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Autore: MalkContent    15/12/2009    2 recensioni
Nelle profondità di Undercity, un amore che ha attraversato i confini della morte e del tradimento.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Immortal

La Città Sotterranea.

Avanzo nella melma dei canali, l'acqua lurida che impregna i resti laceri della mia tunica. Qualcosa di vivo mi sfiora le ginocchia e prosegue indisturbato nuotando appena sotto la superficie oleosa. Ho smesso di cercare di riconoscere il mio volto nel riflesso che mi restituisce lo specchio, come ho smesso di provare repulsione per quel che è diventato il mio mondo.

È una città morta, questa. Ma come una carogna sotto il sole, brulica di vita. Una moltitudine di creature che ancora si sforzano di appartenere ad un mondo che dovrebbero lasciarsi alle spalle.

La magia ci tiene in vita, assieme ad una disperata volontà di esistere ancora, giorno dopo giorno.

Sorrido. Posso ancora farlo, a differenza di molti degli abitanti della Città Sotterranea. Il mio sarto manca della parte inferiore del viso e l'escrescenza violacea e putrescente della sua lingua penzola come un festone decorativo dal palato. Non sono ancora riuscita a capire come riesca a parlare e farsi capire. I nostri corpi corrotti colgono di sorpresa: la mia vista è piuttosto buona nonostante il velo grigio che appanna le mie pupille. Sono occhi morti, i miei, spenti e inespressivi.



Freddo.

Così freddo. Odore di muschio e terra fradicia.

Sapore di terra sulla lingua quando tentai di aprire la bocca per gridare. E nessun altro suono oltre le mie urla che rimbombavano nella cassa.

Chi ero... chi sono... l'avevo dimenticato. Mi restava soltanto il terrore di non poter respirare, di non poter uscire, di passare un'eternità in una bara, picchiando i pugni sul legno che portava già i segni delle mie unghie quando avevo cercato disperatamente di scavarvi attraverso.


Non mi piace scendere nei laboratori alchemici, anche se ormai dovrei essere abituata a cosa accade là sotto, nel cuore della Città Sotterranea. Mentre risalgo i gradini fradici, uscendo dal canale di scolo, posso già avvertire i tonfi delle mannaie sulle carni di uno di quei grossi umanoidi che diverrà una delle nuove guardie. Non hanno nulla d'umano, nient'altro che accozzaglie d'interiora e resti decomposti, grandi tre volte la maggior parte degli abitanti di questo bubbone suppurante nel ventre della terra. È qui che vengono assemblati e rianimati, sotto la direzione degli apprendisti della scuola d'alchimia. Passo accanto ad uno dei più giovani. Un intreccio di cinghie di cuoio fa in modo che i bulbi oculari non cadano dalle orbite del cranio. La pelle non ha ancora il caratteristico colore cianotico o verdastro tipico dei non-morti più vecchi. Un pezzo di vetro smorto a forma di stella mi pende dal collo appeso ad una catenella d'argento annerito. Non so cosa sia. L'avevo addosso quando mi sono svegliata.


Ce n'è una pronta. Si è risvegliata presto, questa.”

Colpi di vanga contro il legno, mentre la terra veniva smossa. Un colpo più forte frantumò il coperchio della bara, fermandosi ad un dito dal mio viso. Due mani rudi mi tirarono fuori gettandomi sul cumulo di terra smossa. Non respiravo. Sentivo la pelle rigida, dura, secca. Avrei voluto piangere, ma i miei occhi restarono ostinatamente asciutti. C'era qualcosa che avrei dovuto ricordare. Qualcosa di importante, orrendamente importante. E l'avevo dimenticato. Tutto ciò che ricordavo era lo schiocco di una frusta.



È difficile spingere indietro la memoria oltre quel momento. Passo oltre gli apprendisti dell'apotecario che macellano un ogre disgraziato, futuro materiale da costruzione. Le urla mi seguono lacerandomi le orecchie. Odio tutto questo. Quando rientro nella piazza principale, dove s'accalcano le botteghe, la mia mente è lontana, quasi non m'accorgo del non-morto seduto sotto gli archi di pietra, coperto dalla testa ai piedi da viscide, enormi blatte. Scavalco appena in tempo il più grosso degli scarafaggi, allungando il passo con un balzello che mi fa scricchiolare le giunture esposte. I miei gomiti e le mie ginocchia mancano completamente di carne, restano assieme unicamente grazie ai tendini superstiti. Spesso non si piegano neppure troppo bene.

Il cavaliere che procede dietro di me, composto prevalentemente d'ossa e piastre d'armatura, non è altrettanto fortunato. Sento distintamente il carapace dello scarafaggio crepitare sotto il peso di un piede calzato di maglia di ferro, il gemito disperato del non morto rannicchiato a terra e il tonfo di un calcio del medesimo piede armato che si abbatte su carne rigida e costole scoperte.

Seguo con gli occhi il guerriero d'ossa allontanarsi, e un impeto di rabbia mi invade. Quel mondo, oltre che esser fetido, corrotto e disgustosi è anche crudele.

Mi volto verso lo scarafaggio agonizzante, raccogliendolo tra le mani. L'ira del guerriero ha disperso il resto della colonia di blatte, e il non morto singhiozza disperatamente, senza lacrime. Lo conosco. Jeremiah. Lui e i suoi scarafaggi. Li vende come animali da compagnia. Non è del tutto sano di mente, ma se non altro non è mai stato gratuitamente malvagio con nessuno. Non meritava tutto questo. Probabilmente ho in mano il suo migliore amico, che agita le zampette in aria con il carapace sfondato e le viscere di fuori. L'avvolgo delicatamente tra le mani, chiudo gli occhi, cerco il potere dentro di me.

Non ho perso le mie facoltà. Ero una sacerdotessa, lo sono ancora. Posso ancora guarire con le mani e la fede, anche se nessun vivente mi permetterebbe d'avvicinarmi abbastanza da sfiorarlo. Di certo non lui. Lui no.

Lui. Chi è lui? Devo averlo dimenticato.

Una luce filtra tra le mie dita scheletriche. Le zampette della blatta fremono come il frullo delle ali di un passero. Sorrido, anche se quasi non riesco ad avvertire l'espressione stirarmi la pelle rigida del viso e depongo la creaturina risanata tra le mani scarnificate di Jeremiah. Il sorriso del non morto è intuibile dagli occhi, dato che le sue guance mancano di carne e scopre innaturalmente e perennemente tutti i denti fino agli ultimi molari.

Il suo sorriso mi segue a lungo mentre mi allontano e sento qualcosa di caldo dentro, che mi riporta un ricordo sepolto dietro lo strazio della morte.


Pelle morbida e candida sotto le mie mani. Erano affusolate, le unghie curate. Cosa stavo toccando? Il petto nudo, glabro, di un elfo. Un brutta ferita d'artiglio deturpava quella perfezione color avorio. Mani umane. Ero umana. Una goffa umana, al confronto dell'esile, agile aggraziato stregone elfico che mi osservava con pensosi occhi azzurri. A terra, poco lontano, il cadavere di un enorme ragno si contraeva negli ultimi spasmi. Il demone asservito, un'ombra bluastra in cui scintillavano soltanto gli occhi luminescenti, mi fissava come se volesse divorarmi. Non mi lasciai distrarre. Lo stregone aveva bisogno di me.


Scrollo il capo. La mia mente non si è mai spinta tanto indietro, prima. Perchè finora non ho mai ricordato? Forse non dovrei. Forse potrei impazzire. Forse, se ricordassi, mi ritroverebbero sotto gli archi, ad allevare e vendere blatte, con un'espressione totalmente demente su un volto che cade a pezzi. Eppure... devo.


L'avevo rivisto. Non avrei dovuto. Era qualcosa di folle, eppure non riuscivo a dimenticare quegli occhi azzurri, quella pelle morbida e l'odore del suo corpo. Acqua fresca, fiori, misto allo zolfo delle creature che evocava presso di sé. Mi sorrideva, mi stringeva a sé. I suoi baci erano brucianti, esigenti. Mi amava. Ne ero certa. Avrebbe rinunciato alla sua stirpe per me. Non ne dubitavo.


Mi piego in due, trascinandomi sotto una scalinata. La testa mi fa male. Quando appoggio la schiena contro la pietra fradicia e ammuffita le vertebre scoperte vi raschiano contro. Era stato lui ad uccidermi, senza nemmeno sporcarsi le mani? Usando una di quelle creature?


La succube. Bellissima. Dalle forme superbe. Ci osservava da lontano, l'espressione imbronciata sulle labbra carnose e perfette. La frusta schioccò nervosamente a terra, ma l'ignorai, coprendo di baci la spalla dell'elfo che riposava abbandonato contro di me. L'amavo. Cieca come una rondine nel sole, l'amavo.


Cos'era successo? Riprendo a camminare lungo i canali. Incrocio una delle guardie, senza più stupirmi di come faccia a non inciampare nei due metri d'intestino che si trascina tra le gambe, fuoriusciti da un taglio nel ventre a botte. L'odore. Se respirassi ancora sarebbe terribile, ma nella Città Sotterranea nessuno respira. Nessuno. E nessuno si fa gli affari degli altri. Così, nessuno si ferma quando di nuovo mi piego in due, straziata dai ricordi.


Lo schiocco della frusta contro la mia carne. Un dolore indicibile. Sangue. La carne umana non era fatta per sopportare una tortura simile. Rotolai via sotto quei colpi, inseguita dalla risata melodiosa e argentina della creatura demoniaca. Rideva e colpiva.


Il suono di quella risata mi insegue. Colpisco una volta, due volte, tre volte il muro con il pugno, fintanto che avverto lo scricchiolare delle ossa infrante. È inutile. Non sento più il dolore, tutto questo non può uccidermi. È stato lui a mandarla. Si è stancato di me. Ha fatto sì che morissi.

Lo odio. Lo ucciderò.

Nessuno mi ferma quando esco, fuori, all'incrocio con la strada che porta a Brill. Fischio due volte e Midnight mi raggiunge al galoppo. È un bel destriero, per essere vivo soltanto a metà. Fuochi fatui verdastri danzano attorno agli zoccoli, la bardatura tintinna mentre salgo in groppa a questo cavallo d'altezza più adatta ad un cavaliere che a una piccola, minuta, scarnificata guaritrice non più viva.

Vai, Midnight. Le terre degli elfi del sangue non sono lontane.


Quando attraverso la Cicatrice della Morte mi sento quasi a casa. La striscia di terra bruciata è popolata da miei simili, anche se totalmente dementi. Non mi disturbano, come se intuissero che per loro attaccarmi sarebbe una sorta di suicidio. Non sono più la piccola, gracile umana che un elfo usò per puro divertimento. Mi guardo attorno. Ora i ricordi fluiscono più nettamente. I laghi, ad est. I luoghi che amava di più.

Sprono Midnight, e i cadaveri semoventi mi fissano con orbite vuote ricolme di vermi.


Mi serve poco per riconoscerlo. Il sorriso tagliente, i capelli d'argento. La struttura aggraziata, ma scolpita. Posso ricordare con la memoria del tocco i contorni del suo corpo, la liscia morbidezza della sua pelle. È sdraiato tra i cespugli. Dorme.

Preda facile, troppo. Ma non mi importa. Il tradimento chiama soltanto altro tradimento. Ha segnato da solo la sua fine. È per questo che ho scavato il legno della ma bara.. è per questo che sono tornata, con tanta urgenza. Per prendere la vendetta che è mia, mia di diritto.

Allora forse... forse potrò riposare. Nella terra. Le mie mani cercano il pugnale, mi preparo a tagliargli la gola.

Chiudo gli occhi, e il flusso dei ricordi mi assale di nuovo.


L'erba sotto di me grondava sangue. Il mio. Guardavo la succube, tossendo per cercare disperatamente di respirare, di restare viva. Lo cercavo con lo sguardo. E lo vidi. Lei lo stringeva tra le braccia, e i suoi occhi erano vuoti, privi di volontà. Fissava il nulla, mentre agonizzavo ai suoi piedi. Lei rideva, argentina, assordante.

Il respiro mi si spezzava in gola. Non c'era più carne sulla mia schiena, le mie costole premevano contro la terra. Eppure, non sentivo dolore, non più. Solo freddo. Era così, la morte? Un senso di fredda, distante, pace rassegnata. Sorrisi. Poi, vidi le lacrime sul volto dell'elfo. E desiderai vivere, disperatamente.


Soffocai a stento il grido, per non svegliarlo.

Tornare. Tornare. Non era stato lui. Non era stata colpa sua. Aveva perso il controllo, e ne avevo pagato il prezzo io. Posso vedere ora, sulla sua pelle d'alabastro, i segni della frusta della succube. Stringo i denti, mi guardo attorno. Posso avvertirne la presenza, da viva non ero mai stata tanto sensibile come ora al male e alle sue fonti.

La vedo. Bella, come una dea. Forme modellate per attrarre, sottomettere. Una bocca per cui un uomo potrebbe morire. Per cui potrebbe uccidere. Per cui potrebbe uccidersi.

I miei incanti non sono mai stati tanto potenti come ora. No, da viva non avrei mai potuto farlo. Il mio corpo si trasfigura nelle forme d'ombra. Divengo spettro, inconsistente, impalpabile. Dalle mie mani fluisce il potere.

Una cappa di silenzio cala. Lui non deve svegliarsi. Non deve vedermi così. No.

Il mio potere, la mia rabbia, fluiscono.

É la mia sofferenza quella che si abbatte su di lei, dilaniandola poco a poco.

È la mia stessa follia che le distrugge la mente, brandello dopo brandello, con le grida delle guardie macellate, con i gemiti di Jeremiah, con il sapore e l'odore della terra, della sua stessa carne che poco a poco si stacca putrefatta dalle ossa senza poter far nulla per arrestare il decadimento, che le si riversa dentro.

È l'essenza della mia stessa innaturale esistenza che alla fine la spinge a dissolversi, a fuggire da quella che è diventata la mia condanna eterna.


Stringo i denti. È finita. E lui.. lui... nemmeno si è destato dal sonno. Quando aprirà gli occhi sarà libero. Libero di vivere, libero di ricordare. Di ricordarsi di me.

Sorrido. Libero di ricordarsi com'ero. Di pensare a come avrebbe potuto essere. E di dimenticarmi. Di vivere.


Chiudo gli occhi.


Le dita delicate dell'elfo mi infilarono al collo il ciondolo. Il cristallo splendeva con la forza del suo amore tra i miei seni. Il pegno d'amore degli elfi, il pegno che era da solo promessa, giuramento e fedeltà eterna. Sarebbe tornato per me... sempre.


La stella eterna s'accende sul mio petto scarno, sotto la tunica logora. Lo sfilo, per osservarlo e qualcosa dentro di me si spezza, di nuovo. Di nuovo, vorrei poter piangere.

Delicatamente, lascio scivolare il cristallo accanto all'elfo addormentato, dove potrà trovarlo.

Sottile, impalpabile come un'ombra, mi allontano, in silenzio.


“Andiamo, Midnight. Torniamo a casa.”

  
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