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Autore: hotaru    28/11/2009    4 recensioni
“Quaderno di morte”. “Quaderno della morte”.
Qualunque fosse la traduzione giusta, il significato era chiaro. Tuttavia c’era qualcosa che non gli tornava.
Light non ne sapeva molto, ma aveva visto che parecchi ragazzi grandi erano interessati a certe cose che loro chiamavano “gotiche”: si vestivano di nero, con le borchie, e ascoltavano una musica strana più simile al rumore.
Ma quella ragazza non gli sembrava il tipo.
Seconda classificata al contest "When I was a child" di OttoNoveTre
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, L, Light/Raito
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Déjà vù
Déjà vu



Déjà Vù



Anche se non dimostrava mai particolare entusiasmo per qualcosa, Light Yagami era un bambino assolutamente obbediente.
A meno che non ci fosse un palese e ragionevole motivo per cui non fosse tenuto a fare qualcosa- che non mancava di far presente, anche se con la dovuta educazione- si era sempre dimostrato un figlio modello.
E, quando all’età di sei anni aveva iniziato la scuola, era diventato anche un alunno esemplare.
Aveva imparato a leggere ad una velocità strabiliante, e per conto proprio aveva anche imparato parecchi caratteri difficili (¹), che di norma non si affrontavano prima della terza elementare.
Alle lodi entusiastiche delle insegnanti, la madre di Light rispondeva dicendo che forse tutto ciò era dovuto soprattutto al fatto che Light fosse un bambino tranquillo, per nulla scalmanato, che ad una corsa in bicicletta preferiva un buon libro.
A questo punto raccontava che il sabato pomeriggio, quando accompagnava i figli al parco per un paio d’ore, Light si portava sempre dietro un libro, che leggeva seduto buono buono su una panchina.
Lei seguiva Sayu, la più piccolina, che insisteva nel volersi riempire le tasche di sabbia e nel voler andare sull’altalena come i ragazzi grandi. Aveva comunque sott’occhio anche Light, che da quando arrivavano fino all’ora di tornare a casa non abbandonava nemmeno un istante la panchina sotto l’acero.


Light Yagami era un bambino incredibilmente intelligente, a detta di tutti. E le persone particolarmente intelligenti si distinguono perché riescono a notare parecchie cose senza nemmeno volerlo. Particolari irrilevanti, di cui spesso non tengono conto nemmeno loro.
Ma li colgono, senza accorgersene.

E Light Yagami, di particolari irrilevanti, il sabato pomeriggio ne aveva colti parecchi. Troppi per poter dire che fossero effettivamente senza importanza.


All’inizio aveva scelto quella panchina perché era la più comoda. C’era una lista di fattori a renderla tale: la madre avrebbe potuto vederlo ogni volta che avesse alzato la testa da Sayu, e quell’acero rigoglioso faceva sì che la luce fosse perfetta per leggere.
Inoltre non c’era nessuno che potesse importunarlo, mentre in altre zone del parco non mancavano certi uomini disgustosi che con la scusa dell’offrirti una caramella o della domanda “Che cosa leggi?” ti si avvicinavano fino a toccarti un ginocchio o i capelli. Gli era già capitato una volta, ma per fortuna la semplice informazione “Mio padre è un ispettore di polizia” sembrava farli desistere dal loro strano intento. Qualunque esso fosse, perché a dire il vero quella parte non gli era ancora ben chiara.
In ogni caso, l’unica persona che di tanto in tanto sembrava prediligere quella particolare panchina era una ragazza. Una ragazza molto più grande di Light, che doveva essere ormai maggiorenne e forse frequentava l’università.
L’aveva degnata di un’occhiata soltanto la prima volta, giusto per rendersi conto se avrebbe potuto disturbarlo o no. Stava scrivendo qualcosa su un quaderno, forse pieno di appunti presi a lezione. Non sembrava affatto un’agenda o qualcosa del genere.
La giudicò assolutamente inoffensiva, e rivolse tutta la sua attenzione al libro che si era portato dietro.


La ragazza non c’era tutte le settimane. Ma quando lei mancava, c’era un gatto. Un gatto dal pelo grigio e in certi punti quasi giallo, seduto proprio al centro della panchina.
Sembrava abituato alla gente, perché quando Light la prima volta si era seduto, l’animale non si era spostato di un millimetro. L’aveva guardato di sottecchi, come fanno abitualmente tutti i gatti, per fingere che non gli importasse minimamente della presenza di un moccioso umano.
Però il moccioso umano doveva essergli andato a genio, perché nel giro di un quarto d’ora Light se l’era trovato accoccolato in grembo. Era rimasto lì tutto il tempo, dormendo pacificamente, saltando giù quando per il bambino era arrivata l’ora di andare.
Più tardi Light l’aveva raccontato alla madre, che aveva sorriso dicendo che in genere i gatti preferiscono le persone tranquille. Doveva averlo in qualche modo “sentito”, e per questo l’aveva eletto come sua poltrona personale.
In fondo nemmeno al giovane Yagami dispiaceva, perché rimanendo fermo per due ore intere un po’ di freddo gli veniva, e un saccoccio caldo e peloso sulle gambe era come una coperta.


Ma ci fu una volta- quella volta- in cui la ragazza arrivò mentre il gatto se ne stava tranquillamente in grembo a Light.
E se ne sarebbe accorto anche se non fosse stato una persona acuta e intelligente, perché perfino un idiota avrebbe sentito quelle unghie acuminate conficcarsi nella pelle morbida delle cosce.
Malgrado il dolore, il bambino non emise nemmeno un lamento, ma abbassò lo sguardo sull’animale. Aveva il pelo ritto, le orecchie piegate ed emetteva uno strano bubbolio lamentoso. Fosse stato un cane, forse avrebbe ringhiato.
La ragazza non si era accorta di nulla; si era seduta e aveva tirato fuori il suo quaderno dalla copertina nera, sfogliandolo e leggiucchiando qualcosa tra una pagina e l’altra.
Ma quando appoggiò accanto a sé la borsa della spesa, piena di frutta rossa e succosa, il gatto emise un miagolio rauco che sembrava il verso di un demone, e scappò via. Lasciando Light con i pantaloni pieni di peli e le cosce doloranti di graffi.


Così il sabato successivo si decise a squadrare per bene quella strana studentessa che faceva fuggire i gatti.
Ovviamente era abbastanza sveglio da non farsi notare, ma la ragazza non lo degnò comunque di uno sguardo, immersa com’era nella lettura del suo quaderno di appunti.
Quel giorno non aveva con sé una borsa della spesa, ma un semplice bentō (²) di bassa qualità, acquistato in qualche negozio economico, e dopo aver aperto l’involto cominciò distrattamente a mangiare.
Light ricordava di aver già notato che i suoi spuntini- forse pasti, visto che non conosceva l’orario delle sue lezioni- sembravano piuttosto scadenti. Tramezzini presi al distributore, qualche cibo veloce acquistato alle bancarelle per strada, hamburger di dubbia provenienza. L’aveva notato senza nemmeno rendersene conto, più che altro perché sua madre era un’ottima cuoca e non voleva che i figli mangiassero “troppe porcherie”.
Però spesso e volentieri aveva con sé un cesto o un sacchetto pieno di frutta, che a colpo d’occhio sembrava di ottima qualità (³). A pensarci bene, si trattava solamente di mele rosse e lucenti, che spesso comprava anche sua madre.
Lui non se ne intendeva molto di vestiti, ma non gli sembrava che quelli che la ragazza indossava fossero capi firmati o in qualche modo pregiati. Anzi.
Ma allora perché spendere un capitale in frutta, che tra l’altro nemmeno mangiava? Da quel che ricordava, Light non l’aveva mai vista addentare una mela, nemmeno una volta.

Ad un osservatore esterno poteva sembrare che quel bambino di sei anni tanto educato e tranquillo fosse immerso nella lettura di un appassionante romanzo, mentre in realtà il suo cervello di soli sei anni lavorava febbrilmente quanto quello di Sherlock Holmes.
C’era un alone di mistero attorno a quella ragazza, lo sentiva. Ma cos’era?

Light Yagami, oltretutto, aveva una memoria molto fotografica. E si ricordò che ogni quaderno che la ragazza tirava fuori dalla borsa aveva una copertina di colore nero.
Corrugò la fronte, stringendo con più forza il libro che teneva fra le mani. E se si fosse trattato, ogni volta, dello stesso quaderno?


Light Yagami era anche un bel bambino dai capelli lisci e gli occhi svegli, che dimostrava semplicemente sei anni. Anche se nessuno sapeva dire quanti ne avesse realmente il suo cervello.
E decise di approfittarne.
- Che cosa leggi? – si sentì chiedere un pomeriggio la ragazza, che quasi sussultò dalla sorpresa. Light non si interessava per niente alle altre bambine o alle ragazze in genere, ma se l’avesse fatto si sarebbe accorto che quel mucchietto d’ossa dai capelli piatti e il colorito pallido non si poteva certo definire una bellezza.
- Io sto leggendo questo – continuò il bambino, mostrando un librone dal titolo “L’isola del tesoro” – È un vecchio romanzo occidentale, lo conosci? -.
La ragazza annuì, sollevata che si trattasse solamente di un bambino.
- E tu, invece? – Light fece in tempo ad allungare il collo e vedere una serie confusa di caratteri slegati tra loro, prima che la ragazza chiudesse il quaderno di botto.
Ma sulla copertina c’erano delle lettere, che non erano caratteri né cinesi né giapponesi.
- Niente di interessante. Sto solo dando una scorsa agli appunti presi oggi. Una noia mortale, te l’assicuro -.
- Ah – rispose Light – Allora non ti disturbo più, scusa -.
A questo punto il viso sparuto della ragazza si addolcì, e sorrise gentilmente.
- Ma no, figurati. Nessun disturbo -.


D-e-a-t-h  N-o-t-e
Gli sembrava fossero queste le lettere scritte sulla copertina di quel quaderno, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. L’eccellente memoria fotografica che aveva non lo tradiva mai, ma non sapere il significato di quelle due parole di certo non aiutava.
Non era giapponese, di questo era sicuro.
Forse inglese?
Peccato che il sistema scolastico giapponese non prevedesse l'insegnamento della lingua inglese fino alle scuole medie, e pur con tutta la sua intelligenza gli mancavano ancora sei anni.
Troppo tempo. Avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di qualcuno.


- Light, potresti venire qui un momento? – la voce di sua madre lo chiamò dalla cucina, e il bambino la raggiunse dal soggiorno.
- Che cosa c’è? -.
- Senti, tesoro, la tua maestra mi ha detto che l’altro giorno le hai chiesto una cosa -.
Light la guardò senza dire nulla, aspettando il seguito.
- Te lo ricordi? – domandò la madre.
Lui annuì.
- Sì, le ho chiesto il significato di due parole in inglese -.
- E dimmi – la madre avvicinò il viso al suo, la voce più dolce – Dov’è che hai sentito la parola “morte” in inglese? -.
In quel momento Light si stupì. Si sorprese di quanto gli riuscisse facile anticipare i comportamenti degli adulti, perfino quelli di sua madre. Si rese conto che lui già sapeva che qualcuno gli avrebbe fatto delle domande, quand’era andato  a chiedere quella cosa alla maestra. Sapeva che lei l’avrebbe riferito a sua madre, che a sua volta gli avrebbe chiesto l’origine di quella curiosità, anche se con molta delicatezza.
Perché non era normale che un bambino di sei anni conoscesse la parola “morte” in un’altra lingua.
- L’ho vista scritta sulla maglietta di un ragazzo, per strada – rispose tranquillamente – Era una maglietta tutta nera, con un teschio disegnato dietro e quella parola scritta davanti. Ero curioso di sapere cosa volesse dire -.
E sua madre fece la stessa, identica espressione che lui aveva immaginato. Un’espressione di sollievo mista a “Ah, questi ragazzacci d’oggi” e “Lo sapevo che il mio bambino non aveva fatto niente di male, era solo curioso”.
- D’accordo, tesoro. Vai pure a giocare mentre preparo la cena -.


“Quaderno di morte”. “Quaderno della morte”.
Qualunque fosse la traduzione giusta, il significato era chiaro. Tuttavia c’era qualcosa che non gli tornava.
Light non ne sapeva molto, ma aveva visto che parecchi ragazzi grandi erano interessati a certe cose che loro chiamavano “gotiche”: si vestivano di nero, con le borchie, e ascoltavano una musica strana più simile al rumore.
Ma quella ragazza non gli sembrava il tipo.
Si stese sul letto, allargando le braccia.
Forse si stava inventando tutto. Forse era effettivamente un bambino come gli altri, con la sua buona dose di immaginazione. Solo che le sue fantasie erano molto più contorte ed elaborate.
Chiuse gli occhi, stiracchiandosi per bene.
E i caratteri scritti sulle pagine? Erano confusi, complicati; non sembravano frasi, piuttosto…
Light si alzò a sedere, aprendo gli occhi.
Nomi.
Già, potevano essere tanti nomi di persona. Per questo certi non riusciva a leggerli. (*)
Tuttavia quel quaderno non aveva affatto l’aria di una rubrica. Rimuginò un po’, dondolando avanti e indietro sul letto.
Era deciso. Avrebbe tenuto d’occhio quella ragazza. Così avrebbe avuto qualcosa da fare il sabato pomeriggio: a forza di leggere cominciava ad annoiarsi.


Vide la ragazza altre due volte, anche se la seconda cominciò a sospettare che il troppo leggere cominciasse a fargli male.
Era seduto come al solito sulla panchina, intento a fingere di tenere gli occhi sul libro, mentre in realtà non perdeva d’occhio la studentessa. Fra loro era posato uno dei soliti sacchetti pieni di mele rosse. Doveva essere stato posato male, perché pendeva tutto da una parte, e un paio di frutti minacciavano seriamente di cadere fuori.
Light stava appunto per aprire bocca e avvertirla, quando una mela scivolò fuori e rotolò sulla panchina. E Light ammutolì.
- Oh, che sbadata – disse la ragazza, riponendo con cura le mele nel sacchetto e rivolgendogli un breve sorriso, per poi tornare al proprio quaderno.
Non si accorse che il bambino era rimasto a guardare il sacchetto in questione. Anzi, per meglio dire, una mela ben precisa.
Perché era sicuro che quel frutto rosso fosse assolutamente intatto, prima di cadere fuori. L’aveva visto rotolare- non poteva sbagliarsi- ed era lucido e perfetto.
Ma quando la mela si era fermata, arrestando la sua corsa sui listelli della panchina, su un lato c’era un morso.

In realtà aveva poi pensato di essersi sbagliato. Magari era davvero un po’ stanco, forse avrebbe fatto meglio a giocare un po’, come gli ripeteva sempre sua madre.


In realtà quegli episodi singolari non ebbero un seguito. La volta successiva all’episodio della mela, con Light sempre più smanioso di venire a capo di quella storia, la ragazza non c’era più.
E non riapparve nemmeno la settimana seguente, né quella dopo ancora. Sulla panchina tornò a stabilirsi definitivamente il gatto.


Trattandosi di una faccenda così breve, anche se aveva stimolato non poco la sua fervente curiosità, non ne rimase quasi traccia nella sua memoria. Forse perché in realtà non c’era effettivamente qualcosa da ricordare: alla fin fine, non era accaduto niente. Si era trattato semplicemente di qualche episodio un po’ singolare, in cui una buona dose di immaginazione infantile doveva averci messo lo zampino.

Ciò nonostante, una manciata d’anni più tardi qualcosa doveva essere rimasto nella sua memoria. Perché quando trovò il Death Note e venne a contatto col mondo degli shinigami, uno strano senso di déjà vu lo coglieva quando vedeva Ryuuk addentare con gusto una succosa mela rossa.
Ma capitava solo qualche volta, e non vi badò mai più di tanto.

Aveva ben altro a cui pensare.




(¹) I caratteri giapponesi vengono insegnati a scuola per gradi. Quindi un bambino di prima elementare dovrebbe conoscerne una quantità ancora limitata.
(²) Bentō: pasto composto di varie pietanze disposte in un recipiente di legno laccato o plastica, per lo più diviso a scomparti.
(³) In Giappone la frutta costa cara, molto più che in Italia.
(*) I nomi in giapponese si scrivono con gli stessi caratteri usati per la lingua scritta, ma possono avere diverse letture. Uno stesso nome si può scrivere con caratteri diversi, per questo i giapponesi sono soliti scambiarsi i biglietti da visita, quando si presentano.




Seconda classificata al contest “When I was a child” indetto da OttoNoveTre! L'immagine sotto il titolo è stata fatta dalla giudice, che ringrazio molto!
Sono decisamente soddisfatta, tenendo conto che questa è la mia prima- e forse unica- fic su Death Note.
Per quanto mi riguarda, questo mini-episodio precedente ai fatti che conosciamo potrebbe anche essere plausibile. Insomma, me lo immagino proprio questo Light bambino che viene a contatto col mondo degli Shinigami, pur senza rendersene conto.
Mi piacerebbe sapere che cosa pensate di questo esperimento!
   
 
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