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Autore: Melian    01/12/2009    11 recensioni
“Tieni gli occhi fissi davanti a te, non guardare indietro. Resisti alla tentazione di stringere la donna che ti tiene il passo, di baciarle le guance, di toccarle i capelli di seta. Resisti… siamo quasi arrivati.”
[Prima classificata e vincitrice del premio "Io amo l'italiano" al contest: "Quel momento difficile" indetto da Paperetta@ sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ORFEO ED EURIDICE

"It's better to have loved and lost than never to have loved at all."
(Oscar Wilde)


La grande quercia che si ergeva al centro della radura dava l’impressione di essere sempre stata lì, fin da quando gli dèi avevano plasmato il mondo e Gaia si era distesa per accogliere su di sé i propri figli arborei. Era una quercia alta, dal fusto imponente e nodoso, dalle radici profondamente ancorate al suolo e una chioma frondosa e ampia, un fazzoletto di foglie verde scuro tra cui stormiva il vento e giocava il sole.
C’era sempre stata, quella quercia secolare, salda e accogliente per ogni scoiattolo od uccello che vi avesse posato sopra le zampe, un riparo per la pioggia battente o la calura.
C’era sempre stata e c’era anche adesso, a protendere i rami per fare ombra alla tenera creatura sdraiata sul prato e apparentemente addormentata. Capelli biondi come il grano, braccia e gambe snelle e levigate, una bocca che aveva indotto a rubarle i baci, le guance che dovevano essere state soffuse di un rossore delicato, era questa la giovane che la quercia proteggeva dalla luce diretta del sole e che non si muoveva, non apriva gli occhi, non aveva alcun alito di vita che la facesse palpitare.
Euridice, la Driade dei boschi, era morta e quello che restava tra l’erba era solo un corpo inanimato e privo di calore, privo di passione e morbidezza, come congelato dalla grazia divina in una eterna stasi di morte senza difetto, senza l’onta del disfacimento a cui ogni mortale deve andare incontro nel grande cerchio della vita.
C’era la quercia, c’era il simulacro del corpo di Euridice e c’era il silenzio.
Il silenzio era totale, terribilmente angoscioso: non c’era usignolo che emettesse vocalizzo, non c’erano cervi che ingaggiassero lotte per conquistare le cerbiatte, non c’erano conigli che saltellassero alla ricerca di cibo, nulla. Persino il vento aveva smesso di soffiare e l’aria del meriggio era pesante, satura di odori.
C’era il silenzio odioso e c’era un uomo in ginocchio con l’aria impotente e disperata, con gli occhi sbarrati e le mani che stringevano convulsamente fili d’erba. Guardava la donna con incredulità, fissava cupamente la ferita lasciata dai denti avvelenati della vipera sulla pelle lattea della Ninfa e sembrava ipnotizzato, perduto in nebulosi pensieri. La sua espressione si contorse, rivelando il dolore tremendo di quel momento, un dolore che trascendeva il tempo e lo spazio.
Orfeo aveva abbandonato la lira per terra e non si curava che sopra le sue squisite rifiniture d’argento vi stessero strisciando le lumache, né che le corde si fossero allentate. Non faceva più musica, forse in un primo terribile momento aveva giurato che non avrebbe mai più suonato e che non avrebbe più incantato gli animali, né fatto zittire le fonti e i ruscelli, né fatto arrossire la moltitudine di cantori che non potevano eguagliarlo, né avrebbe più fatto palpitare i cuori delle donne che lo ammiravano. Lui voleva solo Euridice.
Non c’era più musica, non c’era più amore. Restava solo il rimpianto di non aver potuto salvare la propria donna e le lacrime di rabbia e frustrazione.
No, non poteva restare solo quello, non poteva lasciarsi scivolare dalle dita la felicità. I suoi pugni serrarono l’erba e la strapparono furiosamente. Orfeo parve accartocciarsi su se stesso e poi espandersi di colpo, in un urlo forte quanto una pugnalata. Non si sarebbe arreso alla Moira, non avrebbe lasciato intentato nulla, avrebbe strappato alle Parche il filo della vita di Euridice e l’avrebbe riportata indietro.
In piedi, accanto a lui, stava ritta Calliope dalla bella voce. Protendeva la mano verso il capo del figlio per accarezzargli i capelli bruni, nel tentativo di consolarlo, di indurlo a scuotersi, a rialzarsi, a reagire.
-Orfeo? – Calliope lo chiamò con la voce vibrante di apprensione.
-Ho deciso di andare. – la voce di Orfeo era roca, ma decisa.
Calliope sospirò addolorata; sapeva bene cosa il figlio avesse in mente e non ebbe il cuore di rifiutargli il proprio consenso: -Non ti fermerò, ma sta’ attento. Prima di arrivare al cospetto di Ade dovrai attraversare gli Inferi e, per giunta, Ade non si lascia intenerire facilmente.
-Non importa. Andrò a riprendermela ugualmente. – Orfeo si rialzò, risoluto, afferrando la lira. Fissò il corpo della sua donna che manteneva una bellezza vana, vuota, come fosse stata una semplice statua.
-Thanathos non si lascia soggiogare, figlio mio. Tiene per sé ciò che ha rapito. E la Moira ha già dipanato il filo del destino di Euridice. Stai in guardia, ti dico. – gli ricordò Calliope e intonò un canto colmo di dolore per la Driade e per il suo stesso figlio.
Ma Orfeo era già lontano, il saluto che aveva indirizzato alla divina madre era stato muto, un semplice gesto, un semplice sguardo fugace. Semplicemente, si era voltato e si era incamminato, nella mente e nel cuore un solo scopo e un’unica meta.

Era come essere in movimento perenne e, assieme, essere immobile. Era come stare fermi, eppure essere trascinati da un vento che non ha bellezza, che non possiede la piacevolezza della brezza che scompiglia i capelli in estate e che non porta i profumi del bosco con sé. Era come stare immobili e ripiegati su se stessi ed essere, tuttavia, sballottati in una danza macabra e innaturale, scandita da ritmi tutti suoi, persino stridenti.
Euridice volteggiava tra le ombre in una nebbia sovrannaturale in cui i contorni delle cose sbiadivano. E lei non aveva corpo, non aveva voce. Ed era nuda come non era mai stata prima; la sua nudità trascendeva la mancanza di abiti: era stata spogliata della carne, della passione, della felicità, della vita. Ora le erano state cucite cupe vesti di morte e sul suo capo, sui capelli di un biondo spento e cinereo, erano state intrecciate corone di fiori funebri.
L’Ade era la sua nuova casa, anche se lei non sapeva come ci fosse arrivata. L’ultima cosa che ricordava era il gioco straordinario dei raggi solari tra le fronde degli alberi, il frusciare dell’erba del prato sotto l’alito gentile di vento, il piede che scivolava su qualcosa che allungava fulmineamente la testa e colpiva…
Forse aveva avvertito dolore? Forse era caduta e aveva sofferto mentre un veleno mortale si diffondeva nelle membra? Non lo ricordava, non aveva più coscienza, sapeva solo che doveva restare lì dove si trovava.
Il buio, il vento innaturale e gelido, la nebbia… non c’era altro, a parte altre anime solitarie e indifferenti, chiuse nella propria insofferenza o nella propria beatitudine, questo non si capiva.
Euridice non aveva coscienza, ma era giunta a una consapevolezza tale da non poter essere espressa a parole: lei sapeva. Era piena della grande Morte e ora sapeva cos’era la vita, cos’era la stessa morte, e qual era il significato di entrambe, poteva smembrare con incredibile acutezza ogni emozione e sentimento e indicarne l’origine con la precisione e la freddezza di un demiurgo con la propria opera.
Non c’erano più segreti per lei, tutto si dischiudeva come i petali di un fiore notturno e si distendeva davanti ai suoi occhi con lampante chiarezza: lei non era più parte della vita, non avrebbe mai più potuto esserlo. La Morte scorreva nelle sue vene al posto del sangue che aveva fatto battere il cuore, le gonfiava i polmoni aridi come aveva fatto l’aria pura su per i monti.
Perciò, quando Ade la convocò alla sua corte e Persefone la prese per mano per condurla all’uomo dagli occhi scuri che aveva suonato la lira con passione struggente, quando quell’uomo, che lei in passato aveva chiamato con amore indicibile Orfeo, le parlò - voltato di spalle - per indurla a seguirlo, Euridice si mosse come annegasse in una visione onirica e strana, con le labbra corrucciate.
C’era qualcosa di sbagliato.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato mentre seguiva Orfeo come un’ombra impalpabile, via via più tangibile. C’era qualcosa di sbagliato perché restava fredda e vuota, perché la Morte trasudava da lei come acqua.
Infine, accadde: comprese e decise. Non parlò, ma la sua mano si stese per cercare di sfiorare la spalla di Orfeo.

Orfeo stringeva la lira contro il fianco, teneva le mascelle serrate e la fronte rigata dal sudore mentre risaliva l’oscura e buia galleria che si snodava nelle viscere della terra. Aveva i piedi e le gambe ferite dagli spuntoni di roccia incontrati lungo la via, ma non si fermava, non ora che il mondo dei vivi era lì, davanti a sé, a pochi metri.
Occhi fissi davanti a sé.
“Tieni gli occhi fissi davanti a te, non guardare indietro. Resisti alla tentazione di stringere la donna che ti tiene il passo, di baciarle le guance, di toccarle i capelli di seta. Resisti… siamo quasi arrivati.”
Ma anche lui aveva il sospetto che ci fosse qualcosa di sbagliato. Era forse il tocco gelato della mano della donna che amava? E cos’era quel brivido di orrore lungo il collo quando Euridice si era piegata a respirargli vicino? Quelle dita… le dita di lei, possibile che fossero davvero così fredde?
Era quella la cosa terribilmente errata? Era contro natura che lui avesse strappato alla Morte quella donna e volesse portarsela via? Le loro strade dovevano dividersi?
Orfeo si fermò, ansimò curvato in avanti e poi si risollevò adagio, sfiorando col capo ricciuto il soffitto della galleria. Batté le palpebre e vide la luce calda del mondo esterno farsi più vivida, un oceano di luce che dilagava nella tenebra e nella desolazione. C’era uno strano senso di fatalità a pendergli sul capo e lui se ne rese conto.
-Ho deciso di andare -, era la voce di Euridice, e la sua era fermezza mischiata alla mestizia.
Orfeo sorrise amaramente. Quale strano scherzo del destino era quello, udire le stesse parole che aveva usato lui, quando era sceso negli Inferi? E all’improvviso gli fu chiara ogni cosa: Euridice si era fermata, non avrebbe avanzato, non avrebbe messo piede fuori da quella caverna; sarebbe tornata indietro.
-Non ti fermerò. – rispose Orfeo con un senso grave d’impotenza e accettazione nel tono. – Sono pronto a dirti addio, mia Euridice.
Si voltò, sorrise nel fissare la splendida Ninfa tornata a vestirsi di carne quasi del tutto, con gli occhi chiari come laghi limpidi, i capelli come il grano, le belle gambe e le braccia armoniose. E poi quella visione scomparve, si disperse come la sabbia che cade tra le dita, sparì in minuscole particelle di luce inglobate nell’oceano infuocato del sole che brillava oltre la grotta. L’ultimo scintillio di sogno fu il sorriso di Euridice, l’ultimo barlume di vita fu l’eco della dolce voce femminile che chiamava il nome di Orfeo.
-Morte alla Morte. – asserì il cantore e rimase lì, imbambolato ad osservare la sagoma di donna che sbiadiva, esplodeva, si annullava: Euridice sparì, sparì risucchiata dal vortice che l’aveva cullata nei meandri dell’Ade, sparì ghermita dall’oblio.
C’era stato qualcosa di strano e ora non v’era più, non ora che la Morte aveva ripreso ciò che era suo.

 

 


___________________

Note dell’autrice:

Piccola rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice (senz’altro uno dei miei preferiti) scritta per la Criticombola di Criticoni.
Prompt usato numero 67, categoria “dialoghi”: “ -Ho deciso di andare. / –Non ti fermerò.”

   
 
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