Libri > Twilight
Ricorda la storia  |      
Autore: Elizabeth_Keats    27/11/2009    11 recensioni
"«Non è in casa» rispose alla fine con una sfumatura di minaccia che mi lasciò un attimo perplesso. Calma. «E… potrei sapere dove si trova? Avrei bisogno di parlargli urgentemente». Questa volta la replica giunse quasi immediata, accompagnata da un tono parecchio scocciato e sdegnato. «È al funerale». Dopo di che riappese." Quando una telefonata può cambiare tutto... Missing moment di New Moon dal punto di vista di Edward.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

The Call

Quella sera il buio era calato prima del solito. La calura ardente di quel pomeriggio sembrava ormai lontana secoli, anche se le luci della città rimandavano la mente alla luce dorata dello zenit. Il respiro era reso pesante dall’alto tasso di umidità, ma una leggera brezza, rara per quel periodo e quei luoghi, rinfrescava l’ambiente. Quel debole soffio di vento proveniva dalla finestra spalancata ed entrando, oltre a gonfiare le tende bianche facendole assomigliare a gigantesche nuvole, portava con sé il vociare caotico della strada. Anche se il sole era ormai calato da qualche ora, la gente non sembrava preoccuparsene e, anzi, quasi come se il sopraggiungere delle tenebre avesse annunciato lo scoccare di un’ora magica, si riversava ancora di più nelle strade già affollate. Voci maschili e femminili dal marcato accento portoghese si avvicendavano in un alterco quasi cacofonico, accompagnate dall’abbaiare di un cane o dal pianto di un bambino. Da un locale non molto lontano proveniva una musica vivace anche se un po’ stonata; un paio di violini e qualche altro strumento scordato si univano ai versi in rima di qualcuno che aveva alzato un po’ troppo il gomito.

Pareva proprio che fossi l’unico deciso a rimanere chiuso in casa, invece che unirmi a quella specie di festa itinerante. Casa, pensai sbuffando e un mezzo sorriso amaro trasudò sul mio volto. Sempre che quella potesse essere definita tale. Era da circa sei mesi che non avevo più una casa e in quell’arco di tempo avevo fatto di tutto pur di non pensare a quella che avevo un tempo. Sentivo di rado la mia famiglia: giusto un paio di telefonate di rito ogni mese e mezzo tanto per dire che ero ancora vivo. Come se potessi morire… Già, morire: quel verbo era affiorato parecchie volte tra i miei pensieri ultimamente. Per gli umani era più facile: un po’ di veleno, una stilettata al cuore, quella stessa finestra aperta che avevo davanti… Ma per me non era così. Anche se questo non voleva dire che non ci fosse un modo; e quel modo si trovava molto distante da dov’ero, ma con un aereo e qualche ora di viaggio ero sicuro di poterlo raggiungere facilmente. Ora però non era tra le mie preoccupazioni principali. Il principale pensiero che mi attanagliava la mente ormai da mesi era sempre lo stesso: sempre la stessa immagine, sempre la stessa voce sottile e quasi rotta, sempre lo stesso scenario tra il verde brillante della foresta. Ogni singolo particolare mi trovavo ad avere attorno lo faceva venire a galla anche quando stavo pensando a tutt’altro. E ogni volta era un possente pugno tra le costole, così brutale da lasciarmi ansimante per molti minuti. Non avrei dovuto lasciare Bella in maniera così brutale: questo me lo ripetevo ogni giorno decine di volte. Anzi, forse non l’avrei dovuta lasciare proprio: dopotutto se io avevo un bisogno disperato di lei, come poteva lei non avere bisogno di me? Noi ci appartenevamo. Una volta. Alla fine avevo deciso diversamente. Credendo di fare il suo bene e, probabilmente anche il mio… ma era davvero così?

Scossi la testa e feci un profondo respiro, ritornando a fissare la stanza in cui mi trovavo per rintracciare un allaccio con la realtà. La realtà era il mio sostentamento senza il quale sarei morto; solo le cose concrete mi permettevano di non cadere in quella spirale di angoscia e dolore da cui non sarei più riuscito a riemergere. Mi lasciai cadere su una vecchia sedia, che accolse il mio peso con un debole scricchiolio, e mi concentrai sulla parete che avevo di fronte. Calma. Respira. L’intonaco bianco aveva una sfumatura bluastra alla luce della luna e alcune crepe lo percorrevano come una complessa ragnatela. In un angolo stava un piccolo lavandino, anch’esso crepato e ingrigito dal tempo, su cui sovrastava un quadro raffigurante un santo. Non sapevo chi fosse di preciso, ma ogni volta che mi soffermavo ad osservare la corona di spine posta sul capo, le mani giunte in preghiera che stringevano un rosario e gli occhi pieni di pace levati verso l’alto, verso una luce divina che si stagliava protettrice su di lui… ogni volta il mio stomaco faceva una capriola. Mi sembrava quasi un insulto che io e quell’immagine condividessimo la stessa stanza: lui, probabilmente, aveva aiutato molte persone, aveva diffuso il messaggio di Dio e fatto propaganda ad ideali di pace ed amore. Io, invece? Avevo fatto soffrire qualcuno e avevo distrutto l’amore. Avevo mentito, tradito ed ero scappato come un vigliacco. Avevo… Il respiro mi si accorciò ancora fino a diventare un rantolo. Respira. Devi rimanere calmo. Ma tanto sapevo benissimo che attacchi di panico del genere erano all’ordine del giorno.

Allungai le gambe, mi passai una mano sulla fronte e tra i capelli e gettai un’occhiata fuori dalla finestra. Le luci della città erano così abbaglianti che era quasi impossibile scorgere le stelle. In lontananza, invece, si stagliava sull’orizzonte la gigantesca statua del Cristo Redentore di Rio, anch’esso così illuminato da assomigliare a un piccolo sole. Con le sue braccia spalancate pareva volesse abbracciare l’intera città: solo in quell’istante mi resi conto di quanto fossi lontano da casa.

Ma subito la mia attenzione fu attirata da un ronzio cupo proveniente dalle mie spalle. Per la sorpresa mi alzai così di scatto dalla sedia che per poco non la rovesciai. Il mio respiro, che era diventato tutto d’un tratto accelerato, si calmò un po’ quando vidi sul tavolo al centro della stanza lo schermo illuminato del mio cellulare. Lo presi con cautela, il tremito delle mani che andava all’unisono con la vibrazione del telefono, e lessi il nome sullo schermo. Rosalie. Con un tonfo sordo rigettai il cellulare, che non la smetteva di vibrare, sul piano e gli voltai le spalle. Inutile dire che non avevo alcuna intenzione di rispondere. Come non avevo risposto a tutte le altre innumerevoli chiamate che mi erano arrivate da quando avevo deciso di stare per conto mio. All’inizio doveva essere un breve periodo di riflessione… ma pian piano era diventata una vera e propria esistenza distaccata. Mi facevo vivo solo quando lo decidevo io e chiunque aveva cercato di contattarmi prima o poi aveva dovuto mettere giù la cornetta e arrendersi dopo numerosi tentativi. Nella mezz’ora successiva lo schermo del cellulare rischiarò la penombra con la sua luce bianca almeno una decina di volte. E, senza neanche darmi la pena di controllare, potevo affermare con certezza che fosse sempre lei. Ma mi dicevo che prima o poi si sarebbe arresa.

Non fu così. Un’ora e mezzo dopo il telefono segnalava una ventina di chiamate senza risposta: voleva proprio darmi del filo da torcere. A quella che doveva essere la venticinquesima chiamata iniziai ad innervosirmi. La fronte mi si corrugò pian piano al ritmo di una vena che aveva cominciato a pulsarmi sulla tempia. Le dita, irrigidite come artigli, grattarono nervosamente sul davanzale della finestra alla quale ero appoggiato. Sapevano benissimo che non desideravo essere disturbato per alcun motivo. Mi costrinsi a fissare la statua del Cristo in lontananza per impedirmi di prendere il telefono e gettarlo giù dalla finestra. Calma. Sangue freddo. Ma alla fine, esasperato, fui costretto a cedere.

Acchiappai rozzamente il cellulare e premetti con veemenza sul tasto per rispondere. La vibrazione finalmente cessò. Non è niente.

«Edward?». La voce di Rosalie mi provenne dall’altro capo squillante come al solito. «Edward, ci sei?».

Un grugnito le fece capire che ero in ascolto, anche se controvoglia.

«Perché non hai risposto?».

Un sorriso contorto si stiracchiò sul mio viso. Che domanda banale.

«Avevo detto che volevo essere lasciato in pace…». L’impulso di sbatterle il telefono in faccia senza aggiungere altro si presentò potente e allettante nella mia mente.

«Ancora con questa storia? Non potrai rimanere così per sempre, lo sai».

«Non sono affari tuoi, Rose». Respira. «Cosa vuoi?».

Dall’altra parte Rosalie fece una lunga pausa e, anche se da quella distanza non potevo leggere tra i suoi pensieri, mi ci volle poco per capire che quella che l’aveva colta era preoccupazione. Ma per che cosa? Potevo quasi vederla : il telefono stretto tra le dita tremanti, mentre si mordeva il labbro inferiore indecisa riguardo a con quale frase esordire.

«Devi tornare a casa. Ci servi qui».

Altra pausa, questa volta da parte mia. E mentre il mio cervello faceva due più due, mi venne quasi da ridere: quella era una richiesta a dir poco inaccettabile. Tornare a casa era l’ultima cosa che volevo; perfino il Brasile non mi sembrava abbastanza lontano da tutto.

«Non credo sia una cosa fattibile».

«Oh, ti prego: metti da parte il tuo orgoglio! Non ha senso. Noi…».

La interruppi con un tono più brusco di quanto volessi. «Rosalie, voglio essere lasciato da solo! Capito?».

La mia pazienza era messa a dura prova. E ancora la prospettiva di chiudere la chiamata mi parve una buona idea: meno ponti avevo con quella fonte di dolore meglio era. Ma, mentre il mio dito si soffermava sul tasto di fine chiamata, Rosalie, ripresasi da un attimo di smarrimento, ritornò all’attacco.

«Edward, non hai più ragione di crogiolarti nel tuo dolore. Alice è andata a Forks perché…».

Vacillai appena sentii quel nome fin troppo familiare. Alice aveva cosa? Con gesti automatici chiusi con violenza il cellulare e lo sbattei sul tavolo, che gemette e dondolò sotto il mio colpo. È una bugia. No, non poteva essere vero. Sapevo quanto quelli della mia famiglia mi rispettavano e mi volevano bene ed ero certo che nessuno di loro si sarebbe mai permesso di farmi un torto simile. Ero stato molto chiaro al riguardo: Forks non esisteva più, lei non esisteva più. Perché quindi Alice si sarebbe mai permessa di fare una cosa del genere? A che scopo poi? L’unica risposta plausibile era che Rosalie stesse mentendo. Un secondo dopo il cellulare ricominciò a vibrare sul tavolo, ringhiando come un cane stizzito. Inutile dire che il nome di Rose brillava in bella vista. Per la seconda volta fu la curiosità a vincere.

«Devi ascoltarmi». Nel tono di Rose era facilmente distinguibile una nota d’urgenza.

«Perché l’avete fatto?». Esplosi in un ruggito assordante, che probabilmente anche la gente in strada aveva udito. Ormai l’autocontrollo era del tutto evaporato. «Perché? Cosa avevo detto? Non… non doveva essere così…».

«Lo so, Edward, io…». Altra pausa, mentre l’ansia di dire qualcosa di decisivo e di come dirlo diventava palpabile. «Carlisle e gli altri non sono d’accordo di dirtelo. Ma io voglio essere sincera con te. Non hai più ragione di soffrire e puoi… puoi tornare da noi: sarà tutto come prima. Lei non c’è più».

Mi arrivò un altro pugno straziante in mezzo al petto. Cosa significava? In che senso non c’era più? Per un attimo mi sentii prendere dal panico e fu come se le pareti della stanza mi stessero schiacciando, senza lasciarmi alcuna via d’uscita. Intanto un’unica domanda cruciale lampeggiava su tutte: cos’era successo? Non lasciarti prendere dal panico.

«Che vuoi dire?» domandai cercando di mantenere un tono controllato.

«Bella non c’è più, non è più un problema. L’ha… l’ha vista Alice. Puoi tornare a casa, Edward».

Non lasciarti prendere dal panico. Ma ormai quella regola non valeva più. Mi sentivo disorientato e confuso, non riuscivo più a capire il significato delle parole e a connetterle tra di loro, come se avessi battuto forte la testa. Vedevo la stanza ondeggiare attorno a me e le cose cambiare forma come in un grottesco gioco di specchi. Mi girava la testa.

«Che significa? Non… non capisco». Il mio sussurro fu talmente lieve che lo udii a stento.

«Alice l’ha… l’ha vista gettarsi da uno scoglio. Mi dispiace».

Quelle furono le parole decisive. Impiegai un po’ di tempo per mettere insieme le lettere, far sì che avessero un senso e risalire al significato delle singole parole: proprio come un bambino che sta imparando a leggere. Con l’unica differenza, però, che alla fine il quadro che mi si presento mi lasciò disarmato. In seguito, ripensando a quel momento, non avrei mai smesso di stupirmi dell’incredibile silenzio e senso di vuoto che avevano vinto su tutto. Non un urlo disperato, nessun gemito di dolore, niente dibattersi di fronte a una realtà che non volevo accettare: c’era solo il vuoto davanti a me. Era come se tutte le luci si fossero spente, come se tutte le voci si fossero zittite all’improvviso e come se un abisso nero e senza fondo avesse inghiottito tutta la città. E me con quella. Mi sentii cadere e per un attimo in mezzo a tutto quello smarrimento dimenticai chi fossi. Alla fine un’unica immagine aveva avuto la forza di venire a galla tra quel nulla: era terribile. Uno scoglio altissimo a picco sul mare, le onde spumose s’infrangevano minacciose sulla roccia irregolare e qualcosa, un piccolo puntino quasi indistinguibile, che precipitava verso quelle acque nere e burrascose, per sparire e non ritornare più a galla. Non è possibile.

«Andava a Forks per controllare, ma… Edward, ci sei ancora?».

Avrei potuto essere da qualsiasi parte. Non avrebbe fatto differenza. Mi sentivo talmente svuotato da tutto da essere ormai incapace perfino di provare dolore. Bella… Era come se la mia anima fosse fluita fuori dal mio corpo e, guardandolo con un cipiglio critico, si stesse chiedendo a cosa mai potesse servire ora quell’involucro vuoto. Ora che aveva perso la sua unica ragione d’esistere.

«Sì…». La risposta arrivò automatica e con un tono atono e distaccato che feci fatica a riconoscere.

«Mi dispiace, davvero. Però sapevamo tutti che sarebbe andata a finire così. Ma ora devi tornare a casa: è qui il tuo posto. Ti prometto che tornerà tutto come prima, ritorneremo ad essere una famiglia».

La voce di Rosalie sembrava così controllata, così padrona della situazione… Era come se un pesante fardello le fosse finalmente stato tolto dal cuore. Forse fu questo che mi fece scattare, che mi diede come uno schiaffo in pieno viso e mi fece rotolare fuori dal banco di nebbia in cui ero appena piombato. Bella…

«Sono sempre stata del parere che non valesse la pena di affliggersi così per una semplice umana. Non era la tua strada, Edward, e forse è meglio che sia andata così, per entrambi. Ora devi solo pensare a lasciarti tutto alle spalle e…».

E fu così che la sferzata di dolore che non ero riuscito a sentire prima mi piombò addosso all’improvviso con il rombo di una cascata. Senza sapere come vi fossi arrivato, mi ritrovai seduto sulla sedia, la mano che non stringeva quasi spasmodicamente il telefono era stretta in un pugno di ferro e potevo sentire le unghie penetrare in profondità nella carne. Bella… Un singhiozzò mi squassò la gola, facendomi tossire, mentre Rosalie continuava a parlare senza freno, forse per rincuorarmi, ma era ormai un pezzo che non l’ascoltavo più.

«Non è vero!». Urlai.

«Come…?». Rosalie era rimasta basita e quel suo breve interrogativo si perse sotto le mie urla insensate.

«Stai mentendo! Bugiarda!».

Non è vero. Non è vero. No.

«Bella… non… è… m…». La voce mi venne meno e tutta quella frase sconnessa si risolse in un’accozzaglia di mugolii senza senso, mentre mi rannicchiavo sulla sedia come un cucciolo ferito e spaurito. I muscoli facciali mi facevano male da tanto erano contratti in un’espressione di dolore. Ma una piccola parte del mio cervello mi diceva di non fidarmi di Rose.

«Lei me l’aveva promesso!».

Sì, me l’aveva promesso. Ricordavo ancora benissimo la promessa che ero riuscito a strapparle l’ultima volta che le avevo parlato. Niente di insensato o stupido.

«Sì, invece. Bella è morta».

Una specie di ruggito mi squassò il petto, che iniziò a sussultare per non fermarsi più. «Tu… menti».

Senza lasciarle il tempo di aggiungere niente di più, chiusi frettolosamente la chiamata, anche se non senza difficoltà, dato che le mani tremavano incontrollate. Rimasi lì seduto con il telefono in mano per qualche istante che parve lungo un’era, con un senso di nausea che mi nasceva dalla bocca dello stomaco e immobile nonostante fossi percorso da brividi irrefrenabili come per il freddo. E per la prima volta nella mia lunga esistenza da vampiro sentii freddo. Era come se la leggera brezza che entrava dalla finestra si fosse trasformata in un violento vento di tramontana, che aveva invaso la stanza in un turbine di neve e ghiaccio. Non avevo più percezione di braccia e gambe, come se fossero davvero congelate e intirizzite. Mi girava talmente tanto la testa che per un attimo fui sicuro di essere sul punto di svenire. L’intera stanza vorticava attorno a me senza alcun senso: il pavimento era diventato soffitto e viceversa, i mobili avevano preso vita ed erano contorti in strane forme. Per un tempo interminabile non fui in grado di formulare alcun pensiero di senso compiuto, forse anche perché l’unico pensiero pieno di spine che mi vorticava nella mente era quello di Bella. Se Rosalie aveva ragione, la mia Bella in quel momento non c’era più. Quello che mentre io potevo vedere il cielo azzurro anche lei, magari, lo stava guardando, mentre io respiravo l’aria fresca della mattina, anche lei lo stava facendo, quello era stato l’unico pensiero che mi aveva permesso di tirare avanti in un modo o nell’altro. Ma ora sapevo per certo che Bella non poteva sentire il dolce profumo dell’aria nei polmoni, provare la magnifica sensazione dei polmoni che si gonfiano ad ogni respiro come stavo facendo io.

Non ne sei sicuro: stava mentendo. Quella piccola vocina proveniente da un angolo oscuro della mia mente mi accarezzò con fare confortante. Sapevo bene che Rosalie non aveva mai visto molto di buon occhio la mia relazione con Bella, quindi la sua testimonianza non era del tutto attendibile. Un barlume di speranza mi si accese nel cuore; speranza o, più probabilmente, illusione. Illusione che mia sorella fosse sempre la solita e che Bella fosse ancora viva, felice di vivere la sua vita da comune essere mortale senza di me. Ma, indipendentemente da cosa fosse, quella fiammella m’impedì di accasciarmi sul pavimento per rimanerci per il secolo seguente o di correre fuori dalla stanza piangendo e urlando, cercando di liberarmi di un dolore talmente profondo da essere impossibile da esprimere. Non è vero. Questo pensiero mi fece rialzare pian piano su gambe insicure e riprendere tra le mani il cellulare caduto sul pavimento. Ma come facevo ad essere sicuro che quella di Rosalie fosse soltanto una bugia maligna? Alla fine, dopo decine di supposizioni che non stavano in piedi, mi ritrovai a dover scegliere tra l’andare direttamente a Forks di persona o… Potevo chiamare a casa sua.  E se mi avesse risposto Bella avrei riattaccato subito e finalmente il mio cuore sarebbe stato di nuovo in pace. Sì, avrei fatto così, anche perché in questo modo non avrei infranto la promessa che le avevo fatto: sarà come se non fossi mai esistito. Ma se avesse risposto qualcun altro? Non era un problema; avrei inventato una scusa qualunque.

Feci su e giù per la stanza per qualche volta e mi affacciai alla finestra respirando a pieni polmoni l’aria fresca, cercando di calmarmi e darmi un tono. Era sicuro di aver cancellato il numero di casa di Bella dalla rubrica: tanto per allontanare ogni tentazione avevo cancellato qualsiasi cosa mi avesse potuto riportare da lei. Però, sfortunatamente o fortunatamente, me lo ricordavo benissimo a memoria: in fondo come avrei potuto mai dimenticarlo? Quindi, prima di cambiare idea, mi affrettai a digitare il numero. Mi schiarii la gola e mi misi in ascolto. Squillava. Calma.

Ma non fu la voce che speravo a risuonare nelle mie orecchie quando dall’altro capo qualcuno alzò la cornetta.

«Casa Swan».

Si trattava di un ragazzo, dal tono rauco, intenso e un po’ cupo, che non riuscii a riconoscere. Ma, a dir la verità, la cosa non m’importava un granché. Comunque il mio cuore fece una capriola nel constatare che magari significava qualcosa se né Bella né Charlie avevano risposto. E se…? Mi schiarii un’altra volta la voce e cercai di rimanere tranquillo e raggiungere l’obiettivo: mi serviva un diversivo.

«Salve, sono il dottor Carlisle Cullen…». Fu la prima cosa che mi venne in mente. «Vorrei parlare con Charlie Swan, se è possibile…».

Se avessi chiesto direttamente di Bella sarebbe potuto apparire sospetto, pensai. Nonostante ciò, il ragazzo dall’altra parte rimase un attimo in silenzio, come se stesse ponderando la cosa. E magari con un po’ di nervosismo.

«Non è in casa» rispose alla fine con una sfumatura di minaccia che mi lasciò un attimo perplesso. Calma.

«E… potrei sapere dove si trova? Avrei bisogno di parlargli urgentemente».

Questa volta la replica giunse quasi immediata, accompagnata da un tono parecchio scocciato e sdegnato. «È al funerale».

Dopo di che riappese.

Il tu-tu ripetitivo del telefono mi rimbombò nelle orecchie ancora per molto. Dunque era vero: Rosalie non stava affatto mentendo. Ripiombai nella cortina di nebbia di prima, ma questa volta senza alcuna possibilità di uscirne vivo. Quella piccola fiammella che mi aveva fatto sperare per qualche attimo si era spenta in un soffio. Niente aveva più senso. Bella… Probabilmente in quel momento a Forks tutta la gente che le aveva voluto bene era attorno alla sua bara per salutarla un’ultima volta. La sua famiglia, i suoi amici… Charlie che cercava di capacitarsi dell’accaduto e, non trattenendo più le lacrime, si chiedeva cosa avrebbe fatto ora. E tutti avrebbero pianto insieme, tutti meno l’unica persona che l’aveva amata più di se stesso, che ora se ne stava, invece, lontano chilometri da casa. Colpevole e inutile come lo era sempre stato. Ed ecco che un’altra stella si era appena spenta, ma non era una semplice stella. Era il sole, il punto di luce, di un’intera costellazione, che ora senza di lei sarebbe morta pian piano soffocata dal buio. Aveva ragione Rosalie, Bella era morta. Era morta per colpa di Edward, che, credendo di fare il suo bene, l’aveva invece spinta giù da una scogliera. Ma adesso anche Edward sarebbe morto… anche perché ormai cosa ci stava a fare al mondo?

Bella.

Aprii i pugni, fino a quel momento serrati in una stretta spasmodica, le unghie affondate in profondità nella carne, e con un tintinnio metallico sul pavimento scese una piccola pioggia d’argento. I piccoli frammenti argentati in cui era stato ridotto il cellulare, prima di rimbalzare sul pavimento, s’accesero come piccole scintille, riflettendo la luce della luna.

Sapevo cosa dovevo fare.

Dopo un lungo periodo di assenza finalmente ritorno con questa cosuccia. Nonostante ci abbia lavorato su parecchio la mia mania di perfezionismo mi continua a dire che è ancora imperfetta: per questo come sempre mi affido ai vostri stupendi commenti (sperando che siano numerosi e calorosi come le altre volte). Inutile dire che la scena descritta è una specie di missing moment di quando Edward viene a sapere per errore della falsa morte di Bella e decide di andare dai Volturi. Con tutte le conseguenze che noi tutti ben conosciamo. Altrettanto inutile dire che l'ispirazione per questa one-shot mi è venuta dal film di New Moon uscito recentemente (e magari qualche attento lettore avrà notato qualche parallelismo...). Infine come al solito spero di aver reso bene il personaggio e, soprattutto, di non aver scritto qualcosa di troppo pesante e noioso (lo so, sono un po' troppo prolissa a volte, ci devo lavorare).

Mi aspetto delle recensioni numerose!

  
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Elizabeth_Keats