Ero china a terra, nuda, macchiata del sangue d’innocenti e colpevoli, piegata sul cadavere di quel bambino, quel fanciullo che avevo appena ucciso: l’ennesima vita stroncata da me, dai miei vettori, dalla mia coscienza omicida.
Il suo corpicino era riverso a terra, immobile, freddo.
La base del collo, dal quale avevo tagliato la testa, ributtava ancora sangue, caldi fiotti che andavano ad insozzare il terreno di pietra.
Il capo reciso era abbandonato più in là, rivolto in modo che non potessi osservarne l’espressione e, forse, era meglio così: era una mia vittima e, di solito, non mi spiaceva affatto per loro, ma lui era diverso.
Lui era uno della mia stessa razza, un Diclonius.
L’unico Diclonius maschio che fosse mai esistito.
E, per giunta, era mio fratello.
O almeno, lo era stato: era morto solo pochi minuti dopo quella rivelazione che mi aveva lasciata completamente spiazzata.
Non avrei mai creduto che mia madre fosse stata l’origine di noi Diclonius e che potesse addirittura aver partorito un maschio, prima di morire.
Continuai a fissarlo: era un innocente, in fin dei conti.
Oltretutto, quell’aggeggio che aveva impiantato nella fronte gli impediva di desiderare di uccidere, lo teneva a bada.
Però, nonostante mi dispiacesse averlo coinvolto, non me ne pentivo: sarebbe stata la chiave per distruggere il genere umano ed ora sapevo che non era questo il nostro destino.
- Mi dispiace. Tu non ne avevi colpa... ma presto saresti stato il fulcro della fine dell’umanità... - sussurrai, rialzandomi.
Ora che lui era morto e che anche quell’umano, il direttore, non c’era più, sapevo che il mio tempo era agli sgoccioli.
Il mio fratellino era morto e presto l’avrei raggiunto: noi Diclonius non avremmo colonizzato il mondo, non avremmo soppresso gli homo sapiens.
Al contrario, saremmo stati noi ad essere cancellati, soppressi, distrutti: era questo il destino che ci attendeva.
Non c’erano alternative: una delle nostre razze doveva sparire.
Sarebbe stata la nostra: per noi non c’era mai stato un posto nel mondo.
Da sempre siamo stati perseguitati e discriminati.
Ogni tipo di sopruso su di noi era concesso ed io avevo lottato contro la crudeltà degli umani fino a quel momento, fino all’istante in cui avevo compreso che noi Diclonius eravamo una razza senza futuro, destinata a scomparire.
Era il nostro fato, ineluttabile e crudele, tuttavia, non c’era modo di uccidere un Diclonius, per un umano: per noi, ucciderci vicendevolmente era difficile, sì, ma non impossibile.
Sarebbe stato il mio ultimo regalo a Kouta, prima dell’atto estremo.
Forse così sarei riuscita a riscattare in parte la mia anima, la mia coscienza pluriomicida, e forse Kouta avrebbe finalmente potuto trascorrere una vita felice, dopo il dolore che io gli avevo inflitto non una, ma più volte: anche dopo l’assassinio di sua sorella, il fato ci aveva ricongiunto, e dove ero io, inevitabilmente c’erano dolore e sangue.
Ed ero pentita di ciò: lui non lo meritava.
- Non ti lascerò andare dopo aver ucciso mio padre! -.
Era la voce della figlia mutante del direttore.
Mi volsi e protrassi i miei vettori.
Un rumore di carne lacerata ed ossa spezzate riecheggiò tutt’attorno a me, mentre fiumi di sangue iniziavano a piovere dal cranio della creatura, aperto dai miei vettori.
Quella non sarebbe stata la mia ultima vittima: per completare il nostro sterminio, avrei dovuto uccidere altri come noi.
Ed infine, me stessa.