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Autore: Emily Doe    08/12/2009    16 recensioni
Il viaggio ha sempre tutt'altra valenza, quando si ha un luogo a cui fare ritorno.
“Hai questo.” ripeté, prevedendo che, a quelle parole, lui avrebbe estratto la bacchetta magica e si sarebbe Smaterializzato, portandola con sé.
Fu esattamente quel che fece, senza dire una parola.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
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Disclaimer: Harry Potter ed i personaggi qui citati, così come anche i luoghi, non appartengono a me, come credo sia ovvio ^^. Non scrivo questa storia a scopo di lucro – ma era ovvio anche questo. Potrei dire che i ragni contorsionisti appartengono ad un certo ostello, ma non so quanto ciò importerebbe :p.
Note: Questa è una fanfiction che è nata a, uhm, credo giugno-luglio, quando ancora il file aveva lo stranamente normale nome di “___Esperimento1” (chi conosce i nomi degli altri miei file... sa XD), ma che ho terminato solo una settimanella fa.
Non tiene conto dell'epilogo e di alcuni avvenimenti del settimo libro.
E siccome si adatta al tema e, perlomeno, è meno idiota delle altre due che ho scritto per l'iniziativa, partecipa alla Criticombola @ Criticoni, con il prompt 33, Angst.
Buona lettura :).


A colei che è moglia, amica e, purtroppo per lei, spesso sorella.






Be Back




Quando Malfoy Manor era stato attaccato, le fiamme avevano brillato alte e feroci, nel cielo notturno, senza neppure un incantesimo a mascherare la scena agli occhi di maghi e Babbani. Il Ministero non si era dato neppure la pena, nei giorni seguenti, di cancellare la memoria di quelle povere anime del tutto ignare di magia, Mangiamorte e cose simili, che ancora vagavano in quella che era una zona altrimenti deserta da mesi. Qualcuno aveva sempre sospettato che, in fondo, i Babbani avvertissero il pericolo, pur non vedendone le cause, e la distruzione di quel luogo, evidentemente, non li aveva portati a ritenerlo più sicuro, anche non sapendo perché.

Quando Malfoy Manor era stato attaccato, al suo interno non vi era più nessuno. Non fu un attacco strategico per l'eliminazione effettiva di un traditore, fu il monito – perenne – che a quello stesso traditore avrebbe sempre ricordato la propria colpa. Uno sfregio, più che altro: Lucius e Narcissa Malfoy erano stati catturati mesi prima, mentre tentavano di oltrepassare il confine, e brutalmente assassinati. Il loro unico figlio, Draco Malfoy, considerato un traditore della stessa risma, aveva deciso di intraprendere quella che aveva ritenuto una via più pericolosa, ed anche per questo l'unica che potesse sopportare; l'unica assoluzione per una colpa che prima, troppo giovane, neppure aveva mai compreso appieno.

La notte in cui Malfoy Manor fu attaccato, qualcuno si premurò di profanare e distruggere preventivamente le tombe dei due precedenti proprietari, di modo che all'attuale possessore di ciò che ormai era rovine annerite e terra bruciata, Draco Malfoy, non rimanesse più neppure un posto in cui ricordare – perché se si può ricordare sempre e comunque, si ha anche bisogno di un luogo in cui riversare quei ricordi, in quanto tenerli solo dentro fa probabilmente più male che altro.

La notte in cui Malfoy Manor fu attaccato, incendiato e raso al suolo, ombre inquietanti si erano aggirate nel buio, gettando tutto intorno pallidi riflessi, curiosi scherzi di una luminosità pacata, quando la luce della luna colpiva la superficie liscia delle loro maschere. Sopra il rombo cupo del fuoco, festeggiavano.
La notte seguente, quando le fiamme, aizzate ed alimentate da un incantesimo anti-spegnimento, si erano chetate ormai solo da pochi minuti sotto gli sforzi incrociati di una squadra di Auror, altre ombre, questa volta furtive, si erano introdotte tra le rovine fumanti, sollevando nuvoloni densi ed irrespirabili, alla ricerca di un loro compagno – in quest'occasione, e dopo i tanti anni di scuola, compagno a tutti gli effetti –, temendo che potesse esser rimasto coinvolto nel disastro, nel tentativo di difendere quelle che ormai erano solo le pallide ombre di un'esistenza passata e sbiadita.

Draco Lucius Malfoy, probabilmente in seguito ad una soffiata, era sparito dalla sede dell'Ordine della Fenice poche ore prima del macabro attacco a quella che una volta – e forse per sempre, nel bene e nel male – avrebbe chiamato 'casa'. Avevano setacciato le macerie e le ceneri da cima a fondo, ma solo quando era apparso alle loro spalle, stagliandosi contro la luce ancora incerta dell'alba, l'immagine di un corpo irriconoscibile aveva lasciato le loro menti, affievolendosi con una lentezza quasi esasperante.
Non era stato facile, non erano amici, ma l'essere compagni in una lotta che si trascinava avanti da anni significava qualcosa. Qualcosa di diverso dall'amicizia effettiva, ma qualcosa di comunque importante. Così come non era stato semplice accantonare in quegli anni gli errori del passato, gli schieramenti, i tradimenti, gli odi, così non era stato possibile accantonare il fatto che con quella persona si fosse, in un certo senso, cresciuti.

Quella mattina, lui se ne stava immobile, controluce, il viso rivolto ai suoi ricordi ridotti in polvere ancora calda, ed era impossibile leggere l'espressione dei suoi occhi.
A poco a poco, i vari membri dell'Ordine accorsi ore prima si Smaterializzarono, in segno di rispetto, di muta comprensione in quel dolore altalenante, prima duro, poi quasi morbido; prima greve, un dolore già conosciuto mesi prima, poi acuto, un dolore nuovo, la riapertura di una ferita mai suturata a dovere.
Prima di Smaterializzarsi anche lei, Hermione Granger fece qualche passo nella sua direzione, scostando con gentilezza la mano di Harry, che comprendeva fin troppo bene il bisogno di solitudine in quei momenti, e si fermò ad appena un metro da lui.

Tutto ciò che Draco Malfoy fu in grado di pensare fu che il viso della Granger era inondato di una luce pallida; fu che lei stava catalizzando su di sé, chissà come e perché, tutta la luce che aveva abbandonato quel buio, spento, triste scenario.

Quando lui mosse quasi impercettibilmente il capo, distogliendo lo sguardo da tutto il resto, osservandola brevemente in viso, i suoi occhi, pur nella penombra, sembravano avere lo stesso colore indefinito del cielo alle sue spalle: a metà tra il grigio traslucido e madreperlaceo ed una sfumatura più scura, che difficilmente aveva avuto modo di vedere. Occhi di tempesta, li aveva sempre pensati così.
Socchiuse le palpebre per la luce che le colpiva il viso, per il riverbero di tanto altro. Quando li riaprì, lui stava nuovamente sondando con gli occhi qualcosa che nessuno avrebbe potuto scorgere.

Le sembrò strano che in quel momento non piovesse.

“Torna”, fu tutto ciò che gli disse.

***


Era un pomeriggio stranamente soleggiato, quando Draco Malfoy riapparve.
All'ora di pranzo, mentre mamma Weasley, granitica nel suo voler mantenere le tradizioni nonostante il difficile momento, rendendosi conto che, in fondo, era uno dei pochi modi rimasti per rivivere una sorta di normalità, sbraitava alle spalle di una Ginny alquanto svogliata di lavare i piatti, gli uccellini ciangottavano con voci tiepide, morbide, sugli alberi circostanti, e tre ragazzi se ne stavano seduti su di un muretto scalcinato. La pietra ruvida di quell'appoggio grattava sulle loro gambe scoperte, una lieve brezza alterava appena la calura, mentre il sole di luglio non riusciva a scaldare quello che era sotto la loro pelle – e le scottature rossastre di Ron, tempestate di efelidi.
Si crogiolavano in silenzio in quell'inaspettato bel tempo – settimane di pioggia più o meno sottile avevano accompagnato le loro ultime pianificazioni -, cercando di non pensare a quella che, la notte precedente, era stata classificata dalla McGranitt e da Remus come, probabilmente, l'ultima, disperata azione di quella guerra che si trascinava da troppo tempo; evitando di parlarne.
Non si poteva certo dire che la sua figura si armonizzasse con l'ambiente, il tempo ed il luogo, né che non stonasse con quella luce inaspettatamente calda: Draco Malfoy, mantello nero perfino in quel momento, pelle nivea, capelli dai riflessi così chiari da apparire quasi bianchi, accecanti anche a distanza, era una figura classicamente inglese, classicamente invernale.
Apparve, dapprima macchiolina indistinta, sulla linea del loro orizzonte, facendosi mano a mano più vicina, e quando fu a pochi metri da loro, nonostante l'aria resa tremula dal vapore e dal caldo, Hermione riuscì a vedere, cerchiati da occhiaie profonde, quegli occhi di tempesta. Improvvisamente si sentì rilassare i muscoli, come se li avesse contratti, all'erta, una decina di giorni prima, subito dopo l'attacco finale a Malfoy Manor.
Fu con un sorriso represso che udì Ron e Harry tirare un respiro più lungo e più profondo degli altri, alla sua vista, nonostante i visi impassibili e, ogni tanto, perfino aspri. Era quasi consolante vedere come, perfino in tutto quello, alcuni punti fermi – antipatie infantili, occhiatacce, disagio a pelle per una persona di cui solo da poco avevano imparato a fidarsi – rimanessero invariati ed invariabili.
“È tornato.” Osservò Ron, innegabilmente sollevato e quasi arrabbiato in quel suo sollievo, per quell'idiota che era sparito prima e dopo quell'orribile notte a Malfoy Manor, e che li aveva fatti, no, non preoccupare – Giammai! Non l'avrebbe di certo ammesso! -, ma mobilitare tutti, come se non avessero avuto già abbastanza magagne per conto loro.
Come calamitato, come se quell'apparizione fosse indissolubilmente collegata alla persona che gli sedeva accanto, Harry si voltò ad osservarla con espressione sottile, acuta, mentre lei abbassava lo sguardo sulle proprie mani, strette l'un l'altra, e lentamente chiudeva gli occhi – ora che c'erano davvero tutti, le era possibile –, reclinando nuovamente, poi, il capo all'indietro.
È tornato.
Hermione non disse nulla.

***


La prima volta che aveva messo piede ad Azkaban, aveva sperato di non doverlo mai più fare. Inutile dire come a quella visita ne fossero seguite tante, tante altre.
La prima volta che aveva messo piede ad Azkaban, con lei c'erano Remus Lupin e la nuova recluta dell'Ordine della Fenice, Draco Malfoy, che da quella stessa prigione era uscito appena un anno prima.
Lei aveva guardato le imponenti mura claustrofobiche su cui si infrangevano le onde di un mare che ribolliva in tempesta; aveva fissato l'imponente portone – dotato di misure di sicurezza quasi insuperabili, tra meccanismi magici e maledizioni di allarme – ed aveva ricordato quando, anni ed anni prima, si era chiesta come avesse mai potuto Sirius Black evadere da quel luogo. Aveva ignorato l'ormai familiare stretta al petto, al suo ricordo, ed aveva camminato verso l'entrata – ora accessibile – di quello che ancora per poco sarebbe stato il Carcere Magico di Massima Sicurezza. Non aveva neppure fatto in tempo a sollevare lo sguardo su ciò che le si presentava davanti che, appena oltrepassata la soglia, un'onda d'urto di disperazione, dolore, rimorsi, rimpianti, malvagità e pazzia le si era infranta addosso, mozzandole il respiro, facendola vacillare tanto che, inconsciamente, allungò la mano destra nel vuoto, cercando un appiglio, sperando in un appoggio. Pur nella confusione di quel momento, la sua mente sconvolta aveva registrato con sorpresa il fatto che la sua mano non avesse incontrato solo vuoto, come si era inconsciamente aspettata, ma che avesse stretto, in una movenza che poteva apparire una debole convulsione, un mantello dalla stoffa ruvida.
Il proprietario di tale mantello le aveva afferrato il gomito, con decisione e forza, ma in un gesto che, seppur nella sua durezza, le aveva comunicato un senso di stabilità. Conscia di quel punto fermo nel vorticare confuso dei suoi pensieri, Hermione aveva battuto le palpebre una o due volte, prima di costringere la propria mano a lasciare il mantello di Draco Malfoy.
“Non abbassare la guardia, Granger.” le aveva sussurrato lui, i suoi occhi grigi scuri come solo una volta aveva potuto vederli. “I Dissennatori sono sempre in agguato.”
Non fidandosi della propria voce, né del proprio sguardo, lei si era limitata ad annuire, percependo chiaramente il distacco – una mancanza fisica, le sue ginocchia tremavano – quando lui si era scostato.
“Almeno finché non li avremo mandati via,”aveva aggiunto Remus, deciso, lo sguardo fermo davanti a sé, invitandoli a proseguire.
Quando Remus le aveva proposto una 'incursione programmata' ad Azkaban per tastare con mano la situazione di quello che, stando ai resoconti degli ultimi sopravvissuti, era divenuto, oramai, un luogo in cui la dignità umana era stata dimenticata da tempo ed in cui i Dissennatori, ormai privi del controllo di un qualsiasi Ministero, erano i padroni, Hermione si era sentita importante. Aveva sentito che finalmente, oltre a quella serie di stanche battaglie che si trascinavano giorno dopo giorno, volta dopo volta, avvicinandoli di quello che appariva un passo infinitesimale alla fine e privandoli ogni volta – o quasi – di un pezzo del loro cuore, sotto forma di persona cara che veniva a mancare, poteva fare qualcosa.
Quando Remus le aveva detto che Draco Malfoy li avrebbe accompagnati, Hermione l'aveva ritenuta una crudeltà. Malfoy era uscito un anno prima da quel luogo di disperazione, tirato fuori dalla stessa McGranitt che, memore di ciò che era successo con Piton, aveva lottato con le unghie e con i denti affinché la burocrazia di un Ministero ormai inefficiente ed inutile si decidesse a rimettere in libertà – a restituire alla vita – quello che si era rivelato essere un innocente. Un innocente che, come tanti altri, aveva trascorso mesi – anni – in quel luogo, senza aver avuto diritto ad un regolare processo, in quei giorni di tumulti e rappresaglie, di guerre e Maledizioni Senza Perdono, di sangue e polvere... troppi gli innocenti che non erano riusciti a salvare, la cui innocenza non era stata ancora dimostrata od approvata, troppi quegli innocenti che l'Ordine, indebolito dalle lotte continue, non aveva potuto liberare con la forza, temendo che il quasi inesistente controllo che veniva esercitato sui Dissennatori potesse venir meno, e che quegli esseri potessero prender piede oltre le mura di Azkaban.
Da quando la situazione era precipitata a quel modo? Da quando figli di Mangiamorte, o figli di pentiti, o parenti alla lontana di persone sospettate di chissà quali atroci delitti, venivano sbattuti in quel luogo, ritenuti colpevoli a priori, e mine vaganti per un mondo che stava comunque andando in pezzi?
Anni prima, il vecchio Ministro della Magia aveva attuato tali ingiuste incarcerazioni, e solo dopo anni di lotte intestine e non, Kingsley Shacklebolt, il probabile futuro nuovo Ministro della Magia, era riuscito a prendere in mano la situazione e, con i suoi ancora deboli mezzi, a tentare di ristabilirne un po' l'equilibrio. Hermione aveva accolto tale novità con felicità e la sensazione che finalmente si stesse facendo qualcosa, eppure non aveva potuto dimenticare le condizioni in cui Draco Malfoy era giunto alla Tana – luogo di ritrovo di gran parte dei membri dell'Ordine della Fenice -, uscito da Azkaban.

Aveva creduto che portarlo nuovamente lì fosse una crudeltà gratuita. Remus le aveva allora detto che era stato lui a proporsi in prima persona, e ad insistere perché la sua proposta fosse accettata.
Quando, quel giorno, si erano trovati tra quelle mura ricoperte d'umidità e muschio, tra i gemiti dei carcerati che di umano oramai non avevano più nulla, tra tutto il dolore che trasudava da ogni singola pietra, lo aveva osservato mentre la sorpassava, nello stretto corridoio maleodorante che conduceva alla zona in cui era stato rinchiuso anche lui, e con un brivido aveva pensato che con quella visita, con quell'ultima visita Kingsley avrebbe permesso la chiusura di quell'incubo, la fine di quella follia; aveva pensato che nessuno si sarebbe più presentato a casa sua, affamato e coperto di lividi e sangue, ridotto ad un terzo di quel che era, ma la cui mancanza più grande era quella interiore, era quella che si leggeva in quegli occhi spenti e nella mascella perennemente serrata. Nessuno avrebbe più sperato che qualcuno lo raccogliesse di strada, calpestando il proprio onore, perché non aveva più la forza fisica e mentale per bussare ad una porta e chiedere aiuto, perché nessuno avrebbe creduto che non ci sarebbe stata più speranza, nessuna speranza, nessuna mano che, nell'ombra e senza cerimonie, si tende. Nessuno sarebbe più trasalito al minimo fruscio – gli occhi ridotti a due fessure, aggressivi, eppure colmi di un terrore inesplicabile.
La sua mano non tremava, però, quando aprì la grata della cella, precedendo Remus e Hermione.

Non sapeva se avrebbe voluto fare qualcosa a quel prezzo, non in quel momento, non a lui.
Di fronte all'occupante di quella cella, sentì lo stomaco chiuso in una morsa la cui stretta irradiava dolore fino alla gola, dove un pesante groppo di non sapeva neppure cosa rendeva la respirazione un compito meno facile di quanto avesse mai pensato.
Aveva creduto che sarebbe rimasta perfettamente padrona di se stessa, che sarebbe stata in grado di occuparsi di ciò che era compito suo, aveva creduto che ci sarebbe riuscita. Aveva sbagliato. Una volta che le sbarre di metallo nero, incantato, si chiusero alle loro spalle, sentì il distacco dal suo sistema nervoso come una scintilla alla base del cranio: non riusciva a muoversi. Non riusciva a parlare, non riusciva ad interrogare il prigioniero, tutto quello che riusciva a fare era pensare a quelle cavità scure su quel viso, a quelle tracce bluastre che rendevano il contrasto con la carnagione color latte ancora più violento. Nel suo sguardo non aleggiava ancora quell'ombra di follia che catturava inesorabilmente ogni uomo destinato a trascorrere del tempo – una vita – in quel luogo.
“Hermione?”
La voce di Remus era lontana, fievole, attutita. Il sangue le rimbombava nelle orecchie in un rombo cupo, con un fruscio di sabbia di sottofondo.
La mano del suo ex professore si scostò piano dalla sua spalla, lasciandola lì, impalata, le mani strette inconsciamente a pugno, e due occhi grigi che, a sua insaputa, la scrutavano.
Quell'uomo era innocente. Quell'uomo non aveva fatto nulla, se non fuggire, in seguito alla cattura della sua famiglia – Mangiamorte accertati e dichiarati – per salvare almeno i suoi due figli, ancora bambini.
Se ne stava con gli occhi fissi in quelle due pozze scure, quando aveva sentito Remus interrogarlo, con delicatezza, ed aveva visto Malfoy irrigidire la mascella, mentre sosteneva quel poveretto, tenendolo per le spalle.
Gli occhi del prigioniero, però, erano ancora immobili nei suoi. Inconsciamente, si chiese se l'espressione di orrore che doveva aver dipinta in viso fosse vagamente simile a quella che anche lui doveva aver avuto i primi giorni, lì dentro. Inconsciamente, si chiese se costituisse qualcosa di riconoscibile.
Sotto quel livore, quella paura, mista a disperazione, ad odio, a terrore, mista a follia, la bocca del prigioniero sillabava, incerta, parole mute.
I miei bambini, continuava a ripetere, senza il minimo filo di voce, con lo sguardo fisso sul viso della ragazza, i miei bambini.
Chi gli avrebbe detto che della sua famiglia non era rimasto in vita nessuno? Chi gli avrebbe detto che, in guerra, i suoi due bambini erano morti sotto le macerie e gli incantesimi? Chi avrebbe potuto trovare qualcosa per cui potesse sperare di andare avanti, una volta uscito di lì?
Remus si passò stancamente una mano tra i radi capelli grigiastri, sul viso esangue l'espressione di chi ha visto quella scena un'infinità di volte, ma ognuna come fosse la prima. Gli occhi le facevano male, ma non riusciva a battere le palpebre, non guardando un uomo ridotto in quello stato. Era come se non potesse permettersi di perdere neppure un particolare, come se dovesse ricordare ogni neo, ogni capello, ogni graffio, perché tutto quello non dovesse più ripetersi. Con un movimento fluido, lento, delicato, la testa bionda di Malfoy si chinò fino a coprire il viso del prigioniero, così da poterlo guardare in volto. Non poté vedere le sue labbra muoversi, ma udì un mormorio basso, tranquillizzante, che suscitò nell'uomo un rantolo spezzato a metà, prima che sollevasse nuovamente lo sguardo su Remus e sussurrasse qualche risposta non del tutto sensata. Quando, un'infinità di tempo dopo – o erano passati solo cinque minuti? -, Malfoy si rialzò e si voltò, la vide con lo sguardo ancora fermo nello stesso punto di prima. In pochi passi la sorpassò, sfiorandole la spalla. Il lieve contatto con la realtà le fece battere le palpebre, tentando di snebbiare la vista, opaca, ma quando si voltò per seguire il suo ex compagno di scuola ed il suo ex professore, non poté impedirsi di sentire nuovamente quel sussurro roco, disperato.
I miei bambini.

Doveva assolutamente uscire, doveva poter respirare un'aria che non fosse densa e pesante, e colma di dolore e ricordi e ferite vecchie e nuove, come quella. Doveva andarsene lontano da lì, lontano mille miglia ed anche più, ma non poteva. Poteva solamente tornare alla Tana, a respirare la solita aria pregna di sofferenza, a guardare l'orologio di casa Weasley sperando che nessuna di quelle lancette dovesse rimanere immota per sempre.
Con quel peso sul petto, si era incamminata, in silenzio, dietro i due uomini, fino a salire sulla traballante barca che li avrebbe ricondotti sulla terraferma. Le onde sciabordavano, infrangendosi contro il loro misero scafo, sballottandoli con violenza, offrendoli senza pietà alle taglienti offese del vento. Con quelle offese negli occhi e sulle labbra secche e spaccate, l'aveva guardato dritto in volto, gli spruzzi di sale che le chiazzavano la pelle ed i vestiti.
La sfumatura cinerea che si allargava sui suoi zigomi contrastava con la calma controllata, ma non indifferente, dimostrata poco prima. Cosa doveva significare? Cosa poteva voler dire tornare all'inferno, ed uscirne una seconda volta?
Malfoy fissava il mare grigio scuro, gli occhi chiari che si tingevano di tonalità verdastre al lieve riflesso cupo sulle onde, incapace di distogliere lo sguardo dalla direzione in cui si trovava Azkaban, anche se ormai non se ne scorgeva più neppure, vago, il profilo.
“Cose come questa non accadranno più.” Gli aveva promesso, con il dolore greve delle lacrime represse, e la mano destra che tremava visibilmente.
Lui l'aveva guardata in viso, con espressione intraducibile.
“Torniamo a casa.” Era stata solo la voce di Remus a rompere quel silenzio.

***


Era sempre stata una persona molto controllata, forse anche più fisicamente che emotivamente, per questo non riusciva a capacitarsi di quel cambiamento del suo corpo, o, più che altro, delle sensazioni e delle vibrazioni che il suo corpo pareva percepire. Ogni volta che lui c'era, lei lo sentiva, e quando lui arrivava, lei sapeva esattamente in quale punto alle sue spalle avesse fatto la propria comparsa.
“Siete come due calamite,” aveva detto un giorno una Ginny particolarmente pensierosa. “Gli altri possono non accorgersene, ma voi due vi muovete e, addirittura, vi spostate bilanciando l'uno i movimenti e gli spostamenti dell'altra.”
Hermione aveva riso, ben conscia della nota di nervosismo ed inquietudine che aveva comunque vibrato in quella risata improvvisa, ed aveva liquidato il tutto con un gesto noncurante della mano.
“Ma dai, Gin, non crederai a queste sciocchezze?”
Lei l'aveva fissata dritta negli occhi, come solo Ginny Weasley – e, forse, sua madre – poteva saper fare, senza esitazioni, con fermezza e decisione, e non aveva sorriso.
“L'ha percepito anche Harry. Non l'ha capito, ma l'ha percepito.” aggiunse, mentre con un colpo di bacchetta allontanava il vecchio mantello logoro che stava rammendando – non che Remus oramai facesse più caso ad uno strappo in più o uno in meno – ed alzandosi. “Dovresti farci caso anche tu, Hermione. Stai negando troppe cose.”
Se ne era andata così come era arrivata, senza ulteriori parole a mitigare la durezza implicita di quell'affermazione, calata su di lei come un macigno, non di certo inattesa, ma nondimeno dolorosa – opprimente, quasi accusatoria.

Non riusciva davvero a spiegarsi perché il suo corpo paresse reagire agli spostamenti di Draco Malfoy, non riusciva a spiegarsi il pizzicore alla base del collo che provava ogni volta che lui le passava vicino, né il formicolio che le faceva venire la pelle d'oca sulle braccia quando, per chissà quale motivo, sempre lui si fermava per qualche istante, lì, proprio accanto a lei.
La cosa si era fatta imbarazzante la sera in cui lui le aveva sfiorato la pelle nuda della spalla con la propria, aiutandola ad aprire la pesante finestra in legno che, come tante cose, ormai, in casa Weasley, non funzionava più come avrebbe dovuto. Hermione era scattata più in là con un balzo repentino, come fosse stata scottata, ferita. Lui aveva aperto la finestra, aveva inspirato profondamente per un paio di volte, puntellandosi con le mani sul davanzale interno, prima di voltarsi verso di lei.
All'esterno la notte era scesa, ammorbidendo le stonature di un paesaggio che aveva visto fin troppi allenamenti ed esercitazioni, ed i grilli cantavano debolmente.
L'aveva colpita il fatto che nei suoi occhi non avesse letto né sorpresa, né fastidio, nulla di simile, a quel balzo improvviso, ma qualcosa di diverso, qualcosa di personale.
“Volevo prendere una boccata d'aria,” era riuscita a balbettare solo questo.
Lo sguardo di chi conosce e capisce quella reazione.
Lui aveva annuito.

***


“Devo partire.”
Era tutto iniziato da lì, da quella frase di Harry, o forse da lì tutto era proseguito, prendendo una piega differente. Ancor più disastrosa, avrebbe detto.
Tutti lo avevano guardato con gli occhi pieni di paura e dolore ed affetto; c'era chi, lo sapeva, avrebbe capito, e chi, sapeva anche questo, non l'avrebbe mai accettato.
Ginny aveva serrato la mano attorno al manico della pentola fumante che stava portando in tavola, rendendo il violento tremore che la pervadeva ancor più evidente.
“Non puoi,” la voce, sul punto di spezzarsi, contrastava violentemente con il livore del suo sguardo, armonizzandosi, però, con il colore che la paura aveva fatto svanire dal suo viso. Il liquido all'interno della pentola sciabordava, rischiando di superarne il bordo e riversarsi all'esterno. “Non puoi farmi questo.”
Harry, che fin dall'inizio non aveva osato guardarla, aveva abbassato lo sguardo sullo schienale della sedia che aveva di fronte; tutti i presenti tacevano, tesi, attorno ai due ampi tavoli sconnessi che Molly aveva sistemato in casa, sgombrando il salotto.
Devo farlo, Ginny. Lo sai.”
Non lo sapeva. O meglio, sapeva che sarebbe successo, ma avrebbe voluto che lui gliene avesse parlato prima di prendere una decisione di tale portata.
Avrebbe voluto saperlo prima, prima di riporre in lui tutte le speranze e l'amore e la sicurezza, la certezza che solo con lui avrebbe potuto essere davvero se stessa. Avrebbe voluto saperlo prima, anni prima, ma non sarebbe servito a nulla.
Aveva serrato la mandibola, lei, e senza smettere di fissarlo con quegli occhi scuri che nel viso pallido parevano due immense voragini senza fine, colme di terrore e sensazioni che tutti loro conoscevano fin troppo bene, si era avvicinata con calma al tavolo più vicino, poggiandovi la pentola che aveva tenuto in mano fino a quel momento. Poi, senza dire nient'altro, aveva raggiunto Harry e lo aveva schiaffeggiato in pieno viso, per lasciarlo lì, il capo voltato, lo sguardo vacuo puntato contro la credenza traballante che con Bill avevano dovuto aggiustare cinque volte nell'ultimo mese, e nulla che potesse bruciare come ciò che aveva nel petto. Neppure il segno rosso sulla sua guancia sinistra.
“Vedi di tornare tutto intero.” aveva mormorato, tentando di mantenere una sfumatura dura nella voce, prima di uscire di casa.
Nessuno aveva detto nulla, allora, e la cena era stata dimenticata.

***


Erano passati due mesi da quando Harry era partito per quella che appariva come una solitaria missione suicida, lasciando a Ron e Hermione il compito di prendersi cura di Ginny, di Remus e di tutti gli altri. Malfoy compreso, aveva detto.
Malfoy compreso, sue testuali parole, ed aveva guardato Hermione dritto negli occhi, serio in viso. Le era sembrato che potesse leggerle dentro, o che potesse leggere in lei molto più di quanto lei stessa potesse fare.
Li aveva così costretti a non seguirlo, a rimanere in Inghilterra a proteggere la famiglia, mentre lui affrontava chissà quali incantesimi atavici, alla ricerca di quell'ultimo Horcrux. E loro erano rimasti lì, col cuore pesante e l'animo lacerato per l'amico di una vita che non sapevano se avrebbero mai rivisto, a vegliare sugli unici affetti rimasti, a tentare di preservarli dagli attacchi dei Mangiamorte, sempre più frequenti, sempre più violenti, che mietevano sempre più vittime.
“Harry, è una pazzia,” aveva ribadito Ron, quella mattina, quando, con ancora il buio della notte ad appestare l'aria fredda, e l'umidità che si condensava sulla pelle, pesante, Harry si era infilato il mantello rattoppato.
“Ti vogliamo bene,” aveva aggiunto Hermione, prima di abbracciarlo stretto stretto, non riuscendo neppure a piangere quelle lacrime che sentiva premerle dentro, con disperazione soffocante.
Lui aveva capito, aveva capito entrambi e quella terza persona che mancava. Si era pulito gli occhiali con un lembo del mantello, come aveva sempre fatto, fin da bambino.
A Hermione si era stretto il cuore, e Ron stesso aveva distolto lo sguardo, terrorizzato, prima di stringere rapidamente Harry in un altro abbraccio, rapido, impacciato, da ragazzi.
“Ginny non è riuscita a venire,” gli avevano detto con la gola dolorante per il freddo e le emozioni represse.
“Lo so.” aveva risposto lui.
Poi si era voltato e si era incamminato verso il cancello sgangherato della Tana, lasciandoli col cuore in mille frammenti alla vista di una persona amata, una tra le più amate, che si allontanava senza alcuna certezza, sicurezza, protezione. Forse per sempre.
“Tornerò,” aveva sussurrato Harry, poco prima di andarsene.
Ron aveva stretto spasmodicamente la mano di Hermione, cercando di darle forza e di trovarla in se stesso, e, incapaci di dire null'altro, l'avevano guardato finché non era scomparso all'orizzonte.
Noi ti aspettiamo.

***


Erano passati due mesi dalla partenza di Harry, quando la Tana venne assalita in piena notte, circondata dai Mangiamorte, e bruciata sin alle fondamenta.

***


Lo sognava spesso la notte, l'incendio alla Tana.
Sognava le urla, il rombo del fuoco, i richiami di chi non capiva dove si trovasse e non capiva dove fossero gli altri. Sognava il terrore che le aveva fatto perdere più d'un palpito di cuore, mentre, avvolta nella coperta su cui stava dormendo, si era precipitata giù per le scale. Sognava la sensazione di panico profondo, quando aveva visto Ginny tentare di uscire da sotto un cumulo di macerie che, pur proteggendola dalle fiamme, la tenevano schiacciata al terreno. Sognava quel senso di morboso sollievo, quando l'aveva visto comparire dal corridoio al primo piano, con Molly alle calcagna, la fuliggine a sporcargli la pelle chiara ed il riflesso rosso delle fiamme negli occhi grigi e duri, determinati. Sognava lo sforzo drammatico di ogni singolo muscolo con cui erano riusciti a trarre Ginny in salvo.
E sognava di continuo quel colpo violento alle viscere, una lama che taglia in profondità, dal respiro a tutto il resto, quando, usciti da quella torcia gigante che era diventata la Tana, non l'aveva visto. George, Percy, Charlie ed Arthur erano andati in perlustrazione la sera, prima dell'attacco, e, una volta tornati, erano riusciti solo per pochi minuti a tenere a bada l'incendio divampato in loro assenza; Bill, Fred e Remus, dopo aver portato in salvo Fleur, Victoire, Tonks e Teddy, avevano cercato di tornare a controllare che nessuno fosse rimasto all'interno della casa, tentando nel contempo di impedirne il crollo.
Draco l'aveva bloccata, serrandole le braccia attorno al corpo senza alcun riguardo, come non poteva averne, dolorosamente, quando lei, dal suo fianco, si era allontanata in uno slancio disperato, nuovamente diretta verso le fiamme crepitanti. Anche a distanza, il calore era pressappoco insopportabile, li investiva con ferocia scottando la pelle, e le ustioni, quelle vere, di molti di loro non sarebbero guarite neppure con i migliori incantesimi.
Avrebbe sognato ancora a lungo quel suono straziante che lei stessa stentava a riconoscere come proprio, quell'urlo che lacerava il suo animo ed il suo cuore, schiacciato solamente dal rombo del fuoco, impossibile da sovrastare. Avrebbe sognato per sempre la sensazione di perdita totale, dell'impotenza e di quel dolore disperato ed abissale, quando, squassata dai singhiozzi, interminabili istanti dopo si era accasciata in terra, trattenuta ancora da quelle braccia, senza voce, incurante di ciò che le accadeva attorno.
Non poteva sognare le grida, i pianti, le lacrime degli altri, ma sognava con estrema perfezione e realismo l'odore pungente del fumo e del legno bruciato, che le aveva impregnato i polmoni per lungo tempo, e la cenere ovunque, poi, sui capelli, in bocca, sulla lingua, nell'aria, che avrebbe fatto lacrimare gli occhi a chi non fosse stato già in lacrime, ed a chi avesse ancora avuto lacrime da versare.
Non avrebbe mai smesso di sognare il senso di vuoto improvviso, quasi un'amputazione, quando si era resa conto che Ron non sarebbe tornato mai più.
Non avrebbe mai cessato di far male, non avrebbe mai potuto farlo.

***


Erano trascorsi altri due mesi, dall'attacco alla Tana, e nessuno aveva più avuto il coraggio di contare i giorni, di ricostruire qualcosa da poter chiamare casa, di leccarsi davvero le ferite. Le giornate trascorrevano tra le infinite pianificazioni, ormai quasi puramente di difesa, volte a sopperire quell'ultimo attacco alla base dei Mangiamorte che non avevano mai potuto sferrare, ed il tentativo di supportarsi a vicenda. Tentativo fallimentare, in alcuni casi.
Hermione Granger era uno di questi. La sua giornata consisteva nell'alzarsi dopo aver dormito sì e no un paio d'ore, nello svolgere i propri compiti, nel difendere quella che ormai era la sua famiglia – il suo tutto – con la stessa aggressività con cui una leonessa avrebbe difeso i propri cuccioli, e nell'assicurarsi che nessun altra parte di sé le venisse strappata via.
La perdita di Ron era stato un dolore incommensurabile, indescrivibile; mai aveva pensato di poter concepire una mancanza così profonda, una disperazione così assoluta ed intima. Mai aveva capito quanto quel dolore potesse radicarsi ancor più in profondità alla vista di semplici particolari – una vecchia spilla del C.R.E.P.A. ritrovata in fondo al baule, una sciarpa di Grifondoro ormai mezza mangiata dalle tarme, la pagina di un libro che Ron aveva barbaramente strappato per scrivervi su una battuta poco educativa, ma indubbiamente divertente, sul professor Piton, e passarla a lei e Harry – fino ad assumere dimensioni, se possibile, ancor più schiaccianti. Le sembrava che ogni respiro le costasse una fatica smisurata, che l'aria filtrasse fino ai polmoni sempre accompagnata da quel male che le attanagliava lo stomaco.
La vita per gli altri componenti della famiglia Weasley non era più semplice, ma non aveva la forza di rendersene conto, non aveva la resistenza per guardare il dolore anche nei loro visi. Spesso aveva abbracciato una Ginny in lacrime, rannicchiata nel suo letto in piena notte, quando credeva – sperava – che nessuno potesse sentirla; la abbracciava avvertendo ogni suo singulto e singhiozzo come una scarica che si propagava violentemente, per contatto, fino a lei, scuotendola nel profondo, ma non aveva mai avuto il coraggio, la resistenza di dirle nulla.
Le sembrava ingiusto, così ingiusto che le parole non potessero servire... era come essere condannati a dover ingoiare quella sofferenza e convivere con essa senza poter neppure pensare di condividerla con gli altri. Di far loro capire che si comprendeva, davvero, fino in fondo.
Le sembrava ingiusto, così ingiusto che, alla fine, se anche ciò fosse stato possibile, non sarebbe comunque servito a nulla.

Erano trascorsi altri due mesi dall'attacco che aveva distrutto la Tana, quando arrivò, tramite il contatto con l'estero che avevano in Seamus Finnigan, la notizia che Harry, partito quattro mesi prima, era scomparso.

***


Non aveva freddo, Hermione, la notte di Natale. Non sentiva nulla mentre, incurante della neve, si allontanava dal magro tacchino che Molly Weasley, con una tenacia ed una forza inimmaginabili, aveva reperito e preparato per la serata. Si era allontanata dalle facce tirate riunite lì attorno, dalla sensazione opprimente che la sua mancanza gettava su tutti loro con ancor più forza, in quel momento; aveva dovuto allontanarsi dalla malinconia di quella festa, enfatizzata dall'assenza di due parti di lei così profonde, così fondamentali.
Nessuno aveva detto nulla, nessuno percepiva quel giorno come una festa: qualcuno si limitava a smangiucchiare il tacchino, sforzandosi di provare a sorridere un vero sorriso o qualcosa di lontanamente simile, qualcun altro neppure quello. Molly Weasley sedeva in un angolo, accanto alla finestra e, contemporaneamente, al piccolo caminetto in cui ardeva un fuoco che a malapena rischiarava l'ambiente modesto, privo d'elettricità. Sedeva in quell'angolo, il viso, una volta paffuto, ora scarno ed ingrigito, e negli occhi lunghe, scure ombre che si agitavano minacciose; sedeva con le mani in mano, incurante anche lei del freddo, come se stesse aspettando qualcuno – qualcuno che non avrebbe mai più fatto ritorno, ma che doveva aspettare, foss'anche solo per il gesto di farlo –, con lo sguardo fisso sui suoi figli, su Charlie, troppo smagrito, e Fred, troppo pallido, come George gli aveva appena fatto notare, tentando di buttarla sullo scherzo e senza riuscirci. Lo sguardo vagò su Bill, che aveva portato il proprio piatto a Ginny, convincendola a mandare giù qualche boccone, e su Percy, gli occhi fissi sulle fiamme nel camino, mentre, senza prestarvi attenzione, puliva le spesse lenti degli occhiali dalla montatura d'osso che indossava da... beh, sembrava sempre.
Pareva quasi che volesse assicurarsi che tutti i suoi figli fossero lì e stessero bene, dopodiché spostò lo sguardo su Hermione, buono e colmo del dolore che solo una madre può provare, e che travolge tutto, senza speranza alcuna. Quando la ragazza intercettò quello sguardo, sentì qualcosa dentro crepitare dolorosamente, quasi scricchiolare, fino a spezzarsi, ma senza produrre quello schiocco secco che, stupidamente, si sarebbe aspettata.
Doveva uscire, e doveva farlo in quel momento, così, senza neppure afferrare uno dei mantelli gettati alla rinfusa su una delle poche sedie disponibili, senza far rumore, seguita dallo sguardo di mamma Weasley, aprì la porta e se la richiuse alle spalle.

Non aveva freddo, Hermione, mentre la neve ed il gelo le penetravano nelle consunte scarpe da ginnastica, e se ne stava in piedi, poggiata contro il muretto di mattoni che circondava l'edificio, a fissare il buio davanti a sé, senza riuscire più ad avvertire i fiocchi di neve depositarlesi sul viso ormai intirizzito. Ma lei non sentiva nulla, neppure quello, solamente il peso, conosciuto, nel petto, ed il desiderio perenne ed inestinguibile che lo riportassero indietro, che li rimandassero da lei, così che potesse almeno dirgli quanto in realtà l'avesse sempre apprezzato, così che potesse dire ad entrambi, ancora, quanto grande era il bene che voleva loro. Loro che erano la sua famiglia. L'impossibilità di quel peso rendeva sempre difficile respirare, pensava confusamente, prima di poter intuire che quello doveva essere anche un effetto del troppo freddo che, razionalmente, sapeva di dover provare.
“Così ti ammalerai,” era intervenuta quella voce bassa, graffiata, a ricordarglielo. Quella voce ed il mantello che il suo possessore le aveva drappeggiato addosso.
Il viso di Draco Malfoy era entrato nel suo campo visivo, mentre, col respiro che si condensava in nuvolette, le chiudeva il mantello sotto il mento, sfiorando la sua pelle con le dita gelide.
Questa volta non sobbalzò, ma l'avrebbe sicuramente fatto, se solo avesse potuto avvertire quel contatto e l'elettricità che, come sempre, sembrava caricarsi attorno a loro.
“Non ce la faccio.”
Non aveva neppure pensato, quelle parole erano uscite da sole. Lo guardava, disperatamente alla ricerca di capelli rossi od occhi verdi, e disperatamente alla ricerca, al contempo, di nessuna di quelle due cose. Lui aveva osservato le sue labbra muoversi impacciate, semi congelate, poi aveva sollevato lo sguardo sugli occhi di lei.
“Ce la fai.”
E, disperatamente, lei aveva continuato a cercare in quegli occhi esattamente ciò che vi aveva trovato.
“Tutto questo è troppo.” non le aveva sentite, non aveva più quasi percezione del proprio corpo, ma era certa che quelle parole fossero risultate gracchianti ed incerte. “Non posso andare avanti così, per sempre...”
“Vattene, allora,” non era durezza, quella nella sua voce, né quella nei suoi occhi, che conosceva troppo bene per non riuscire a vederli con nitidezza, nonostante il buio. “Vattene, se non credi di farcela, ma ricorda che la tua vita, il tuo futuro, va oltre questa guerra. La porterai a termine, dopodiché potrai chiudere definitivamente con tutto questo. L'hai vissuto già a sufficienza. L'importante è non perdersi.”
Lei non aveva risposto, allora, e lui le aveva premuto una mano sulla schiena, facendola voltare, conducendola nuovamente verso il tepore da cui era appena fuggita.
“Torniamo dentro,” l'aveva sospinta con una delicatezza estrema, come avesse avuto paura di romperla. “Almeno per ora.”

Quella notte stessa, parecchie ore più tardi, aveva deciso di seguire quel consiglio. Si era coperta, questa volta, ed aveva approfittato di un momento di sonno di Ginny per scendere dalla brandina e dirigersi alla porta d'ingresso. Portava con sé solo una misera borsa di tela, con dentro poche cianfrusaglie che erano ormai un pezzo di cuore, pochissimi soldi, e la bacchetta magica. Non si voltò, prima di poggiare la mano sul freddo pomello della porta: aveva troppa paura di poter vacillare. Quando, però, lo girò e tentò di aprirla, non accadde nulla: il suo movimento incontrò la resistenza di un peso, di una spinta, seppur lieve, in direzione opposta.
La sua presenza non la colpì come un pugno allo stomaco: come sempre, l'aveva avvertita fin dal principio, ma pensava – sperava – che non avrebbe fatto nulla per fermarla. O che, forse, avrebbe fatto il contrario. O magari nessuna delle due cose. La nuca le formicolava, sfiorata dal suo respiro, mentre alzava di poco il capo.
Una mano bloccava la porta: poco più sopra della sua testa, oltre la manica arrotolata di un maglione, un avambraccio dalla linea decisa, attraversato da una cicatrice nodosa, ancora rossastra, chiaramente causata da un'ustione, si tendeva senza sforzo a trattenere chiusa quella via di fuga. Senza sapere perché, si voltò.
Draco la guardò dritta negli occhi.
“Torna.”
La sua voce non mostrava traccia di tremore. L'istante successivo scostò la mano e la lasciò libera di fuggire.

***


Aveva seguito il suo consiglio, di nuovo, pensava Hermione, camminando su per lo stretto viale deserto che conduceva alla catapecchia che, da qualche tempo, usavano come base, luogo di ritrovo e di pianificazione, come tutto, insomma, e come nulla che potesse essere chiamato 'casa'. Odiava dormire lì dentro, o meglio, odiava non dormire lì dentro, detestava mangiare tra quelle mura spente, perché ogni minimo oggetto, in quel posto, perfino quello più banale – uno spazzolino vecchio, dimenticato dai precedenti proprietari – o quello più bizzarro – una pacchiana e pesante collana placcata in oro, abbandonata da chissà quale altrettanto pacchiana vecchietta, che le aveva ricordato una lite in particolare, e tanti pianti, e le faceva rimpiangere, ora, Lavanda Brown e le sue assurdità –, aveva l'incontrastabile potere di ricordarle lui, di ricordarle quella notte. Ed allora la puzza del fumo e di bruciato le invadeva le narici, la assaliva come un'onda montante, e si trovava costretta a reprimere la nausea ed a tentare, senza successi degni d'esser definiti tali, di tener sotto controllo la ferrea morsa che le chiudeva il cuore, stritolandolo, ogni singola volta. Ricordandole come, da qualche tempo a quella parte, ne fosse stata strappata via anche quella seconda parte, e se pensava anche a Harry... beh, ci pensava continuamente, giorno e notte. Era solo che quell'edificio le faceva male, più del solito.
Detestava quel posto, ed era sicura che anche lui l'avrebbe detestato: essendo vicino all'Ouse, il fiume che attraversava quella cittadina che, in un altro momento ed in altri tempi, avrebbe definito come deliziosa, l'edificio pullulava di insetti, tra cui ragni di discrete dimensioni che, nel bel mezzo della notte, si calavano a mezz'aria, contorcendosi nel vuoto senza alcun motivo apparente.
Detestava quel posto, ma era lì che doveva far ritorno, almeno fino alla fine di quella pazzia. Lo doveva a lui, a tutti gli altri, a se stessa, ed ai propri ideali.
Respirando piano, cercando di non pensare troppo a quali epiteti lui avrebbe scagliato contro quegli immondi, orridi esseri cui non si sa a cosa possano servire otto zampe e come riescano a coordinarle tutte, risaliva il viale, rischiando, un paio di volte, di scivolare sulla neve che si era ghiacciata sul marciapiede.
Quando, silenziosa, svoltò oltre il muretto di cinta, trovandosi nel minuscolo cortile che precedeva l'entrata dell'edificio, su cui troneggiava un orrido e liso zerbino che Molly aveva voluto mettere lì a tutti i costi, si bloccò, assalita da sentimenti contrastanti e del tutto inaspettati. Nel piccolo spazio innevato, in cui i frequenti passaggi di chi faceva la ronda di giorno, chi aveva il turno di notte, e chi voleva solo sgranchirsi le gambe, avevano schiacciato e sciolto la neve in una specie di stretto corridoio grigiastro, due figure erano intente ad osservare un informe agglomerato di neve, da cui spuntava, qui e lì, qualche rametto scoordinato.
“Te l'avevo detto, senza la carota per naso sembra solo un enorme, immenso vermicolo,” stava dicendo una delle due, con voce sottile.
L'altra figura, più alta, teneva in mano una pala che di sicuro aveva visto giorni migliori. Questa seconda figura rispose con un tentennamento del capo, ed un'occhiata oltre la propria spalla, dritta, diretta, senza esitazioni di sorta, verso di lei. Si chiese quando l'avesse sentita arrivare, se in quel momento, o quando, a malapena cinque secondi prima, aveva sostato, incerta, fuori del cancello, ancora dietro quel muretto. Solo in quel momento Ginny, che era rimasta rannicchiata in terra, puntellandosi sulle punte dei piedi, alzò la testa e la vide.
Voleva bene a Ginny, le voleva un bene dell'anima, e non poté credere di averle fatto quello, non in quel momento: lei sbarrò gli occhi scuri, dietro cui si agitavano e si rincorrevano pensieri, illusioni e speranze che non si voleva veder degradare allo stato di semplici illusioni, e lasciò la bocca socchiusa, la frase che stava per pronunciare interrotta sul nascere. Si alzò di scatto, così rapidamente che rischiò di perdere l'equilibrio e scivolare all'indietro, e le si lanciò addosso. Se avesse tirato fuori la bacchetta, Hermione avrebbe temuto una fattura Orcovolante.
Si ritrovò, invece, ad abbracciare a sua volta l'amica, con la foga di chi si è ritrovato e non può, non vuole più perdersi, con le sopracciglia aggrottate per l'espressione di dolore senza fine che aveva visto negli occhi di Ginny, e lo sguardo fisso, inconsciamente, sul ragazzo con la pala in mano.
“Non farlo mai più,” ringhiò Ginny, contraddittoria, tra le lacrime. “Non andartene anche tu.”
Hermione vide riflesse quelle stesse parole, con una luce differente, negli occhi madreperlacei di Draco Malfoy.
“Sono tornata,” si sentì rispondere, sapendo di aver diretto quelle due parole, colme di significato, ad entrambe le persone.
Quando Ginny si scostò, si asciugò gli occhi, in realtà asciutti, ma terribilmente arrossati. Chissà quante notti aveva passato insonne, senza suo fratello, senza Harry, senza la sua migliore amica, a scrutare quello stesso viale, in cerca del minimo accenno di movimento. Hermione si sentì stringere il petto, e, in un gesto per lei raro, specie in quel periodo, le diede un goffo buffetto sulla guancia.
“... Molly?”
“È in città con papà e Charlie,” aveva risposto Ginny, giocherellando con un ramoscello che teneva tra le dita. “Sarà contenta di rivederti, Hermione, lo siamo tutti. Non immagini neppure quanto.”
E, senza aggiungere altro, si era allontanata verso il cumulo di neve su cui erano concentrati prima che l'amica scomparsa ricomparisse dal nulla, sfuggendo al suo sguardo che, ne era sicura, capiva molto più di quanto quegli occhi gonfi ed arrossati potessero mostrare.
Hermione era rimasta lì, in piedi, accanto a Malfoy, percependo con assurda chiarezza il calore emanato dal corpo di lui, anche a distanza. Una sensazione sconosciuta le si agitava in fondo al petto, ed il desiderio di toccarlo, per avvertire più direttamente quel calore, fu difficile da reprimere.
“Grazie per esserti preso cura di lei.”
Lui non rispose a quel sussurro, com'era tipico della sua scarsa eloquenza, piuttosto le indicò, ondeggiando la pala nella direzione di quell'oggetto non bene identificato, l'enorme, immenso vermicolo informe, in cui Ginny stava conficcando un ramoscello, tentando di farlo passare per un braccio. Il secondo avrebbero dovuto recuperarlo più tardi.
“È un pupazzo di neve,” chiarì, con espressione seria.
A quella vista, alla vista di quel ragazzo pallido e dagli occhi cupi, e di quella ragazza minuta, così piccola di fronte a tutto quello, che ostentava continuamente una forza che forse non aveva più, accanto a quell'indubbiamente orribile pupazzo di neve che nulla aveva del pupazzo, e, forse, solo tutto della neve, sentì qualcosa pizzicarle alla base della gola, dove il respiro faticava a passare. Se avesse potuto piangere, l'avrebbe fatto.
“Gli manca il naso,” gli aveva fatto notare. “Non può esserci nessun pupazzo di neve, senza naso.”

***


Ginny non piangeva più, la notte. Hermione si svegliava, si voltava verso la brandina accanto alla sua, e sapeva che se avesse avuto uno specchio, lì a fianco, questo non avrebbe potuto restituirle uno sguardo, un'espressione così uguale alla sua. Ginny non piangeva più per suo fratello, rannicchiata sulle coperte, perché di lacrime non credeva più di averne, proprio come Hermione. Ginny non aveva pianto per Harry, perché il dolore colpisce ed infierisce, piega e spezza, e Ginny si piegava, continuamente, senza mai arrivare a quel punto di definitiva rottura che Hermione sentiva vicino.
Quel continuo piegarsi e mai concedersi la rottura forse l'avrebbe distrutta più dello spezzarsi in sé, pensava Hermione, mentre fissava le occhiaie nere sotto gli occhi dell'amica, i capelli opachi e le labbra quasi livide.
Ogni notte, Ginny, senza piangere, si voltava verso Hermione, si fissavano per qualche istante e, come per un tacito accordo, si distendevano nuovamente, consce che entrambe avrebbero fissato il soffitto fino al sorgere del sole, finché i primi raggi di quella pallida, nebulosa luce si sarebbero insinuati tra le tavole di legno che coprivano le finestre senza vetri, dando loro la scusa per alzarsi nuovamente, sperando in qualcosa che occupasse almeno in parte le loro menti, o nell'impossibile.

Due settimane dopo l'arrivo di quella notizia, Hermione e Ginny erano in cucina a lavare i pochi piatti integri che avevano a disposizione, mentre Draco Malfoy vegliava su di loro, come aveva cominciato a fare da mesi e mesi a quella parte, con le spalle poggiate contro il muro, accanto alla finestra. A volte, visto che per lui era diventata una cosa abituale, teneva gli occhi chiusi, concentrandosi al massimo ed oltre il limite sui rumori della casa Babbana sperduta nei sobborghi di York che avevano occupato, e su quelli provenienti dall'esterno. Altre volte teneva gli occhi aperti, imperscrutabili e cupi, fissi su di Hermione.
Entrambe le ragazze lo sapevano, nessuna di loro due aveva fatto cenno di averlo notato. Per Hermione era quasi un sollievo quella sensazione perenne che scivolava su di lei, dal viso alle spalle, alle gambe, ai piedi; era quasi un sollievo avvertire qualcosa di così costante. Ovunque fosse Malfoy, in qualsiasi momento della giornata, qualsiasi cosa lei stesse facendo, sapeva che, di lì a pochi minuti, l'avrebbe intravisto, i pallidi capelli tagliati in maniera irregolare sul collo, appoggiato a qualche muro, seduto accanto a lei, o semplicemente a camminarle accanto, senza neppure sfiorarla. Ma con gli occhi o il pensiero fissi su di lei.

Erano tutti e tre in quella cucina, quando l'impossibile avvenne. Ginny stava sistemando i piatti appena asciugati, abbastanza rumorosamente, colmando il silenzio tra sé e le altre due persone presenti, quando d'un tratto Malfoy distolse lo sguardo da Hermione, tendendosi come una corda, alzandosi di scatto dalla sedia ed avvicinandosi alla finestra. Hermione aveva smesso di strofinare la padella con cui stava litigando da cinque minuti buoni, sporgendosi lievemente all'indietro, attirata dal movimento che aveva avvertito con la coda dell'occhio, e dall'improvvisa sensazione di mancanza di quel qualcosa che, ormai, era divenuto la sua costante.
Aveva visto Draco irrigidirsi, serrando la mano attorno alla bacchetta magica, che portavano tutti sempre con sé, ed improvvisamente rilassare i muscoli. Poteva vedere il suo profilo, illuminato dai deboli riflessi dei giochi di luce che gli ultimi raggi di sole producevano sull'unica finestra dotata di vetri della casa, e quando vide quell'espressione di innegabile sollievo passare nei suoi occhi, gli corse accanto, con la padella sgocciolante ancora in mano ed il cuore in gola.
Sembrò un'eternità, quella che intercorse tra l'aver visto la sua figura zoppicante al di là del muretto di cinta e l'averla riconosciuta. Fu come se il sangue avesse interrotto il proprio corso all'interno del suo corpo, e poi l'avesse ripreso tutto insieme, invadendole il cuore, le mani, il viso, violentemente.
Non li sorprese il rumore di vetri infranti alle loro spalle, non ebbero bisogno di voltarsi per vedere a cosa fosse dovuto; una manciata di secondi dopo, nel loro campo visivo apparve una minuta figura che, in un turbinio di capelli rossi, correva all'impazzata verso il ragazzo oltre il muretto di cinta, che ora aveva alzato lo sguardo.
Non c'era la necessità di poter fisicamente vedere l'espressione di Ginny quando, dopo aver bruscamente lasciato cadere in terra il bicchiere che stava asciugando, spargendone i frammenti taglienti nell'attimo di un palpito di cuore, lo stesso che l'aveva separata da quella corsa disperata, si gettò tra le braccia di Harry. Lo videro stringerla a sé, facendola apparire minuscola, rispetto a lui.
Draco non disse nulla, espirò lievemente e si voltò, dando le spalle a quella scena, sfiorando impercettibilmente il braccio di Hermione. Lei aveva lo sguardo fisso su quelle due figure, fisso sul viso del suo amico, e le mani le tremavano mentre, spasmodicamente, serrava le dita attorno alla padella che non avrebbe mai finito di pulire.
In un baleno, avvertì la necessità di voltarsi verso Malfoy.
È tornato, sentiva il cuore scoppiarle, ma quelle parole non riuscì mai a dirle.
“Va' da lui,” rispose Draco a quel silenzio carico di significati, e di gioia, e di sollievo indicibile.
Hermione lasciò cadere la padella a far compagnia alle schegge di vetro, poi corse anche lei alla porta e si lanciò, senza fiato, verso Harry, verso quel suo sorriso terrorizzato, addolorato, stremato, e vivo.
Ma prima di uscire, con la mano insaponata e bagnata aveva sfiorato quella di lui, che ancora stringeva la bacchetta magica.

***


Quando Harry aveva fatto, inaspettatamente e miracolosamente, ritorno, aveva subito capito che qualcosa, in sua assenza, non era andato per il verso giusto. L'aveva capito dagli sguardi di Ginny e di Hermione, le prime persone che aveva rivisto, e l'aveva capito per un assurdo sesto senso, nello stesso istante in cui le aveva abbracciate. Non era il fatto che Ron non fosse lì a salutarlo, era semplicemente il sentire qualcosa di diverso. Stringendo tra le braccia entrambe le ragazze, incapace di parlare aveva guardato Hermione, che continuava a fissarlo come se non riuscisse a capacitarsi di riaverlo, come se dovesse svanire nel nulla da un momento all'altro, e nei suoi occhi aveva avuto la conferma che temeva.
La strinse ancor più forte a sé, chinando il capo contro le loro teste arruffate, nascondendo il viso tra i loro capelli. Continuò a stringerle così forte, tra i singhiozzi di Ginny ed il tremore di Hermione, e così a lungo, che quest'ultima temette che uno di loro due, lei per la tensione e quella gioia dolorosa, quel dolore sempre latente, lui per lo sforzo, la fatica, il trattenere tutte le emozioni che gli si agitavano dentro, si sarebbe spezzato.

Quando, pochi o forse troppi minuti dopo, Harry si era trovato di fronte al resto della famiglia, nessuno aveva parlato di Ron, ma tra gli abbracci e le pacche ed i baci umidi di lacrime di mamma Weasley, nessuno aveva avuto bisogno di guardarlo negli occhi per vedere quanto la perdita di quello che era per lui un fratello, più che un amico, ne avesse ulteriormente incupito lo sguardo.

“Voldemort è morto,” aveva esordito così, la tensione che si irradiava palpabile dalle sue membra tese, dai muscoli contratti, dall'espressione del viso immobile, fissa in quello sguardo a cui si mischiava una lunga, cupa ombra che solo il Prescelto, solo l'unico che avrebbe potuto sconfiggere Lord Voldemort poteva comprendere. Solo colui che aveva visto dolore, e morte, e sofferenza, e perdite, fin dai suoi primissimi mesi di vita. “Questa volta non tornerà.”
Sotto la gioia feroce, quasi animalesca che si era impossessata dei presenti, vibrava, potente ed incancellabile, la tristezza profonda che si agitava nel profondo dei loro cuori, per Ron, per gli altri, per quegli anni perduti, per la memoria di quegli orrori, per tutto il resto, semplicemente per la Guerra. La tristezza che si rifletteva, amplificata, negli occhi bui, troppo consapevoli, troppo vissuti, di Harry Potter.
Qualcuno si era accasciato, tra le risate e le lacrime, sul pavimento sporco, qualcun altro aveva afferrato la persona a lui più vicino, soffocandola in un abbraccio cameratesco, fraterno; Ginny aveva baciato a lungo Harry, prima di andargli a prendere almeno un bicchiere d'acqua, o qualcosa da mettere sotto i denti, con una nuova decisione sul viso, ma solamente Hermione era rimasta lì a fissarlo. Hermione e, dietro di lei, come un'ombra che la seguiva e vegliava sui suoi spostamenti, Draco Malfoy.
Non passò alcuna parola, tra loro, alcun sorriso: sapevano quello che ciò significava, sapevano che questo avrebbe sancito la fine di un'epoca, ma non quella del dolore della perdita delle persone amate. Hermione fissava il suo migliore amico, profondamente, intimamente spaventata dalle verità che, da quel suo sguardo che appariva oramai quasi millenario, poteva solamente intuire; terrorizzata dal peso che Harry aveva sulle spalle, e che avrebbe potuto schiacciarlo in un soffio.
“Sono qui, Harry.”
A quelle parole, alla conferma che i suoi punti fissi c'erano ancora, Harry aveva battuto le palpebre, con lentezza, un'unica volta. Alla concretezza della voce di Hermione, ed alla verità delle sue parole, alla consapevolezza che qualcosa per cui vivere c'era, nonostante tutto, Harry aveva allora allungato una mano, tendendo il braccio, sfiorandole la fronte, poco prima di annuire, trasformando quel tocco ruvido in una breve carezza.
Con la bocca impastata dalle troppe emozioni, Hermione si domandò quando sarebbero stati nuovamente capaci di sorridere.

“La guerra è finita,” aveva detto qualcuno, dando voce ad una verità che appariva ancora impossibile, con tono incredulo, rotto per la troppa tensione delle mille note e sfumature che avrebbe potuto assumere.
Malfoy, con gesti quasi febbricitanti, aveva afferrato il mantello ed era uscito di casa, allontanandosi da quei festeggiamenti goffi e grotteschi, sperando di potersi allontanare anche dal sollievo che lui stesso provava.

***


Quando lo trovò, era seduto sul retro della catapecchia, i gomiti mollemente poggiati sulle ginocchia, gli avambracci tesi nella penombra della serata che spuntavano da sotto il mantello. L'unica luce che rischiarava di poco l'ambiente era quella della luna che, coperta a tratti da nubi passeggere, andava e veniva, fioca e fredda. Teneva il collo piegato ed il capo chino, e quando gli si avvicinò, appoggiando le spalle sul muro dell'edificio, accanto a lui, si scoprì sul punto di tendere una mano per sfiorargli, per chissà quale assurdo motivo, la pelle del collo, lì all'attaccatura dei capelli.
Non lo fece.
“Dovresti tornare dentro.”
Non si era mosso di un millimetro, e la sua voce, per la posizione e forse per qualcos'altro, era soffocata, come attutita. Non la sorprendeva più il fatto che potesse riconoscerla senza sforzo alcuno, anzi, la riteneva una cosa quasi rassicurante: era come sentirsi ripetere, più volte al giorno, che si era davvero lì, che non ci si limitava a camminare e pianificare azioni di guerra e chissà quali altri orrori cui erano stati costretti negli ultimi mesi.
“Abbiamo lottato per tutto questo,” gli aveva risposto.
“Non tornerai là dentro, vero?”
“Non senza di te.”
Solo in quel momento Draco Malfoy aveva ruotato appena la testa, facendo così in modo di poterla osservare con un occhio. Le ciglia si piegavano in una linea morbida su quel grigio, ed anche se non poteva vederlo in viso, Hermione era sicura che stesse sorridendo amaramente. Un sorriso di quelli tirati, che stanno lì quasi per difesa.
“Ho lottato per questo, ed ora non mi resta nulla.”
Era vero. Lo era per tutti, per alcuni più che per altri. Hermione lo capiva benissimo, capiva la sensazione dell'aver lottato con tutte le proprie forze per un periodo di tempo che era apparso infinito, e che non sarebbe mai stato troppo breve, e ritrovarsi alla fine a chiedersi cosa fosse rimasto, di tutto quello. Avevano lottato quella guerra, avevano lottato per la fine di quella guerra, avevano quasi annullato se stessi in quello sforzo, ed ora, a guardarsi attorno e non vedere le persone che c'erano sempre state, sembrava di aver perso quello scopo ultimo, lo stesso che li aveva spinti a tirare avanti.
Sapeva cosa provasse Malfoy al pensiero dei genitori morti in guerra, delle loro tombe profanate, perché era la stessa identica emozione che ghermiva lei quando si voltava, ed al suo fianco non trovava più Ron. Quando pensava ai suoi genitori, confinati in Australia, che al momento neppure sapevano di avere una figlia che rischiava la vita continuamente. Quando pensava al futuro e non sapeva immaginarne uno senza qualcuno che sbuffasse al suo metter mano ad un libro di almeno duemila pagine.
Non sapeva come poter superare quella cosa, non sapeva neppure se fosse davvero superabile, sentiva solamente che non avrebbe lasciato la presa, non ora, che avrebbe stretto i denti, anche senza sapere perché. Forse per abitudine, forse per timore, per combattere la stanchezza infinita che si era impossessata di lei, forse per riprendersi con rabbia e prepotenza quel che le era stato strappato, sapendo che non tutto – non tutti – avrebbero fatto ritorno.
“Hai questo,” gli occhi erano ancora asciutti, ma bruciavano come non mai, e la sua voce sembrava il ringhio ferale di un animale messo alle strette. “Hai l'adesso.”
La sua mano, dotata di volontà propria, era nuovamente scivolata verso di lui, verso il suo viso. Questa volta non la fermò, e non sussultò quando, con la punta delle dita, avvertì il calore della pelle, liscia e morbida, prima ancora di toccarla.
Come se quel contatto minimo, in contrasto con la carica che tremava in quella voce, fosse stato l'elemento scatenante di un qualcosa latente da molto, troppo tempo, in un movimento improvviso, brusco, calcolato male, lui si rialzò precipitosamente, finendole quasi addosso. Il suo viso, chino, era troppo vicino, i suoi occhi troppo scuri. Il non poterlo toccare era un dolore sordo che le ghermiva le viscere, rimescolandole senza tregua.
“Hai questo.” ripeté, prevedendo che, a quelle parole, lui avrebbe estratto la bacchetta magica e si sarebbe Smaterializzato, portandola con sé.
Fu esattamente quel che fece, senza dire una parola.

***


Le voci dalla cucina, mai troppo lontana in quel minuscolo appartamento, si udivano abbastanza chiaramente da poter distinguere ogni parola ed il proprietario di ogni risata, ma non le importava. Non le importava di chi sarebbe potuto passare di lì, era come se avesse saputo che nessuno avrebbe tentato di entrare, ed il misero incantesimo di protezione che Draco lanciò sulla porta, prima di gettare la bacchetta in terra, scagliandola lontano, come qualcosa con cui non si vuole avere ulteriormente a che fare, le parve sufficiente. Lo era: tutto ciò che importava era la stanza buia, la stessa che aveva condiviso con Ginny e Molly e Tonks, da quando avevano dovuto abbandonare le macerie fumanti della Tana, la stessa dove si trovava la sua brandina molle e cigolante. Tutto ciò che importava erano le mura grigiastre che la chiudevano al suo interno con lui.
Probabilmente in un altro momento, in un altro periodo, in quella che appariva ormai come un'altra vita, avrebbe avuto sincera paura di quegli occhi scuri, bui, in cui ardeva qualcosa senza controllo. Ma sarebbe stato un altro momento, un altro periodo, un'altra vita, e non era quella che stava vivendo.
Senza sapere – né interessandole – come fosse finita addosso a lui, gli puntò la bacchetta contro, e lacerò il mantello e la maglietta che indossava, facendoglieli poi scivolare dalle spalle, in terra. Trattenne bruscamente il respiro, inspirando con forza.

Nessuno aveva mai saputo cosa avesse fatto la notte in cui Malfoy Manor cessò di esistere.

“Come...”
Non riuscì a terminare la frase, il respiro le si spezzò in gola, privo di ogni volontà. Le parole non erano mai sembrate così difficili, così dure, così inutili, davanti a quegli occhi adombrati, ed alle sue dita che scivolavano piano sul cordone rossastro di quella cicatrice ancora fresca.
L'aveva guardata senza alcun pensiero coerente dietro quello sguardo smarrito; aveva seguito la linea scura da dove la pelle era stata lacerata, ustionata, fino a dove si appianava nuovamente in maniera naturale, riprendendo l'aspetto liscio e sano.
Lui le prese il polso con fermezza, ma senza forza, costringendola ad abbassare la mano di poco.
“Non importa.” le rispose, chinando appena il viso.
Non aveva mai saputo cosa avesse potuto significare baciarlo, quali reazioni ciò avrebbe innescato nel suo corpo e nella sua mente, quali immagini sarebbero scaturite da quel contatto, ma non poteva certo dire di non averci mai pensato. Ginny aveva ragione.
Non ne scaturì alcuna immagine, solamente un richiamo primordiale, una spinta all'abbandono, più forte di qualsiasi altra cosa, nel buio di quella stanza, tra i battiti accelerati di quei due cuori.
Lui aumentò la pressione su quel polso sottile, costringendolo inesorabilmente a scendere verso il basso, ancora di più, finché la sentì sussultare appena in un gemito roco di sorpresa, interrompendo il contatto tra le loro labbra. Una sorpresa differente da quella conosciuta, una sorpresa che si sapeva, si aspettava, finché si scopriva che viverla era davvero tutto e niente di ciò che ci si era aspettati; quel dolore al basso ventre ed alla base della gola, quel desiderio di abbandono e la progressiva, totale perdita di razionalità.
Si lasciò cadere all'indietro sulla brandina cigolante, trascinandola con sé, stretta in quella che poteva apparire più come una morsa che come un abbraccio, fissandola in viso, per non lasciarsi sfuggire la minima luce, la minima ombra, la minima piega che quelle labbra avrebbero assunto.
Senza pronunciare una singola sillaba, lei lo spinse giù con una mano, aperta sulla sua cicatrice bollente. Lui l'aveva guardata senza espressione, con ombre scure che danzavano negli occhi chiari e parevano riflettersi sulle pareti della stanza, la mandibola serrata e le dita strette con forza, ora, sul suo avambraccio. Hermione fece evanescere i propri vestiti con un gemito di rabbia, per poi chinarsi nuovamente sulle labbra di lui. Non era un bacio tenero, non c'era nulla di tenero, o dolce, o romantico, in quello; c'era la rabbia, la frustrazione, il bisogno, la necessità, e tutto quel dolore. Paura di quel tutto quando gli morse il labbro inferiore, avvertendo solo qualche secondo dopo il sapore ferroso del sangue, quando lui rispose con foga al bacio, mescolando sangue e saliva, bloccandole, impedendole il respiro per quella che parve un'infinità troppo breve; rabbia quando si impossessò della sensazione della pelle nuda contro la pelle nuda; bisogno, quando si spinse più giù, raddrizzando la schiena per poterlo guardare negli occhi.
“Ti farò male,” la cupa nota che, nell'eccitazione, raschiava la sua voce, non era aggressività, era quasi timore.
“Non mi importa.”
Lui si avvinghiò a lei, stringendola con le braccia, senza misurare la propria forza, contro il petto.
Non le importava davvero.

Non disse mai cosa avesse fatto la notte in cui Malfoy Manor cessò di esistere, neppure a lei.

***


“Questa sarà la nostra ultima azione,” la voce di Remus sembrava provenire da lontano, troppo vecchia per poter essere davvero quella di un uomo di quell'età. Troppo stanca. “Questa volta sarà facile, sono rimasti in pochi.” Li aveva guardati tutti, e sul suo viso, tra quelle cicatrici, avevano colto benissimo l'angoscia che sottoporli a quell'ultima battaglia doveva causargli. “Poi potremo tornare a casa.”

Nessuno volle chiedersi a quale casa avrebbero fatto ritorno, preferirono concentrarsi sull'idea di poter mettere in atto quell'ultima azione che avevano progettato per anni, da prima che Voldemort fosse sconfitto. Sarebbe stato come sconfiggerlo davvero, definitivamente e per sempre; sarebbe stato semplice, rispetto a quello cui erano abituati, catturare quell'ultimo gruppetto sparuto di Mangiamorte, ormai sul punto di crollare, privi di forze, di direttive, di sostegno.
Ma la stessa paura montava in ogni cuore, la paura di perdere proprio in quello un'altra persona amata. Inarrestabile ed inesauribile, il terrore di spezzarsi proprio sulla fine piegava ognuno di loro.

Quando ebbe dato le spalle all'Ordine riunito e fu uscita dalla cucina, rifugiandosi nella misera stanzetta dove si trovava la sua brandina, lo trovò già lì ad attenderla. Lo guardò senza dire nulla, sapendo di poter leggere in quegli occhi esattamente quel che poteva leggere lui nei suoi, e d'un tratto fu incapace di concepire altro che non fosse il suo corpo, poco distante.
Incapace di concepire altro, oltre il bruciore improvviso del respiro interrotto bruscamente a metà, quando la sua mano, dura, esigente, si posò senza delicatezza sul suo fianco. Il suono che produsse l'aria, sfuggendole dalle labbra, fu qualcosa di strano, a metà tra un rantolo ed un ansito, e l'avrebbe fatta arrossire, se solo fosse stata padrona di sé. Ma era padrona solo degli occhi, fissi su quelle labbra troppo chiare, su cui la macchia scarlatta di quella notte, di quel primo, violento bacio, risaltava con violenza, nel ricordo, quasi fosse ancora lì.
Era padrona solo delle proprie labbra, quando, tremante, si spinse contro di lui.
“Portami via.” sussurrò.
Niente sarebbe mai più potuto essere come tornare a casa.
“Quando tutto questo sarà finito, portami via.”

***


All'alba della fine della guerra, la stessa mattina della notte di quell'ultima battaglia, i primi timidi raggi di sole di un tiepido aprile si riversavano, morbidi, su quella pietra e su quel mucchietto di fiori di campo; su quella pagina strappata da chissà quale libro ingiallito, secoli prima, dove un incantesimo aveva reso indelebile, immutabile dal tempo, l'inchiostro che in quella grafia disordinata e piccola aveva tracciato quella battuta poco edificante, ma indubbiamente divertente.
Aveva guardato la tomba di Ron, questa volta con le lacrime agli occhi, con tutte le lacrime che erano prepotentemente tornate a farsi sentire, a reclamare il proprio diritto d'essere, dopo tanto tempo. Aveva sorriso scioccamente, poi, quando un refolo aveva fatto volare via quella stessa pagina strappata, facendola sparire all'orizzonte, contro un cielo del colore dei suoi occhi, come li avrebbe sempre ricordati.
Nascose per un momento il viso tra le mani, infine si alzò e si asciugò senza molta cura le guance umide.
“Siamo tornati tutti, Ron,” non credeva che sarebbe mai riuscita a dirlo ad alta voce, non ora che dirlo non sembrava avere più alcuna importanza. “È tornata anche la pace.”
Poi, inspiegabilmente, aveva sorriso di nuovo, questa volta davvero, dal profondo, un sorriso che, seppur nella sua acuta sensazione di dolorosa mancanza, si estendeva anche a quelle lacrime ed agli occhi arrossati. Lui l'aveva sempre fatto.
“Ma tu ci manchi ancora,” non era così sciocco sorridere, ora. “Ci manchi sempre.”
E con un ultimo sguardo carico d'affetto e di rimpianto, si allontanò in direzione della figura bionda che la aspettava non troppo lontano.

***


Nessuno all'Ordine della Fenice seppe mai che fine avessero fatto; nessuno, tranne gli amici più stretti, ebbe più notizia di loro.
La notte in cui Voldemort fu definitivamente sconfitto ed i suoi ultimi seguaci finalmente trascinati in catene in quella che mai più sarebbe stata una nuova Azkaban, Hermione Granger e Draco Malfoy scomparvero nel nulla.
Non tornarono più.








Fine











Note: Tutti gli “aveva detto / aveva aggiunto / aveva mormorato” e via dicendo nel discorso tra Ron, Hermione e Harry, poco prima che Harry parta alla ricerca dell'ultimo Horcrux, sono voluti :)

Sono un MOSTRO. Come ho POTUTO, Ron! *piange disperata da sola* Contrariamente a quanto possa sembrare (specie dal fatto che scrivo spesso D/Hr XD), adoro Ron (con tutti i difetti e via dicendo... lo so, sono una su diecimila XD''), mentre non amo Draco XD... forse è per questo che la moglia è stata fatta felice, questa volta (donna, ho provato ad inserire quello scalino, ma sarebbe stato davvero troppo indegno <.< XD'' ed ora avrai anche capito perché ho puntato i piedi, soffrendo per il mio voler postare quel giorno, perché ci fossi anche tu :p sono scema, I know :lol:). Sigh. Con Ron sono cattiva. Molto più cattiva, in genere. E va beh, che ci volete fare... temo d'aver sempre saputo di avere un animo più angst che altro XD.

Non c'è altro da dire, se non che ci tengo, ancora, a ringraziare chi ha letto, preferito e/o recensito le mie storielle :). Grazie a chiunque, inoltre, vorrà lasciar segno del proprio passaggio qui, ed a chi, coraggiosamente, è giunto alla fine di questa one-shot non molto breve ^^ (nessuno, temo XD).
Poiché non so se posterò altro prima della fine dell'anno, metto le mani avanti ed auguro a tutti Buon Natale in anticipo e un buon inizio di 2010 ancor più in anticipo XD. Mettiamola così: meglio in anticipo che in ritardo *fischietta* :).
*agguanta capretta e balla di fieno, e sparisce nel nulla*
Emy
   
 
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