzato ogni resistenza, assieme alla vita di mio padre ed a quella dei suoi colleghi.

Ricevere la notizia della sua morte, era stato scioccante. Il mondo c’era caduto addosso.

Mia madre, che prima si occupava dell’orto di casa e di tanto in tanto, guardava i figli dei vicini, si era improvvisamente spenta, lasciandosi andare al suo dolore.

Mia sorella, che aveva solo dodici anni, si era chiusa in se stessa, senza più parlare con nessuno.

Ed io, io avevo dovuto rimboccarmi le maniche. Ero l’unico uomo rimasto all’interno della famiglia e come tale, il mio compito era di mandarla avanti, di mettere cibo sulla nostra tavola, di permettere a mia sorella Caroline di continuare i suoi studi.

Per questo, avevo lasciato l’accademia, ed avevo iniziato a lavorare nella falegnameria del signor Burnus.

Erano stati bei tempi quelli della scuola. Lì avevo conosciuto il mio migliore amico, colui che era diventato come un fratello per me.

Ne combinavamo di tutti i colori e spesso, ci ritrovavamo in punizione assieme. La peggiore e più dura che ricordavo, ce l’avevano data quando, da bravi burloni, avevamo sostituito la solita cantilena di risveglio che risuonava ogni mattina nell’accademia, con i versi degli animali. Uno per ogni caporale.

Per quella bravata, c’era toccato pulire per una settimana tutta la scuola, senza contare le due ore di corsa consecutive fatte sotto la pioggia e in mezzo al fango. Ma anche lì, Michael ed io eravamo riusciti a divertirci.

“Ehi amico… Non vedo l’ora di vederti stramazzare al suolo in mezzo al fango, proprio come i maiali!”, continuava ad urlare, rimanendo voltato verso di me.

Non mi ero nemmeno sprecato di rispondergli, perché mentre continuava a sbeffeggiarmi, andò a sbattere contro una rete posta a mezz’aria, rimbalzandoci sopra e finendo a terra, con la faccia nel fango. Inevitabilmente, scoppiai a ridere.

“Così impari a guardare dove metti i tuoi zoccoli da maiale!”, urlai canzonandolo e superandolo.

Ma purtroppo, la vita aveva deciso di non essere clemente con me. Un mese dopo la morte di mio padre, anche Michael mi fu portato via.

La causa fu una brutta malattia, non molto conosciuta, il bacillo di koch¹. Vederlo spegnersi, giorno dopo giorno, era stato un dolore insostenibile.

Ma anche in punto di morte, lui era riuscito a rimanere sereno e spensierato. Mi aveva strappato una promessa che sicuramente, avrei mantenuto.

Avevamo la passione per la caccia, tramandataci dai nostri padri. Era da parecchio che inseguivamo un grizzly, volevamo prendere la sua pelliccia, dividercela per poi regalarla alle nostre madri.

Sarebbe stata utile, soprattutto nei lunghi e freddi inverni che ci aspettavano. Senza contare gli innumerevoli disagi che aveva causato quell’animale ai residenti delle montagne del Tennessee.

“Amico… Promettimi che continuerai la caccia… Promettimi che abbatterai quel grizzly…”, mi aveva chiesto sorridendo, poco prima di morire.

“Certo Michael! Lo sai che nessun animale e mai sfuggito alla mia mira infallibile!”, avevo risposto, cercando di mascherare il mio dolore. Poco dopo, mi lasciò.

Strinsi il pugno attorno al coltellino che stringevo nella mano destra. Erano ricordi dolorosi, che mi provocavano una gran rabbia.

“Ehi ragazzo! Sei pensieroso oggi… Sono già nove ore che lavori, se vuoi andar via, vai tranquillamente”. Urlò il mio capo, facendomi sobbalzare.

Guardai l’ora, erano già le cinque del pomeriggio.

“Ok capo, se non è un problema, io andrei. Ho una commissione da fare”, dissi alzandomi dalla mia sedia e poggiando il tavolino.

“Vai, vai”. Rispose mentre uscivo dal negozio.

Quel pomeriggio, sarei andato tra le montagne del Tennessee e avrei cacciato l’orso. Dovevo sbrigarmi però, muovermi prima che facesse buio.

Salutai, e mi fiondai sulla mia Ford model A del 1928. Non era di certo una macchina nuova, ma era di mio padre, se l’era sudata lavorando e mai l’avrei data via.

Avevo preparato tutto la mattina, prima di uscire da casa. Assicurandomi d’avere dietro l’indispensabile, il fucile e la cartina. Anche l’arma era di mio padre, l’avevo sempre usata per cacciare, era infallibile.

Il viaggio fu breve, distavo una quarantina di chilometri dalle montagne. Il problema, era che non sapevo bene dove cercare il grizzly, con Michael avevamo setacciato gran parte della zona, senza mai trovare nulla.

Era rimasto solo un posto in cui potevo andare a guardare, ed era a nord verso le colline più oscure.

Imbracciai il fucile e cominciai a percorrere il sentiero. Il vento si era alzato e in mezzo alle montagne, la temperatura era decisamente inferiore. Ma non dovevo pensarci.

Così, strinsi i denti e proseguii per la mia strada. Era strano avere tutto quel silenzio attorno, di solito con Michael, cantavamo e chiacchieravamo, era anche un modo per allentare la tensione.

Dopo mezz’ora di ricerche, del grizzly non c’era ancora nessuna traccia. Cominciava a farsi buio, e stavo per rinunciarci, quando un rumore alle mie spalle mi fece voltare di scatto.

Nonostante non ci fosse più molta luce, non feci fatica a mettere a fuoco l’enorme animale. Il grizzly cui davo la caccia da mesi.

All’inizio mi feci prendere dal panico, l’orso si era messo su due zampe, sovrastandomi con la sua mole. I denti scoperti in un ringhio profondo e cupo, le zanne anteriori pronte a colpirmi.

Afferrai più saldamente il fucile, lo puntai verso l’orso, all’altezza del suo cuore.

“Nulla di personale amico…”. Dissi, prima di premere il grilletto.

Aspettai il rinculo, seguito dal rumore assordante dello sparo, ma non arrivò.

“Oh merda!”, urlai cominciando a correre. Il fucile si era inceppato.

Cercai di aprirlo, mentre scappavo da morte certa, per sbloccare il proiettile, ma non c’era verso, era proprio bloccato. Ma proprio ora doveva incepparsi?

Non feci in tempo a completare il pensiero, che l’orso mi raggiunse. Mi colpì alla schiena con una zampa, facendomi cadere a terra.

L’arma mi sfuggì di mano, cadendo a diversi metri di distanza da me.

Con le poche forze che mi erano rimaste, mi voltai. Se era giunta la mia ora, non mi avrebbe colto alle spalle, avrei guardato in faccia la morte.

Il mio pensiero andò a mia madre e a mia sorella. Come avrebbero fatto senza di me? Chi avrebbe mantenuto gli studi di Caroline? Sarebbe stata obbligata anche lei a lasciarli e ad andare a lavorare, ma aveva solo dodici anni, non poteva finire così. No, non potevo morire! Con uno sforzo sovrumano, sollevai la testa e provai ad arretrare, facendo leva sui gomiti.

Ma la zampa del grizzly, mi schiacciò le gambe rompendomele, subito dopo, mi trafisse il petto con i suoi artigli. Fu un dolore atroce, immenso, che mi strappò un urlo inumano.

Non avevo più nulla per cui lottare. Stavo per morire, era questione di secondi. La vista mi si appannò e chiusi gli occhi aspettando il colpo di grazia. Che non arrivò…

Sentii un altro ringhio, unirsi a quello dell’orso, per un attimo tremai. Era forse un altro grizzly? Mi avrebbero fatto sicuramente a pezzi.

Sentii dei forti colpi, alberi che cadevano, un ultimo ringhio soffocato da un flebile lamento e poi… più nulla. Non capivo, che cosa stava accadendo?

“Avanti, apri gli occhi… Ora ci sono io… Guardami”. Sentii una voce melodiosa supplicarmi. La sentivo lontana, come se fosse a diversi metri di distanza da me.

Qualcuno mi sollevò da terra e un attimo dopo, il vento cominciò a sferzarmi il viso.

Con non poca fatica, aprii gli occhi. E quel che vidi, mi lasciò senza fiato.

Stavo osservando la creatura più bella di tutto l’universo. Era bionda, pallida e perfetta.

Si accorse del mio sguardo e poggiò i suoi meravigliosi occhi color del miele su di me, mi sorrise. Ora, ne avevo la conferma, ero morto.

Se così non era, che ci facevo tra le braccia di quel meraviglioso angelo?

“Come ti chiami?”, mi chiese dolcemente, facendo risuonare la sua voce in ogni fibra del mio essere.

“Em… Emmett… ett…”. Riuscii solo a dire. Il dolore era davvero insopportabile.

“Io sono Rosalie. Resisti Emmett, siamo quasi arrivati”. Furono le ultime parole che riuscii ad udire.

Lasciai che il calore dell’incoscienza m’avvolgesse, sentii una lacrima rigarmi il volto.

Quell’unica goccia d’acqua solitaria, unica versata, in memoria di tutti i miei dolori… l’ultima della mia breve ma intensa vita.

 

 

 

¹ Nel 1935 si chiamava così, ai nostri tempi: Tubercolosi.

 

 

 

The End.

 

 

 

 

 

  
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