Seconda
classificata al contest "Rain..." indetto da Mayumi_san nell'EFP forum
Silent Love
Me ne stavo
seduto alla finestra a guardare il panorama davanti a me.
Pioveva,
come sempre in quel periodo, ma stranamente la cosa non mi
disturbava, anzi, mi sentivo vicino al lutto
del cielo.
Ero
solo in quella stanza, solo e lontano dal resto del mondo. Aprii
leggermente la finestra e sentii lo scrosciare della pioggia contro
il tetto. Era qualcosa di... magico.
Forse
era la tristezza per lei, o forse quella sensazione di solitudine, ma
volevo piangere. Non era uno di quei pianti legati alla voglia di
spaccare il mondo. No, non ero arrabbiato, ero solo triste.
Appoggiai
la testa contro il muro e chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare
da quel suono che da piccolo mi stimolava la diuresi.
Sei il
solito deficiente, come puoi scherzare sempre?
Già.
Anche lei me lo diceva che non ero una persona seria. Anche in rima.
E
di solito scaturiva un mio sorriso, o un bacio per il suo broncio. O
uno schiaffo affettuoso da parte sua.
Poi
le sentii. Leggere, silenziose, salate.
Scendevano lente, senza fretta, come la mia speranza.
Mi
unii al pianto del cielo. Lui piangeva la perdita dell'estate, del
caldo, delle foglie e si preparava all'inverno, agli alberi spogli e
alla mancanza di colori.
Io
piangevo la sua perdita. I colori, il caldo, l'amore che si era
portata via, scomparendo per sempre.
Niente è
per sempre.
E
anche io mi preparavo all'inverno. I colori dell'autunno mi
stringevano e uccidevano piano piano.
Mi
sentivo come un guscio vuoto, nonostante fosse passato troppo dalla
sua... scomparsa.
Strinsi gli occhi e mi uscii un singhiozzo. O uno
spasmo.
Mi tornarono in mente tutti i suoi particolari. Le gote
arrossate, i capelli dorati, il profumo della sua pelle. Fragola di
bosco.
Mi
racchiusi su me stesso, cercando di comprimermi,
sperando servisse ad alleviare quel dolore maledetto.
Niente
da fare.
Diedi un pugno contro la finestra e la costrinsi a
chiudersi.
Maledetta.
Nascosi il viso nelle mie braccia incrociate. Avevo il
viso umido, come se la pioggia mi avesse contagiato.
Lei
amava la pioggia.
Così come l'autunno in generale.
Lei, lei, lei. Non riuscivo a pensare ad altro, in quel
periodo. I suoi occhi, la bocca, la forma del suo corpo, il timbro
della sua voce quando mi diceva “ti amo”.
Decisi di andarla a trovare, magari mi avrebbe
ascoltato, magari no.
Mi vestii, senza badare granché a ciò che
indossavo.
Non erano certo i vestiti che mi avrebbero riavvicinato a lei.
Uscii di casa e presi l'ombrello. Sembravo un ragazzo
qualsiasi che camminava in una grande metropoli.
Ma non ero un ragazzo qualsiasi.
Camminavo a testa bassa, avevo paura che qualcuno
potesse vedermi gli occhi lucidi e le occhiaie, evidente segno di un
pianto.
Arrivare da lei non era semplice, ma non volevo prendere
un bus o un taxi. Avrei camminato, sotto la pioggia, al freddo, solo
per lei.
Mi beccai degli insulti da alcune persone che colpii per
sbaglio, continuavo a tenere lo sguardo verso il marciapiede.
Diedi un'occhiata alle vetrine: incredibile, esponevano
già i decori natalizi.
Superai la parte della città trafficata e svoltai in
una stradina deserta che, in ogni caso, mi avrebbe portato verso di
lei.
Poi pensai che era da parecchio che non andavo a
trovarla.
Sentivo freddo, ma non era una sensazione spiacevole.
No, quel giorno sembrava che la pioggia facesse parte di me.
Sembrava fosse dentro di me, insieme a piastrine e
globuli rossi, pronta ad uscire da tutt'altra parte, dove avrebbe
potuto mimetizzarsi. Come lacrime.
Non
ero un ragazzo profondo o poetico, ma lei era in grado di farmi
di tutto,
volontariamente o involontariamente che fosse.
Costeggiai
le colline e mi fermai a fissare da lontano la sua dimora
così
fredda.
Era ancora lontana, ma la tristezza mi invadeva da capo a piedi.
Ero
un tipo piuttosto silenzioso, lei una ragazza sveglia e intelligente,
con tanta voglia di parlare.
“Devi
parlarmi, altrimenti non capirò mai cosa si cela
lì dentro” mi
diceva appena poteva.
“Oh,
credimi, qui dentro non c'è niente di così
segreto e importante”
le rispondevo, ogni volta.
E
puntualmente mi fissava, intensamente, poi spariva.
La
pioggia si fece fitta e cercai di entrare in sintonia con lei. Il
rumore, l'odore, il sapore.
Era così semplice capire con un minimo di
concentrazione.
Rimasi
sorpreso delle sensazioni che tutto ciò mi infondeva. Era
spettacolare
come una cosa così comune come la pioggia potesse legarmi
così a
lei. Non avevo mai capito il suo amore per l'acqua.
“Togli
l'ombrello e stai sotto la pioggia. Dai!” mi diceva, provando
a
togliermi l'ombrello.
“Ma
smettila, rischi di prenderti una polmonite” le rispondevo,
cercando di coprirla.
“Se
non rischi non provi emozioni, o sbaglio? Smettila di fare l'adulto
responsabile e chiudi l'ombrello” diceva, tenendo le mani sui
fianchi.
E
io non lo facevo.
Pochi passi. Mancava poco e l'avrei rivista.
In genere non facevo mai quello che lei mi diceva di
fare. Non lo facevo di proposito, ogni volta che mi proponeva
qualcosa mi sembrava stupido o infantile.
Alla fine ero io quello stupido e infantile. Lei cercava
solo di farmi entrare nel suo mondo.
Ma nonostante tutto lei c'era sempre. Soprattutto se
avevo bisogno di parlare con qualcuno.
Peperina.
Aveva un milione di soprannomi, il mio preferito era
quello che le diede il professore di Geografia: peperina.
Era perfetto per lei. Anche se non esisteva come parola
effettiva, il significato era esatto. Sembrava davvero sotto
l'effetto del peperoncino. A volte parlava a raffica, a volte non
stava ferma un attimo, ma in ogni caso sapeva quando doveva farsi da
parte.
Era
vita,
era speranza.
Ed era la mia vita e la mia speranza.
Arrivai di fronte all'enorme cancello grigio. Era
davvero tutto imponente, lì intorno.
Ricordai che lei amava stare all'aperto quando pioveva.
Leggeva, dormicchiava, fissava l'orizzonte. Tutto, stando nella sua
enorme giacca felpata.
“Non ho freddo”
ripeteva sempre, anche se
tremava.
Ghiaccio.
Mi chiesi se provasse freddo, in quel momento.
Non
lo saprai mai.
Varcai la soglia del grande cancello e mi diressi verso
di lei. Mi bastò poco per incrociarla da lontano.
L'enorme
giardino la
circondava. Camminai
sul sentiero. La ghiaia faceva rumore sotto le mie scarpe da
ginnastica.
Disturbo
della quiete pubblica!
Avanzai e la vidi quasi perfettamente: sorridente, come
sempre.
Non
riuscii ad avvicinarmi subito. Scoppiai in un pianto sincero,
sofferto e sentito. Sapevo che poteva vedermi, lo sentivo,
ma non mi importò e piansi.
Piansi sotto la pioggia, pensando alla mia amata che
avrebbe dato qualsiasi cosa per poter piangere con me. Ma le era
stato vietato. Il suo tempo era passato.
Chiusi l'ombrello e camminai verso di lei.
Ad ogni passo corrispondeva un pezzo di cuore in
frantumi. Non ero mai tornato a trovarla.
Mi inginocchiai sporcandomi i pantaloni beige. Ero lì
per lei e volevo sentirmi vicino a lei.
L'acqua
mi aveva inzuppato in poco tempo, facendomi tremare dal freddo,
facendomi rimpiangere il suo
freddo.
Le accarezzai il volto sorridente che intravedevo tra le
lacrime: era così bella.
“Dimmi
che mi vuoi bene” mi chiedeva.
“Non
dovrebbe essere una cosa spontanea?” le chiedevo.
Lei
annuiva, tristemente, poi si impuntava.
“Ma
non me lo dici mai. D'accordo, me lo dimostri, ma mi piacerebbe
sentirmelo dire” mi rispondeva, un po' capricciosa.
“Te
lo dirò quando perderai la speranza” le
rispondevo, cattivo.
“Allora
non lo sentirò mai”
“Non dovevi lasciarmi. Non posso
credere di essere
qui, ad implorarti di tornare da me, inzuppato d'acqua e infangato.
Dimmi se questo non è amore” dissi, ad alta voce.
Guardai il suo volto: sorrideva ancora.
Chiusi gli occhi e sospirai, senza smettere di piangere.
Ero lì, da lei, ma lei non mi rispondeva. Non poteva
rispondermi.
Toccai la lapide grigia di fronte a me e mi sentii
morire dentro. Non riuscivo a farmene una ragione.
“Non
so perché, ma ho spesso la sensazione che morirò
giovane” mi
diceva, uscendosene all'improvviso.
“Non
dire cazzate, sono cose che succedono agli estranei” le
rispondevo,
ingenuamente.
“Certo,
ma quando gli estranei non sono estranei? Quando è un
parente o un
amico? Partiamo tutti dal presupposto che le disgrazie accadano solo
alle persone delle notizie dei tg, ma i familiari di quelle vittime
non erano estranei” mi diceva, ammutolendomi.
“Lo sapevi, lo avevi sempre
saputo. Perché non sei
riuscita ad evitarlo?” dissi, stringendo i denti. Il cimitero
era
deserto. Nessuno andava dai propri cari se pioveva. Me la immaginai
mentre mi accarezzava dolcemente e mi diceva che tutto andava bene.
Niente andava bene.
Mi alzai in piedi e, lentamente, protesi il volto verso
il cielo e allargai le braccia. Rimasi così, sperando che in
quella
pioggia ci fosse anche un po' di lei.
Passò del tempo, impossibile da quantificare, ma non
sentii nulla se non l'acqua in se.
Cerca
lo spirito, cerca la poesia. Ma
non sentivo nulla.
Le
mie lacrime non mi avevano abbandonato, ma si erano confuse con le
sue:
un miscuglio di
tristezza sostava sul
mio volto.
“Sei contenta? Avrei diecimila
cose da raccontarti
proprio ora che non posso. Sai cosa ti direi? Che mi sento solo e che
ti amo. Che mi manchi e che è tutto
noioso qui senza di te.
Odio ricevere messaggi sul cellulare perché so che non
saranno mai i
tuoi. Odio le persone che mi fanno domande perché non sei tu
a
farmele. Ti racconterei di come passo i pomeriggi a piangere
perché
tu non ci sei. E ti direi che mi sento un emerito coglione
perché
non ti ho mai dimostrato cosa fossi esattamente tu per me. Eri la mia
migliore amica, la mia compagna di scuola, la mia ragazza e l'unica
di cui mi sia mai innamorato. E vorrei gridarlo, vorrei arrivare fino
a te e dirtelo guardandoti negli occhi. Ma non posso, non
potrò mai
e sto morendo lentamente. Non ci sei più, da troppo tempo,
ma non
riesco a farmene una ragione. Mi sembra sbagliato essere qui se tu
non ci sei, così penso che se non puoi tornare da me, forse
sono io
a doverti raggiungere. È così? Devo morire per
poterti dire che ti
amo?” dissi, rivolto verso il cielo.
La pioggia iniziò ad essere insopportabile.
Il cielo era disperato,
arrabbiato e
innamorato. Io ero il cielo. Noi
eravamo di nuovo
insieme.
“Ti
voglio bene” mi diceva, dopo avermi baciato.
“Anche
io” le rispondevo, sorridente.
“Anche
io, anche io, anche io. Troppo facile così. Sono sempre io
ad
espormi” diceva, polemica.
“E
se ti dicessi che non ti voglio bene?” le chiedevo.
“Non
smetterei di volertene” mi rispondeva decisa, tagliente.
E
allora la baciavo, dolcemente, come fosse un dono prezioso, un
oggetto troppo fragile per poter essere maneggiato con noncuranza.
“E
se ti dicessi che ti amo?” le chiedevo, guardandola divertito.
“Ti
risponderei: anche io”
Mi abbassai sulle ginocchia e guardai la
foto bagnata.
Era protetta da quel piccolo vetro ovale, troppo piccolo per
contenerla.
“Non te lo meritavi. Non me lo
meritavo neanche io.
Vorrei... Vorrei averti qui con me” dissi, rivolto alla foto.
Abbassai lo sguardo verso le date e mi fermai.
Era passato un anno.
Confuso controllai la data nel mio cellulare che
confermò.
Un
anno.
Ripensai
all'accaduto e mi parve impossibile.
Non poteva essere passato tanto. Non me ne ero accorto.
Un anno senza di lei era equivalso ad un lungo giorno di
lutto. E avevo perso tempo. Perso nei ricordi, nelle fotografie,
nelle speranze, nei pianti e nel picchiare uno stupido sacco pieno di
sabbia.
Era passato un anno dall'ultima volta che l'avevo vista.
Dall'ultima volta che mi disse che mi amava, dall'ultima volta che
glielo dissi io.
Dalla sua ultima alba, dalla sua ultima giornata, dal
suo ultimo acquazzone.
Era
volata in cielo senza
preoccuparsi di me.
Brava.
Mi alzai in piedi e rivolsi lo sguardo lontano.
Mi staccai dalla vita terrena e mi persi. Mi
persi in un altro mondo, in uno in cui lei era con me.
“Vai...”
“Non
senza di te”
“Ci
rivedremo, presto o tardi che sia. Sono qui, ti aspetto. Ci volesse
anche tutta la vita. La tua vita”
“Giuramelo”
“Giuro”
“Ti
amo”
“Anche
io”
Aprii gli occhi. Ricordo o sogno che fosse,
non mi
importava.
Dovevo andare. Via.
Baciai simbolicamente la sua foto e le voltai le spalle,
andando verso l'uscita.
Avevo lasciato l'ombrello sulla sua tomba, non mi
serviva più.
Non dovevo più proteggermi dalla pioggia. Non dovevo
più proteggermi da lei.
Sarei andato avanti. Senza di lei.
Lei era il passato. Ero pronto per il futuro.
Lei era parte di me. Ma io ero appena rinato.
Rinato con l'attesa di tornare da lei, ma senza fretta.
Rinato con la speranza di ritrovare un amore. Pronto per
viverne un altro.
Qui ti lascio il mio cuore che ti è appartenuto. Qui ti lascio la mia anima silenziosa, affinché tu possa comprendermi fino in fondo, come sempre hai desiderato. Qui ti lascio il mio amore che mai ti ho espresso fino in fondo ma che sempre è vissuto in me.
Ti amo.
Ehy...! Ho appena avuto i risultati del contest e sono al settimo cielo per questo secondo posto *___* sono davvero legata a questa fanfiction, non tanto per la storia, ma per come l'ho scritta. Ero lì, ero il personaggio, ero la ragazza. E' stato bellissimo impersonificarsi così tanto. Ma d'altronde la pioggia l'ho sempre sentita un po' parte di me. Spero apprezzerete anche voi =) magari un commentino... ^^
Contest: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8833910&p=7
Erika <3