Alfred
non aveva mai tenuto qualcuno così in considerazione; solo
se
stesso, se stesso e poi sì, ancora se stesso. Alfred
guardava solo
ogni tanto in direzione di qualcun altro, la solita persona, ne era
ossessionato da sempre. Arthur era un misto di isterismo, sarcasmo e
di meraviglioso isolamento che non aveva bisogno di inutili legami
e di conseguenza non ne pagava le spese. Arthur sorrideva alle
persone in modo pacato e controllato, non era mai veramente sincero
né troppo propenso a farlo. Da quel che Alfred ricordava,
Arthur
aveva sempre finto coi suoi sorrisi, in un modo o nell'altro.
Talvolta
celava un po' della sua malinconia, talvolta un po' del suo rancore.
Quando Arthur sorrideva col cuore – e lo faceva veramente
–
invece sembrava emanare una specie di carica di luce. Alfred non era
tipo da ammetterlo, lui era luminoso e limpido come un eroe, ma
faceva fatica a non notarlo. Gli occhi di Arthur sembravano diventare
trasparenti da rendere possibile leggergli fin dentro il cuore, le
gote si arrossavano leggermente; Arthur mostrava una fila di denti
bianchi e dritti che terminava con due fossette sulle guance.
Alfred
si passò una mano sul viso. Stava diventando davvero stupido
come
Arthur sosteneva da secoli.
Teneva
quell'hamburger in mano da almeno un'ora e ancora non l'aveva finito.
Stava diventando anche vecchio come lui probabilmente, se dimenticava
una cosa importante come mangiare.
Kirkland,
il maggiore tra i baluardi che aveva dovuto oltrepassare per avere la
sua Indipendenza. Gli era sembrato grande e poi piccolo, adesso
Arthur oscillava. Gran parte delle Nazioni temeva quel sorriso, la
metà di esse, probabilmente, era passate o era tutt'ora
dei suoi
domini. Alfred però poteva vedere un sacco di incrinature
nell'espressione di Arthur, anche in quella che poteva sembrare
più
cristallina: c'erano il dolore, il rimpianto, il rancore, il rimorso.
Erano tutte emozioni negative, non si stupiva più di tanto,
ormai,
quando l'inglese gli parlava di magia nera come se si fosse trattato
del tempo.
Arthur
ubriaco, poi, era qualcuno che davvero non avrebbe mai voluto
conoscere. A parte il fatto che – diamine – temeva
gli saltasse
addosso da un momento all'altro con intenti tutt'altro che
affettuosi. A volte pensava volesse solo abbracciarlo e magari
infilagli le mani dove non dovevano essere infilate; altre temeva
davvero per la propria incolumità: Arthur blaterava qualcosa
riguardo alle grandi Nazioni, al potere, poi nel discorso – e
non
si sapeva come – ci infilava sempre i fratelli e
l'Indipendenza e
alla fine sventolava il suo Scotch, agitando la bottiglia con
particolare enfasi proprio nei pressi della testa di Alfred.
Arthur
ubriaco non era una bella visione. E caricarselo in spalla e portarlo
a casa non era affatto una bella esperienza.
Alfred
si alzò, un po' di salsa gli era finita sui pantaloni
macchiandoli
di rosso. Ma tanto il ketchup gli piaceva, sarebbe bastato leccarli
mentre nessuno guardava. O più semplicemente mentre era
Arthur a non
guardare: quando si trattava di buone maniere e di ex-fratelli che
andavano alla bene e meglio contro ogni forma di galateo, Arthur
andava in escandescenza e diventava una sorta di pericolo mortale.
Alfred giurava anche di aver anche visto del fumo che gli usciva
orecchie, una volta.
Alfred
percorse metà del corridoio ridacchiando tra sé,
pensare ad Arthur
inserito nelle situazioni più ridicole era davvero
esilarante. Non
sembrò nemmeno far caso agli addobbi appesi alle pareti, a
Toris che
reggeva la scala di Feliks e che indugiava un po' troppo con gli
occhi sotto la sua gonnellina. Ludwig, con una ghirlanda in testa e
Feliciano appeso a un braccio, pensò che evidentemente era
troppo
preso da se stesso per badarci.
Continuò
a camminare e ridere, nella mente ancora la faccia di Arthur che
urlava qualcosa come “ti sembrano degli abiti adatti ad un
summit
quelli?! Fila subito a cambiarti, idiot!”
e cominciava a
pestare i piedi per terra quando lui invece si rifiutava
categoricamente di ascoltarlo.
«Alfred!»
Si
fermò di scatto, tornò indietro di qualche passo,
fino ad trovarsi
davanti a un altro corridoio – quando lo avevano messo
lì? Sulla
cartina degli Stati Uniti mica c'era.
«Alfred!
Ti sto chiamando e tu nemmeno te ne sei accorto!»
Alfred
pensò che – davvero – qualcuno
lassù voleva proprio che Arthur
lo picchiasse, perché non era possibile pensare alla sua
faccia
incazzata e poi trovarsela davanti nell'attimo successivo. Non gli ci
volle molto a mettersi a ridere – e diamine, Arthur
sembrò
inviperirsi ancora di più.
«Cosa
diavolo hai da ridere così?!»
Cercò
di fermarsi, quantomeno di non guardarlo o fargli capire che non era
per lui. Sapeva bene che Arthur diventava incline alle ubriacature
esattamente a causa di quei momenti che c'erano tra loro, eppure la
sua faccia, la fronte aggrottata e le sopracciglia ridicole erano
davvero troppo per lui.
«AH!
Arthur! Te l'assicuro... Non è colpa tua!»
Arthur
non gli sembrava troppo propenso a voler sentire spiegazioni. Alfred
notò solo uno scatto delle spalle e poi del resto del corpo
e Arthur
che si allontanava coi pugni serrati e la testa bassa. Credette, poi,
di aver davvero sentito un “fuck you” mormorato in
fondo al
corridoio – ma non ne era troppo sicuro. Oppure cercava di
negarlo.
Solo
in quel momento Alfred riuscì a calmarsi, a raddrizzarsi gli
occhiali e a regolarizzare il respiro. Arthur si era arrabbiato con
lui tante di quelle volte, questa non era nemmeno tra le peggiori.
Solo che gli dispiaceva vederlo nervoso anche a Natale –
chissà
che voleva, poi, magari gli avrebbe dato un regalo, magari era
quell'alieno che desiderava da tanto tempo. Però ora che ci
pensava, Arthur non era di certo abbastanza “cool”
da regalare un
alieno; e poi credeva ancora nelle fate, Arthur era così
vecchio
dentro che era già tanto se non gli aveva regalato un bel
maglioncino con le renne e in più la dentiera in omaggio.
Alfred
pensò per un attimo di seguire Arthur, forse poteva
rimediare. Ma
dovette ricredersi appena un paio di secondi dopo: Arthur si sarebbe
aspettato delle scuse – Arthur si aspettava sempre delle
scuse – lui non gliele avrebbe date. Allora avrebbero
litigato,
Arthur avrebbe detto che lui era un ingrato, che era un bambino, un
incapace, magari avrebbe anche osato insinuare che era peggio di
Francis e via dicendo.
Alfred
tornò sui propri passi, in fondo il corridoio nel quale
Arthur era
sparito sulla cartina degli Stati Uniti nemmeno c'era.
Alfred
passò metà della giornata a fissare come tutti si
dessero da fare
per abbellire la sala conferenze. Ognuno s'impegnava con qualcosa:
Yao con la sua China Town, Romano con lo stomaco di Antonio, Tino
lamentava l'assenza di una sauna, Roderich accordava un pianoforte
mentre Gilbert veniva atterrito da una padella volante. Alfred
pensò
che probabilmente tutti quanti avevano solo bisogno di una bella
vacanza, magari in America, dalle sue parti.
Continuò
a vagare per un po', il suo albero di Natale avrebbe stupido tutti,
già ne era sicuro. Sarebbe stato alto più di
venti metri, avrebbe
illuminato l'intera sala e magari sarebbero usciti dei fuochi
d'artificio dalla punta. Chiunque sarebbe impallidito e ad Arthur
sarebbero venuto i capelli bianchi – a meno che non li avesse
già
– e poi avrebbe nascosto il suo brutto e banale alberello
inglese.
Alfred rise ancora, la sua idea era davvero geniale, tanto da darsi
una bella pacca sulla spalla.
Salvo
imprevisti, Alfred sarebbe rimasto lì a ridere di loro
ancora per
molto, se solo non avesse visto la cosa che più di ogni
altra lo
aveva infastidito da quando era una Colonia alta poco più di
qualche
filo d'erba.
Arthur,
lui lo sapeva bene, proprio non ce la faceva a sopportare la sua
solitudine. L'aveva sempre ostentata e protetta e forse se ne sentiva
un po' succube. Arthur non riusciva a fare a meno di oltrepassare
l'oceano e correre da lui, ad abbracciarlo, a baciarlo, ad
insegnargli tutto, a ricevere i suoi complimenti – quasi
sicuramente gli unici – quando si trattava di cucina. Per
Arthur,
Alfred era un po' una ragione di vita, un po' una bombola ad
ossigeno: ne aveva bisogno per andare avanti, aveva bisogno di
prendere fiato prima di tornare in Europa e trattenere il respiro.
Poi
però le visite erano diventate sempre di più,
l'attenzione
maggiore, Alfred ne sentiva finanche il fiato sul collo.
Da
quando aveva chiesto l'Indipendenza, invece, Arthur aveva
gradatamente preso le distanze da lui, fino a scomparire quasi del
tutto. Arthur, Alfred lo sapeva bene, era rimasto scottato dal loro
legame: il primo e più profondo mai avuto, intenso e
indispensabile,
gli si era rivoltato contro, meschino e ingrato come se si fosse
trattato di una Nazione qualunque e non di un fratello.
Arthur
non riusciva a starsene buono sulla sua isola. Arthur aveva bisogno
di qualcuno. Alfred detestava il fatto che quel qualcuno fosse
proprio Francis. Lui lo sapeva, ma evidentemente Arthur era troppo
stupido per accorgersene. Francis era la Nazione dell'amore, no?
Caldo e passionale, probabilmente questo avrebbe fatto bruciare
ancora di più il cuore di Arthur. Era un appiglio subdolo,
che
poteva benissimo frantumarsi e lasciarlo cadere in ogni momento.
Alfred
sentì qualcuno tirare la manica della sua giacca, nella
mente aveva
ancora l'immagine di Francis e Arthur troppo vicini.
«Peter-»
Il
sorriso di Peter era davvero diverso da quello di Arthur. Mille volte
più sincero, ma non riusciva comunque ad eguagliarlo.
Quando
Alfred tornò a posare gli occhi nel punto in cui, fino a
qualche
secondo prima, Francis stava parlando con Arthur, loro erano
scomparsi. Non gli interessava davvero sapere cosa si stessero
dicendo, la sua voglia – che non era curiosità
vera e propria –
stava semplicemente nel bisogno di disturbarli e, se possibile,
separarli. Arthur gli stava troppo vicino, Francis era rinomato per
il non saper sempre tenere le mani a posto.
«Alfred!
Ho portato un sacco di decorazioni, guarda! Così le altre
Nazioni
potranno considerarmi finalmente uno di loro! Alfred? Alfred, ci
sei?»
Alfred
si guardò attorno di nuovo, non c'era traccia di quei due e
in più
Peter stava continuando a scuoterlo.
«Cosa?
Ah, sì, sono davvero belle!»
Scappò
via, proprio non ci teneva a lasciare Arthur a quel francese dalla
lingua lunga – in tutti i sensi – e ovviamente
giustificava la
sua ansia ripetendo a mente che no, lui non stava correndo da Arthur,
lui stava solo andando lì a prendersi il suo regalo di
Natale.
Insomma, gli spettava di diritto in quanto
ex-fratello-minore-che-aveva-saggiamente-scelto-di-abbandonarlo-e-tirare-avanti-da-solo.
Un concetto un po' contorto, forse, ma tremendamente efficace.
«Ma-
Alfred! Non le hai nemmeno guardate!»
Sentì
Peter urlargli dietro qualcos'altro, forse che sarebbe andato a
cercarlo e che gli avrebbe lo stesso chiesto di aiutarlo. Alfred fece
un cenno col braccio e imboccò un corridoio a caso: non ne
valeva la
pena di mettersi a pensare da che lato fossero le stanze di Francis e
di Arthur. Per quanto fosse dura ad ammetterlo, il suo senso
dell'orientamento faceva veramente ed infinitamente schifo. Su questo
non ci pioveva così come sul fatto che, quando nei meeting
si
parlava di Etiopia, dell'Estremo Oriente o di qualunque altro posto,
lui doveva infilare i gomiti nelle costole di chi gli stava
più
vicino – probabilmente Toris, al quale capitavano sempre le
peggiori sfortune – e chiedergli di indicare suddetti luoghi
sull'inseparabile cartina americana per poi fargli giurare che
nessuno avrebbe saputo niente della sua svista.
«Carriedo,
Williams, Honda, Braginski, Zwingli, Vargas, Wang, Kirkland, Galante,
Edelstein-»
Alfred
effettuò una frenata che gli fece quasi perdere gli
occhiali.
Dietro-front e poi corse sui propri passi fino a tornare di nuovo
davanti la stanza di Arthur.
Diamine
– se erano davvero lì non ci teneva proprio a
disturbarli. Arthur
era una sorta di enorme stupido e ipocrita se davvero faceva leva sul
suo peggior nemico pur di non sentirsi solo. Francis era soltanto uno
schifoso approfittatore. Alfred gli avrebbe staccato la barba, i
capelli e magari anche qualcos'altro se solo avesse osato allungare
le mani sul suo Arthur. Cioé, non su Arthur, ma sul suo
regalo.
Sì,
sul suo regalo.
«Arthur!
Arthur, apri immediatamente!»
Voleva
almeno concedergli il tempo di rivestirsi, se davvero stavano facendo
quello che Alfred pensavano stessero facendo. Ma aveva davvero
così
poca fiducia in Arthur? Lo stesso Arthur che sembrava ben lontano dal
volere qualunque tipo di contatto umano?
Alfred
si rispose da solo e aprì la porta. Insomma, Arthur non era
tipo da
bondage e vestiti in lattice, né Francis aveva avuto
abbastanza
tempo per tirar fuori dalle mutande corde e manette e legarlo al
letto.
Quello
che Alfred vide fu solo una scenetta da film francese di terza
categoria, tanto squallida da fargli ribollire il sangue nelle vene.
Bastava aggiungerci lo sfondo degli Champs Elyseés
– la bottiglia
di vino rosso c'era già – e il gioco era fatto.
Lui detestava
Parigi, non era affatto una città alla pari di New York o di
Miami.
E la Tour Eiffel che c'era a Las Vegas era mille volte meglio. Tutto
era successo un po' troppo in fretta però, Arthur aveva solo
avuto
il tempo di voltarsi grazie al preavviso del suo urlo. E la mano di
Francis era ancora oscenamente posizionata sul suo fondo-schiena.
Alfred non voleva minimamente immaginare che cosa si sarebbe trovato
davanti qualora avesse - sciaguratamente – ritardato anche
solo di
cinque minuti. Il fatto che Peter fosse così semplice da
ignorare
era stata una benedizione per lui – e forse anche per Arthur.
«Alfred-
Cazzo, Alfred, ma non ti hanno insegnato a bussare?!»
Arthur
scosse la testa, la sua affermazione aveva implicato una sua mancanza
nell'educazione della Colonia.
Alfred
rimase imbambolato sull'uscio ancora per un po'. Arthur si era
fiondato dalla parte opposta della stanza, per stare il più
lontano
possibile da qualunque altra forma di vita presente lì in
quel
momento. Francis rideva e sembrava una specie di sacco di sabbia
perfetto da prendere a pugni, una sorta di calamita per le nocche
delle mani di Alfred.
Borbottò
qualcosa, forse delle scuse, Arthur non seppe mai cosa realmente
fossero, ma a lui sembravano semplicemente insulti uno di fila
all'altro. Sperava che, per lo meno, fossero diretti a Francis e non
a lui. Alfred chiuse e aprì la bocca più volte,
cercando di
articolare un discorso sensato – glielo rimproveravano un po'
tutti, di essere un po' tonto. Arthur evidentemente aveva fatto un
po' troppo in fretta i calcoli. Appena qualche ora prima Alfred
rideva di lui, non gli ci volle molto a fare due più due e a
interpretare erroneamente il suo arrivo.
«Senti,
piccolo irriconoscente che non sei altro, non hai proprio il diritto
di ridere di me quando ti pare e di giudicarmi. Quindi se sei qui
per-»
«Angleterre.»
Alfred
vide il dito di Arthur puntato al proprio petto, l'inglese rabbioso
che gli si avvicinava piano, mentre scandiva ogni parola –
quell'
“irriconoscente” con particolare enfasi, e poi la
mano di Francis
che si stringeva delicatamente sul suo posto. Arthur si
fermò per un
attimo e parve pensare, con le labbra dischiuse e l'espressione vacua
di chi non sapeva nemmeno che piega avessero preso le sue azioni.
«Non
credi che dovremmo tornare nella Sala Conferenze? Ci staranno
aspettando.»
«Sì,
hai perfettamente ragione, Francis.»
Alfred
si sentì escluso – e dio solo sapeva quanto lui
odiasse quella
situazione. Alfred viveva solo per urlare al mondo intero
“ehi, qui
c'è l'America! Qui ci sono io! Seguitemi! Guardatemi! Sono
il più
forte, il più bravo!”. Adesso nessuno lo prendeva
in
considerazione; Alfred provò per un attimo la stessa
sensazione che
doveva provare chi veniva messo da parte da secoli, qualcuno come
Matthew. Tra lui e Matthew c'era una differenza fondamentale,
però.
Alfred proprio non riusciva a sopportare l'essere messo da parte,
Matthew si limitava ad abbracciare Kumakichi... O Kumajiro... Quello
stupido orso, insomma, e a sussurrare un “io sono
Canada...”
senza allegarci scenate di altro tipo.
Sentirsi
ignorato proprio da Arthur, proprio dalla persona cui voleva
dimostrare sempre la sua bravura e la sua grandezza, gli faceva male
più o meno all'altezza del petto, sulla sinistra.
Lì dentro ci
sentiva una specie di vuoto incolmabile, come se Arthur avesse
infilato una mano nel suo torace e gli avesse strappato via il cuore.
Sì beh, forse era un pensiero un po' scoccio da fare e
più adatto a
uno come Francis che a lui, però il paragone riusciva a
rendere
perfettamente l'idea, almeno secondo la sua opinione.
Alfred
rimase in silenzio nella stanza. Non si stupì nemmeno che
Arthur gli
avesse concesso di restare lì da solo.
Alfred
aveva come compagnia solo quella triste consapevolezza di non essere
più il centro delle attenzioni di Arthur; questo lo faceva
stare
molto male. E dire che a lui il Natale piaceva e ora non aveva
nemmeno avuto il suo regalo.
Appena
un paio di giorni dopo l'entusiasmo di Alfred si era spento. Gli
addobbi natalizi non gli erano mai sembrati così inutili,
l'allegria
di Peter, di Feliciano, di Antonio tanto inopportuna. Arthur aveva
continuato ad evitarlo, a vedere Francis sempre più spesso.
Alfred
rimproverava sempre a quei due “vecchi” di litigare
troppo, ora
invece non sopportava il fatto che non lo facessero più, che
Francis
gli rivolgesse dei sorrisi eloquenti e che Arthur sembrasse
ricambiarli in maniera del tutto inaspettata.
Entrambi
non facevano altro che ingannarsi a vicenda ed essere così
egoisti
da non accorgersi nemmeno di lui.
Alfred
sospirò e morse un'altra volta il suo hamburger. Erano quasi
la sua
consolazione: gli hamburger, sapeva, non l'avrebbero mai abbandonato.
Erano una specie di costante nella sua vita, c'erano dal giorno del
distacco dell'America dall'Inghilterra – e non era forse
quello il
giorno della sua vera nascita? - fino ad allora. Arrivò alla
conclusione che gli hamburger erano la spalla su cui piangere anche
nei momenti peggiori e che doveva seriamente farsi vedere da uno
psicologo, perché se i sorrisi tra Francis e Arthur avevano
quelle
conseguenze, allora sarebbe stato meglio curarsi o rifugiarsi
dall'altra parte del mondo. Ma lui era una Nazione, come cavolo ci
arrivava dall'altra parte del mondo?
«Che
palle.»
Hamburger
in mano e faccia da cane bastonato. Quando Arthur vide Alfred,
inizialmente non seppe se se la passasse bene oppure no. Quando
Alfred alzò la testa, però, capì molte
cose.
«Alfred?»
Alfred
guardò Arthur. Si erano evitati per tutto il tempo e di
certo non si
aspettava che l'inglese decidesse di punto in bianco di rivolgergli
la parola così, senza nemmeno concedergli qualche minuto
necessario
ad un'adeguata preparazione psicologica. Arthur aveva l'aria un po'
sbattuta. Alfred cercò di trattenersi dal
rabbrividire –
come faceva una persona sana di mente ad andare a letto con
Francis?
Probabilmente Arthur doveva avere qualche rotella fuori
posto, aveva ragione a ripeterglielo ogni volta che s'incontravano.
«Alfred
-non so davvero da dove cominciare.»
Se
erano delle scuse, Alfred non se le aspettava.
«Il
fatto è che tu non ti sei mai comportato nel modo in cui
avresti
dovuto comportarti.»
Ecco,
infatti non erano delle scuse.
Alfred
masticò il suo hamburger e poi guardò Arthur. Non
era molto carino
da dire, indubbiamente. Arthur non era stato affatto gentile negli
ultimi tempi, probabilmente il clima natalizio doveva fargli un po'
male al cuore. Arthur, si disse Alfred, passava ogni Natale da solo,
forse stare in mezzo a tutta quella gente proprio in quel determinato
periodo dell'anno suscitava in lui una qualche specie di reazione
allergica. La medicina era Francis per caso? Rabbrividì di
nuovo.
«Io
non credo proprio che-»
«Aspetta,
fammi finire.»
Alfred
sbuffò e tornò a mangiare. La reputava in modo la
soluzione
migliore: subire passivamente le ire di Arthur, magari senza
ascoltare e con un bell'hamburger in mano, e poi andare via a fare
qualcosa di più divertente. Tipo provare a infastidire Ivan.
«Noi
ci conosciamo da secoli. Diamine, ci conosciamo da quando eri piccolo
così! Io non lo so perché le cose sono cambiate,
visto che non è
stata una mia scelta, però so che non abbiamo interrotto
niente, non
trovi? Voglio dire, tu non sei diventato un gentleman come mi
aspettavo, sei grasso, stupido e maleducato. Però, capisci,
io... In
fondo, noi... Cioé, quello che voglio dire è
che-»
«Che?»
«Che-»
«Che?!»
«Cazzo,
Alfred! Ti ho detto di non interrompermi!»
Alfred
riprese a mangiare, se proprio voleva che non interrompesse quel
continuo ed insensato “blablabla” insopportabile,
allora non
l'avrebbe fatto.
Arthur
sembrò riordinare per un attimo le idee. E nel frattempo la
Sala
delle Conferenze si era svuotata, nessuno amava assistere ai loro
litigi. Tanto sapevano tutti che sarebbero terminati con Alfred che
rideva vittorioso e con Arthur che lasciava a grandi passi la stanza,
con la voglia di scoppiare a piangere, ma una quantità
abissale di
orgoglio e self-control britannico che glielo
impedivano.
«Quello
che voglio dire è che – non interrompermi e non
metterti a ridere
– in fondo, un pochino, io, ma proprio poco eh, sono quasi
lontanamente fiero di te, capisci? E... Mi fa male, molto poco male
però, se tu ti comporti come uno schifoso e viscido
ragazzino
ingrato.»
Probabilmente
avrebbe potuto risparmiarsi l'ultima parte del discorso, ma Alfred si
sentì comunque toccato – da qualche parte, dentro
– dalle parole
di Arthur. Le aveva pronunciate un po' a fatica, poi era diventato
così rosso e aveva avuto una specie di crisi respiratoria
che gli
aveva impedito di alzare la testa. E poi quello stupido inglese non
era affatto il tipo da manifestazioni d'affetto, smancerie o
qualunque cosa implicasse i suoi sentimenti, per lui quello era stato
un grande passo. Un po' come lo era stata a suo tempo l'Intesa
Cordiale.
Alfred
posò il suo hamburger sulla lunga tavola della Sala, adesso
piuttosto affollata e ricoperta da fasci di vischio e nastri dorati.
«Arthur
io-»
«Se
devi dire qualcosa di stupido, ti prego, non farlo.»
«No,
è che-»
Alfred
lo guardò a lungo. Arthur era sempre stato il suo modello in
fondo.
Alfred aveva vissuto sempre e solo per dimostrargli quanto sapesse
essere bravo, quanto riuscisse ad essere forte. Arthur era sempre
lì,
dietro di lui, e sembrava sorridere compiaciuto. L'America invece
doveva stare un passo più il là rispetto a tutto
il resto del
mondo, era quasi una sua necessità, voleva essere guardato
con la
stessa stima nascosta che Arthur aveva impressa negli occhi.
«Non
è una cosa stupida, credo.»
«Allora
puoi dirla, forse.»
In
quel momento, poi, proprio ora che Arthur gliel'aveva detto con tanta
fatica e sincerità, quella stima – e l'orgoglio
anche – sembrava
crescere in maniera spropositata. Diventata alta come la Statua della
Libertà e luminosa come Los Angeles a notte fonda.
«Se
solo tu non fossi così vecchio-»
«Forse
all'antica.»
«Sì.
Se solo tu non fossi così all'antica e così
insopportabile e
meticoloso, magari ti accorgeresti che-»
«Ehi,
aspetta. Alfred, sei tu quello troppo preso da se stesso per
accorgersi degli altri!»
Alfred
sorrise. In fondo lui e Arthur erano sempre stato quello, no? Non era
competitività in sé, si trattava più
che altro di un punzecchiarsi
a vicenda.reciproco. Il vero intento però non era
infastidire
l'altro, quanto pretendere la sua attenzione su di sé.
“Ehi,
America, ti stai dimenticando di me?” “Ehi,
Inghilterra, hai
visto quanto sono diventato bravo?”.
«Perché
sorridi? Stai ridendo ancora di me?»
«Eh?
Cosa -cazzo- no!»
«Bene.»
Alfred
posò una mano sulla sua spalla, facendola scorrere dietro la
schiena, sentendo le scapole di Arthur muoversi sotto la pelle e i
suoi muscoli irrigidirsi. Era sicuro che con Francis non fosse
così
in imbarazzo, ma non voleva assolutamente pensare a quell'assurda
piaga francese proprio in quel momento. L'altra mano era fissa sul
collo di Arthur, si muoveva su e giù segnando il percorso
mandibola-clavicola-mandibola. Lo sentì deglutire e sorrise.
Arthur
voleva essere un gradino al di sopra di tutti, ma quando entravano in
gioco i sentimenti preferiva nascondersi sotto le scale.
Alfred
mosse un altro passo in avanti. Arthur se ne accorse: erano
così
vicini che Alfred avrebbe potuto facilmente notare che lui stava
trattenendo il respiro. In fondo era il momento che aspettava da
sempre, no? Quello in cui il suo fratellino capiva che un oceano non
bastava affatto ad allontanarli, che il loro legame sarebbe andato
oltre qualunque ostacolo: montagne, acqua ed ogni altra cosa si
infilasse prepotentemente tra loro due.
Alfred
era così vicino che Arthur poteva giurare di non aver mai
analizzato
così a fondo tutti i particolari della sua orrenda giacca
marrone.
«Angleterre!
Ecco dove ti eri cacciato, mon rossignol!»
Francis
sembrò essere spuntato dal nulla – solo lui poteva
riuscirci in un
momento come quello. Analizzò la situazione, muovendo su e
giù un
sopracciglio e scuotendo la testa. Sembrava rassegnato.
Alfred,
invece, sembrava decisamente infuriato.
Arthur
non ci aveva capito molto, aveva passato metà del tempo a
cercare di
pensare qualcosa di sensato, che avesse un filo logico.
«Pardon,
Alfred, temo di doverti rubare Arthùr
per un po'.»
Odiava
quelle consonanti strascicate, i suoni aspri ed eleganti e la faccia
di Francis. L'avrebbe volentieri presa a pugni.
Arthur
guardò Alfred e scosse la testa. Alfred sembrò
alterarsi e andò
via – non ci teneva lui ad essere messo in secondo piano. Non
ci
teneva proprio ad essere superato da un francese. Arthur non doveva
prenderlo in giro, non aveva proprio il diritto di giocare con lui.
Alfred superò un paio di corridoi, di porte chiuse, di
Nazioni che
litigavo e altre che si rincorrevano, gli anche sembrato di aver
visto Natalia nascosta dietro un angolo a parlare con un coltello
molto affilato.
Non
ce la faceva ad essere realmente arrabbiato con Arthur, non in quel
momento almeno. Se era vera anche solo la metà delle cose
che gli
aveva detto, allora lui credeva altrettanto chiaramente che no
–
almeno non quel giorno, dopo quello che era successo e quello che
stava per succedere – Arthur non sarebbe andato da Francis a
farsi
consolare o qualunque altra cosa loro due facessero – Alfred
non ci
teneva proprio a saperlo, sentiva una specie di moto di gelosia che
lo faceva rabbrividire e che lo costringeva fermo contro il muro. Non
gli avrebbe ceduto la persona più importante della sua vita,
la
stessa che secoli prima chiamava “fratello”.
Alfred
tornò nella sua stanza. L'indomani aveva intensione di
andare a
cercare di nuovo Arthur, in fondo non aveva ancora avuto il suo
regalo di Natale.
Aveva
passato almeno metà della notte a lavorarci, si era
ritrovato più
volte l'indice ed il pollice della mano sinistra incollati tra loro,
ma non aveva ceduto. La confezione a stelle e strisce forse avrebbe
potuto risparmiarsela o almeno sostituirla con un motivo più
simile
alla Union Jack, ma lui le cose voleva proprio farle per bene. Tutto
doveva essere perfetto. Prese in mano il pacchetto e se lo
rigirò
tra le dita vagamente appiccicose. Era venuto proprio bene, era
venuto proprio come sarebbe piaciuto a lui. Un giorno o l'altro,
pensò Alfred, avrebbe dovuto farsi dei regali da solo per
soddisfare
il suo ego smisurato.
Sistemò
il regalo nella tasca interna della giacca – sarebbe stato
imbarazzante incontrare qualcuno come Gilbert e dover subire domande
inopportune sul destinatario di quel pensiero. Alfred strinse la
stoffa contro il petto e affrontò il corridoio semi-deserto,
se non
fosse stato per la presenza di Yao e di un panda gigante che
stranamente aveva la stessa altezza e la stessa stazza di Ivan.
Scosse le spalle e continuò a camminare fino alla stanza
“Bonnefoy”.
Posò l'orecchio contro il legno scuro e aspettò.
Forse
non era carino origliare, forse Arthur avrebbe potuto arrabbiarsi
–
magari anche Francis, ma sul francese poteva comunque alzare le mani,
quindi poco importava.
«Si
può sapere che diamine stai facendo?»
Alfred
rabbrividì e si congelò in quella posizione,
piegato contro la
porta e con le mani vicine all'orecchio. Si vergognò come un
ladro
quando Arthur lo fissò. Le braccia incrociate al petto, un
piede che
sbatteva ritmicamente sul pavimento e un'espressione che non
prometteva nulla di buono. Alfred ripeté a mente quali
fossero i
suoi ultimi desideri prima di morire
«Non
è come sembra! Lo giuro!»
Esattamente
come quando Arthur lo beccava con le mani sugli scones ancora caldi.
«Ah.
E com'è invece? Saresti così gentile da
spiegarmelo?»
«Ecco,
vedi, io ti stavo cercando.»
«In
camera di Francis.»
«Sì.
Magari eri qui...»
«Perché
proprio in camera di Francis?»
«Ecco
– voi due ultimamente sembrate così...
Intimi.»
Arthur
roteò gli occhi, Alfred a volte era così stupido
e cieco.
Si
avvicinò a lui e lo allontanò dalla porta,
trascinandolo per un
polso in un punto abbastanza lontano dalla stanza di quella stupida
rana.
«Che
fai?»
«Sei
proprio un idiota, Alfred.»
«...
Per quale motivo?!»
Arthur
si fermò e lo lasciò andare. Alfred si
massaggiò il polso;
evidentemente l'inglese era così nervoso da non essersi reso
contro
di aver interrotto il flusso del suo sangue .
«Io
e Francis non siamo insieme. Noi facciamo solo-»
«Non
voglio saperlo! Non dirmelo!»
Arthur
lo guardo, inizialmente stranito. Da come Alfred aveva reagito ci
mancavano solo i palmi delle mani premuti sulle orecchie ed un
insopportabile “lalalalala, non ti ascolto,
lalalalala” in
sottofondo. Evidentemente non sopportava Francis – e non era
l'unico al mondo, anche lui la maggior parte delle volte non riusciva
a soffrire quei suoi modi e il suo vestire pacchiano. Al tutto poi ci
si aggiungevano le guerre, gli attriti, la vicinanza che rendeva
difficile ogni tipo di convivenza. Quella striscia di mare non
bastava a dividerli, Arthur avrebbe voluto separarsi dall'Europa
ancora un po' e magari avvicinarsi il più possibile
all'America.
«D'accordo!
Va bene! Non te lo dico!»
Arthur
sbuffò, chissà cosa mai pensasse Alfred. Ma
sapeva bene che, anche
nella peggiore delle ipotesi, non aveva del tutto torto.
«Senti-»
«Cosa?»
Alfred
si infilò una mano nella giacca. Arthur per un attimo
pensò che
quella situazione non prometteva nulla di buono. Lui era abituato a
Francis, che in un momento del genere avrebbe benissimo potuto tirar
fuori un frustino, un paio di manette o addirittura un vibratore.
«Vorrei
che questa la tenessi tu.»
Arthur
guardò Alfred negli occhi, prima di prendere in mano il
pacchetto
incartato in maniera un po' disordinata. Tanto non ci riusciva a
fissarlo troppo a lungo; dietro gli occhiali o meno che fossero, gli
occhi di Alfred sembravano leggergli dentro e allo stesso tempo
comunicargli qualcosa in ogni momento. Li aveva sempre amati, i suoi
occhi. Limpidi, cristallini, in grado di lasciar cogliere e di vedere
anche le emozioni più nascoste e celate.
Arthur
ridacchiò nel guardare la confezione. Le strisce rosse e
bianche, le
stelline appiccicate alla rinfusa su un pezzo di sfondo di carta blu.
«Che
cos'è?»
«Aprilo.»
Arthur
passò quasi un minuto in silenzio, sentendo soltanto il
rumore del
respiro di Alfred. Gli sembrava un po' teso ed agitato, il che era
tremendamente strano, visto che di solito Alfred era così
pienamente, insopportabilmente sicuro di sé.
«Ma-»
«È
una foto.»
«Sì,
lo so che è una foto.»
Arthur
passò le dita sul vetro e poi sulla cornice: Alfred
sorrideva e gli
stringeva la mano. Era più basso di almeno un metro, la
faccia e
l'espressione però non erano cambiate affatto. Arthur,
invece, era
passato sotto una qualche specie di metamorfosi. Non che fosse
invecchiato di molto, semplicemente si vedeva diverso dentro.
Il suo sorriso era rilassato, poteva addirittura definirlo sincero,
era rivolto all'obiettivo, ma nasceva grazie al piccolo Alfred che se
ne stava accanto a lui, coi capelli spettinati e gli occhioni fissi
sulla macchina fotografica.
«Intendevo-
Io credevo di averla persa.»
«Diciamo
che l'avevo presa in prestito.»
Alfred
sorrise e si avvicinò ad Arthur, posando le mani sulle sue,
cercando
di fargli capire che non si era rotto niente. Alfred aveva
semplicemente scelto di crescere da sé, anche solo per il
gusto di
fare capire ad Arthur che lui poteva benissimo farcela da solo, che
poteva mandare avanti una Nazione con le sue forze. Arthur capiva
bene che ci era riuscito egregiamente.
«Mi
piace. È una foto molto bella... E importante.»
«Lo
so, per questo ci tenevo tanto a restituirtela.»
Dannazione,
Alfred non poteva stargli così vicino proprio quando Francis
avrebbe
potuto decidere di passare di lì da un momento all'altro.
Del resto
non sarebbe comunque stata una scusa valida ad ucciderlo: in fondo in
quella zona non c'era forse la sua stanza?
Arthur maledì il filo
dei suoi pensieri, che proprio quando Alfred sembrava aver
prosciugato l'oceano di distanza tra loro, si concentrava su qualcosa
di negativo come quella stupida, stupidissima rana.
«Che
fai?»
«Non
posso?»
Il
respiro caldo di Alfred, la sua mano piazzata dietro la nuca. Per una
volta Arthur maledì il suo essere isola, che gli impediva di
fuggire
nel territorio più vicino. Scappare a nuoto avrebbe avuto
degli
effetti devastanti. Rimase immobile, Alfred sempre più
vicino. Si
sbagliava o questa volta era lui che andava a cercarlo in Inghilterra?
«Suppongo
di sì, Alfred.»
Una
specie di capriola nel petto.
Alfred
chiuse gli occhi. Per Arthur quello fu un po' un piacere –
era
sicuro di essere così rosso e di avere un'espressione che
rasentava
il ridicolo – un po' una maledizione – a lui quegli
occhi
piacevano dannatamente tanto. Cercò di fare altrettanto, di
rilassarsi, di cancellare Francis, il mare, il passato e ogni altra
cosa. Di smettere di rimuginare su tutto per un po', dato che non gli
faceva mai bene.
Pensò
solo che probabilmente il Natale d'ora in poi gli sarebbe piaciuto un
po' di più.
Lui
aveva passato il Natale da solo per secoli, ad aspettarlo.
Salve a tutti. e_e
Questa specie di cosa che si auto-definisce "FanFiction" per
un'eccessiva dose di vanità l'ho scritta perché
mi andava. e_e
E niente, ringrazio la mia adorata Claire (Little adorable Bro
♥) e la zia Talia, che con suo Contest-non-Contest mi ha
dato l'idea per scrivere qualcosa sul Natale.
E poi... Salve a tutti di nuovo. e_e