Note
dell’autore:
Le
mie one-shot hanno come protagonisti sempre lo stesso
ragazzo o ragazza-dipende dai casi. Ho
preso questa decisione per non creare un personaggio al quale il lettore
potrebbe attaccarsi troppo aspettandosi un continuo, o per il quale spererebbe in un finale diverso.
È
una one-shot e rimarrà tale.
In
questa storia -ispirata al film Titanic- il
personaggio principale è una ragazza, che ho deciso di chiamare Abbey proprio
per i motivi citati sopra. Troverete molte analogie con il film, ma il finale
non sarà lo stesso…
Titanic
°.Il segreto di un amore
sommerso.°
*
Giacevo sul letto in panciolle. E
come al solito c’era troppo silenzio perché io potessi sentirmi a mio agio in
quel villino di campagna. Così, con un gesto furtivo del braccio avevo pompato
lo stereo al massimo ed ecco che la musica rocckeggiante
di Elvis faceva vibrare le finestre della casa.
Mia nonna era al piano inferiore,
ritta davanti ai fornelli nonostante la sua veneranda età. Aveva passato i
novant’anni da tempo, eppure, si ostinava a deambulare per la casa, sbrigando
la maggior parte delle faccende domestiche. Con lei era impossibile annoiarsi:
mi raccontava delle due Guerre Mondiali, dei suoi viaggi, ma soprattutto dei
suoi amori.
«Abbey!» I suoi capelli lunghi e
bianchi erano sempre raccolti in una treccia, che cadeva morbida lungo le
spalle. Portava un golfino color porpora che abbracciava la sua esile vita.
«Nonna.»sollevai il busto portando i
gomiti sul letto, formando due enormi fossette sul piumone.
«La cena è in tavola.» volai per le
scale, pronta per gustare un’altra delle sue specialità. Per il mio palato la
sua cucina era il paradiso, per il mio stomaco la salvezza dal digiuno.
Come ogni sera eravamo solo io e
lei, sedute ad una delle due estremità del tavolo rettangolare del soggiorno. Non
mangiavamo mai in silenzio perché lei chiacchierava di continuo. Mia nonna
aveva gli occhi stanchi, e le membra affaticate dal passare dei secoli –potremmo
ironicamente dire.
Come sua abitudine dopo cena tirava
fuori dal forno o dal frigo un qualche dolce tipico di ogni luogo che aveva
visitato in gioventù. Veniva da una famiglia ricca che le aveva dato sempre
tutto, e che lei aveva puntualmente rifiutato.
Mia nonna era una ribelle, proprio
come lo ero io a quel tempo.
A diciannove anni si ha tutta la
forza per lottare contro il mondo, poi cresci, e ti accorgi che qualcosa ti
pressa sistematicamente, ti schiaccia sino a polverizzarti del tutto, spazzando
via ciò che ne rimane: i sogni e le speranze.
Ma lei, quella donnina così esile, e
allo stesso tempo così determinata era la mia fonte infinita d’ispirazione
dalla quale traevo importanti insegnamenti e, che contemporaneamente, mi faceva
sognare.
Quella sera ero seduta sul letto, ed
avevo appena attaccato il telefono in faccia a Leo, il mio ragazzo.
Tra di noi non funzionava più, forse
era colpa mia, forse colpa sua, ma qualcosa non andava.
Ero stanca di piangere per lui. In
verità ero stanca di lui e basta, per questo erano un po’ di giorni che uscivo
con un altro ragazzo: Lucas Thomas, un anno più grande di me.
Lui mi faceva ridere, mi faceva
stare bene, e mi trattava come nessuno aveva fatto prima.
Mia nonna sapeva tutto perché era l’unica persona a cui svelavo i
miei segreti.
«Tesoro, io vado a…»
s’interruppe sull’uscio, guardando i miei occhi arrossati«Cos’è successo?»
«Niente. Sto bene» dissi tirando su
col naso.
«Abbey»
«E va bene, sto male. Tutta colpa di
Leo».
«Cos’ha fatto ancora?»
«Abbiamo litigato, ed io l’ho
lasciato». Accostò la porta, scivolando elegantemente sul pavimento nella mia
direzione. Le feci spazio e lei si sedette, accarezzandomi i capelli.
Le parlai dei nostri problemi, del
fatto che lui non era più sicuro e che ripetutamente mi aveva tradita, ma che
non poteva sopportare che qualcun altro stesse con me, tipo Lucas. Le dissi
anche di lui, dei pomeriggi al parco, in gelateria, al Luna Park, al cinema.
Due caratteri completamente diversi,
opposti: Lucas sorrideva instancabilmente, non mi chiedeva mai di Leo, sebbene
era al corrente che per tutti lui era ancora il mio fidanzato. Ma io non
volevo, lui mi opprimeva, mentre Lucas mi faceva respirare.
«Capisco» annuì portando le mani in
grembo.«Dimmi Abbey, ti ho mai raccontato di Jack?»
Scossi la testa. Lui mancava al mio appello.
Fece un profondo respiro. Mi sorrise
alzandosi in piedi, la vidi accostarsi alla finestra, guardare fuori e
ricordare; allora capii che stavamo per fare un tuffo nel passato.
Ancora una volta.
**
«Correva l’anno 1912 Abbey, e per tutta la mia famiglia quell’anno
avrebbe lasciato il segno. Ma ancora non sapevamo in che modo. » la vidi
deglutire e socchiudere gli occhi. Quel ricordo doveva far più male del
previsto.« Conosci la storia del Titanic?»
«Certo, nonna»
«Sai anche quando è affondato?»
«Il 14 Aprile 1912»
Annuì rammaricata.
«Oh, mio Dio. Questo non me lo avevi
mai detto.» mi sedetti rivolgendo completamente la mia attenzione alle sue
parole.
«Nemmeno a tua madre piccolina.»
fece un altro sospiro, poi cominciò a raccontare.
«Ricordo
ancora gli odori ed i sapori di un tempo che ora sembra non esserci mai stato;
le risate fresche di persone sparite, risucchiate dalle onde e dal ghiaccio.
Tuttavia è ancora tutto dentro di me, racchiuso nel mio cuore, che ha smesso di
battere esattamente ottantuno anni fa…
Ero
giovane, un po’ più piccola di te. Vivevo in un mondo fatto di sfarzi, danze e principi
azzurri; nuotavo tra i diamanti e passeggiavo senza mai toccare con i piedi la
terra. Era un altro mondo il mio, costruito su di una fiaba, affondato col
Titanic.
A
quel tempo il mio fidanzato apparteneva ad una buona famiglia, eppure, sapevo
che non era quello adatto a me. I suoi modi di fare erano fintamente sputati a
quelli dei poemi cavallereschi, che ormai erano solo oggetto di allettamento
per le menti delle giovani fanciulle come me in cerca di marito. Così, regalata
troppo a lungo nella mia camera una sera uscii, dando libero sfogo alla mia
irrequietezza; e fu proprio sul ponte della nave che lo conobbi: Jack veniva
dai bassi fondi , con un cappello e dei vestiti sgualciti, ma con il sorriso
del più tremendo figlio di puttana, che ne sa sempre una più del diavolo.
Camminava
perplesso, con la sigaretta in bocca e le mani in tasca. Io guardavo il mare
invece, persa fra le onde e la spuma marina, quando mi accorsi che qualcosa si
era posizionato accanto a me…
–Bella
serata.–ero arrabbiata, perché il mio fidanzato non mi lasciava via d’uscita;
pretendeva ch’io fossi completamente sua, un po’ come una serva. E troppo
spesso aveva abusato della mia pazienza, provando ad approfittare anche di me.
Quando sentii per la prima volta la voce di Jack risposi aspramente:
–Tu
non dovresti fare compagnia ai tuoi amichetti, giù nella stiva?– lui parve
irritato, ma ben presto la sua espressione cambiò.
–Oh,
beh, certo. I topi di fogna come me non possono uscire al chiaro di Luna.–si
allontanò, portando più e più volte la sigaretta alle labbra.
–No,
senti, mi dispiace.– si fermò, e si voltò verso di me. Era sorpreso.
–Ti
dispiace? Credevo che a voi ricconi non capitasse mai di chiedere scusa, fatta
eccezione se dovete rivolgervi ad un vostro pari.– Jack aveva ragione mi ero
comportata come tutti quei nobili spocchiosi che io stessa detestavo, e ai
quali mai e poi mai avrei voluto assomigliare.
–Perdonatemi.–
–Preferisco
che mi sia del tu.– tese la mano verso di me–mi
chiamo Jack, Jack Foster. Signorina…–
–Rosalie Lund.– dissi
stringendogli la mano,– e preferisco che mi si dia del tu.–
soffocò un risolino, quello era stato l’inizio di un sogno, Abbey. Il mio.
Uscivamo
di nascosto— soprattutto la sera— e spesso io scendevo giù fra la gente comune per
stare con lui ed i suoi amici, per vedere il suo mondo, per capire; ogni volta
imparavo cose nuove, canzoni, storie, racconti mai sentiti e mai immaginati.
Guardavo i suoi occhi e mi vedevo riflessa chiaramente. Sorrideva e qualunque
cosa facessi lui mi appoggiava. Ballavamo assieme, petto contro petto, e quando
la mia pelle veniva a stretto contatto con la sua era un’emozione unica.
Tutto
sembrava andare per il meglio, sin quando mia zia non ci scoprì. Devo essere
sincera, lei non disse nulla ai miei, nemmeno una parola. Anzi, aiutò la mia
neo nata storia con Jack coprendomi quando gli altri chiedevano di me. Ma c’era una cosa che avevo ingenuamente
dimenticato, un fattore importante: Johnatan. Il mio
fidanzato di allora era divenuto sospettoso, chiedendosi dove andassi ogni
notte. Io, presa completamente dalla voglia di stare con Jack, avevo omesso di
tenere occupato anche lui. Così, mandò
uno dei suoi servetti, leccapiedi, a controllarmi.
Quando
ci vedemmo per fare colazione la mattina seguente, lui era furioso, completamente
fuori di sé. Diede di matto, rovesciando il tavolo e tutte le pietanze,
imponendomi il suo dominio, il suo amore.
Ma
come puoi esservi amore se non si è in due ad amare?
Io
di tutta risposta lo guardai dritto negli occhi, intimidita. Johnatan s’infuriò per quella mancanza di rispetto, e mi
mollò un ceffone tale da farmi lacrimare. Non avrebbe dovuto farlo, Abbey. Io non
ero ancora sua, e mio padre–protettivo e geloso delle sue figlie femmine– andò
su tutte le furie quando glielo dissi.
Sciolse
il suo accordo, e mandò all’aria un affare da milioni di dollari. Mia madre era
nauseata perché, pur essendo una donna di vecchi principi, era anche
un’accanita sostenitrice dei diritti
femminili, e mio padre in questo, era cent’ anni avanti.
Una
volta tolto di mezzo John, per me e Jack era divenuto tutto più semplice. Non
eravamo più due clandestini con la paura di essere scoperti e giustiziati; ma
l’aristocrazia rimane tale, che sia il 1800, o 1900 e tutti i nostri coetanei
ci guardavano con fare altezzoso. Sputavano sentenze a sbafo, accusando Jack di
avermi attratta con chissà quale inghippo
per ottenere i miei soldi. In realtà io sapevo che lui era veramente
innamorato di me, e presto avrei rimpianto l’unico che mi aveva apprezzata,
guardando oltre i gioielli ed il denaro verdeggiante.
Una
notte però, rientrando nella mia stanza vidi John venirmi incontro furente.
Aveva
il fiatone, la camicia sgualcita ed uno sguardo rabbioso. Mi prese per una
spalla, trascinandomi nella stiva, tra le carrozze ed i vecchi cassettoni. Le
mie grida non erano udibili perché
eravamo troppo lontani persino dal corridoio della classe economica .
–Dimmi
Rose, come ci si sente ad essere in trappola come dei topolini?–gli sputai in
faccia, priva di alcun timore. E forse non aver paura di niente, non era
talvolta un pregio.
John
mi diede una sberla, rivoltando il mio viso contro il muro freddo della nave.
–Va’ a farti fottere stronzo!–ecco che
mi diede un altro schiaffo, provando piacere nel vedere il mio labbro inferiore
sanguinare.
–No,
prima mi fotto te!– cacciai un urlo stridulo e lui mi soffocò, riversando la
mia testa all’indietro, premendo forte.
Io
mi lamentavo, cercavo di reagire mentre sentivo la sua mano correre velocemente
sotto la mia gonna. La fece a pezzi, e con essa anche le mie calze. Io
scalciai, e nel farlo colpì quelli che dovevano apparentemente essere i suoi gioielli di famiglia.
Corsi
verso l’uscita ma lui mi fu di nuovo addosso, buttandomi a terra. Urtai il
capo con veemenza.
Stordita
dall’urto, non riuscivo a definire bene i contorni di John, che si era
probabilmente slacciato i pantaloni—questo lo dedussi dal rumore che fecero
scivolando giù— ed ora era ricurvo su di me. Il suo corpo pressava sempre di
più, soffocando il mio petto e provocando un lancinante dolore che correva
lungo il corpo. All’improvviso quella tortura cessò. Socchiusi gli occhi, cercai di mettere a
fuoco, di capire, ma ricaddi con la testa all’indietro. E svenni.
Al
mio risveglio ero nella mia camera, confusa, indolenzita. Mi passai una mano sul
viso, per schiarirmi meglio le idee—non certo per ricordare. Intorno a me vidi un medico, mia madre in
lacrime e mia zia che la consolava stringendola tra le braccia.
Poi,
mio padre fece il suo ingresso sconvolto gettandosi su di me, abbracciandomi.
–Papà…– sibilai cercando di parlare, o per
lo meno di respirare. Lui però, aumentò la presa. Avevo capito il perché.
–Mi
dispiace piccola.– lo sentii piangere per la prima volta in vita mia. E forse
anche mia madre.
–Non
è colpa tua. Non fa nulla.– sapevo che le mie parole erano campate in aria. Una
figlia non vergine non l’avrebbe più voluta nessun uomo. Ormai ero disonorata.
Bussarono
alla porta già aperta.
–Entra
figliuolo.–mia zia lasciò mia madre, e si alzò in piedi, dirigendosi verso
Jack; aveva una mano fasciata, e lo sguardo chino. Amorevolmente, poi, lei lo
fece sedere accanto a me, allontanando mio padre.
–Come
stai?– la sua mano sana prese a giocherellare con i miei capelli rossi sfatti.
I miei genitori e mia zia se ne andarono, lasciandoci definitivamente soli.
–Adesso
meglio.– mi baciò, poi, ghignò soddisfatto.
–Il
suo sapore se n’è andato.–
–Si.
– sussurrai sottovoce. –Ma l’azione resta comunque. –
–Lo
hanno rinchiuso in una delle stanze vicino alla stiva.–
–Per
fortuna tu sei arrivato prima. –
–Sh!– fece ridendo,– questo i tuoi non
lo sanno.–la sua fronte contro la mia, ed un baciò tirò l’altro.
Jack
aveva quell’innata capacità di farmi sempre ridere, anche nei momenti peggiori.
Non capivo come ci riuscisse, eppure mi faceva sempre sentire a mio agio. Mi
faceva dimenticare le cose brutte, guardando solo quelle belle.
Venivamo
da due mondi opposti: io mi lamentavo di non essere libera nonostante ottenessi
più quanto potessi immaginare; lui, povero, che viveva alla giornata rideva,
volgendo le cose al positivo. Lo amavo e non potevo farne a meno, lo volevo, e
non desideravo altro.
E
con i suoi baci e le sue carezze lavò via anche i segni e le ferite più
profonde.
Quella
notte fu indimenticabile per noi, anche perché fu l’ultima. Sdraiata sotto le
coperte, accanto a lui sobbalzai dopo aver sentito un rumore. Come se la nave
avesse avuto una collisione.
Jack
mugugnò qualcosa e si rigirò dall’altra parte, io invece scattai in piedi.
–Cos’hai?–mi vestii in fretta e furia,
mettendo sopra la vestaglia un cappotto nero lungo.
–Credo
che la nave si sia scagliata contro qualcosa.–
–Rose,
il Titanic è inaffondabile.–
–Lo
so. Ma è meglio essere prudenti.–scosse la testa fece altrettanto.
Mi
seguii fuori dalla prima classe.
Percorremmo
il corridoio, sino a risalire sul ponte. Davanti ai nostri occhi si apriva una
distesa di ghiaccio con cui alcuni bambini stavano giocando. Cercai di capire e
con Jack per mano andammo incontro a due uomini che osservavano curiosi.
Uno
di loro indossava una bombetta nera.
–Cosa
è successo?–gli chiesi preoccupata.
–Un
Ice-berg.– rispose secco e in tono superficiale.
–Cosa?–
–Si,
signorina. Ma non è nulla di grave.– rise rivolgendosi al suo compare,– Questa
nave, è inaffondabile.–
Deglutii
terrorizzata.
Ero
si una giovane pazza ed incosciente, ma non sino a quel punto. Un Ice-berg è
pur sempre un Ice-berg, e che lo si volesse o meno, il danno era fatto.
I
nostri destini erano ormai segnati.
Mio
padre e mia madre mi stavano cercando, dopo aver visto che non ero più in
camera mia.»
Mia nonna sospirò, portandosi una
mano alle labbra. I suoi occhi divennero lucidi, ma sapevo che in quel momento
si stava facendo forza per non piangere davanti a me.
«Quando la nave ha cominciato ad
affondare, siete saliti sulle scialuppe.»ma la mia, più che una frase, era una
domanda che avevo il presentimento avrebbe avuto un esito negativo.
Riprese fiato e continuò il
racconto.
«Quando
la nave cominciò a sprofondare i mozzi stavano già facendo salire donne e
bambini sulle scialuppe. Vedevo la gente terrorizzata correre da una parte all’altra:
alcuni si erano fermati vicino al porticato in legno sotto il quale passavamo
di solito io e Jack, mano nella mano durante una delle nostre fughe segrete.
E
lo sai che faceva quella gente Abbey? Pregava.
Cercavano
aiuto da Dio. In quel momento ero troppo scettica e spaventata per credere che
uno sconosciuto ci avrebbe dato una mano, così, su due piedi. E allora ci
avviammo verso le scialuppe, ma io non vi salii mai. Non avrei lasciato Jack lì
da solo, e restai a bordo, vedendo mia madre sparire sull’acqua con altri
membri della nostra famiglia. Piangeva, provando con ogni mezzo a giustificare
la mia scelta, ma le occorse più tempo del previsto.
Quando
la nave cominciò ad impennarsi le scialuppe si erano allontanate tutte.
Sembravano tante piccole lucette che si dimenavano tra le onde.
Raggiunta
la prua ci aggrappammo alla ringhiera, e nell’esatto momento in cui io e Jack
ci stringevamo attorno al palo in ferro, la nave si spezzò in due; e mentre la
parte in cui ci trovavamo noi galleggiava, l’altra raggiungeva il fondale
oceanico.
Quella
notte fu terribile Abbey. Vidi un’infinità di morti, tra bambini adulti e
quant’altro.
La
presa scivolò di colpo. Ero terrorizzata, ma ancora una volta lui era al mio
fianco. Mi tese la sua mano, allentando quindi la sua resistenza. Non ce
l’avremmo fatta, uno dei due doveva cadere giù in acqua.
Con
le dita riuscii-seppur a fatica- ad agguantare
un’estremità della ringhiera sulla quale era appoggiato Jack; lui mi sorrise
innocente, io mi avvicinai e premetti le labbra contro le sue.
–Ti
amo Jack.– dopodiché mi lasciai cadere.
–Rooooose!– il suo grido giunse chiaro e
forte alle mie orecchie; e mentre rilassavo ogni singola fibra del mio corpo
ricordavo il tempo trascorso accanto a lui. Sorrisi, e la morte mi parve di
colpo più naturale. Avevo accettato il mio destino, e di dover dire addio
all’unico vero e grande amore della mia vita.
La
mia schiena si scagliò con forza contro la parete di ghiaccio sottostante, arrecandomi
un dolore lancinante e impedendomi qualsiasi movimento. Era la fine.
Eppure,
con quei pochi sensi attivi che ancora avevo, percepii una familiarità nel
gesto che mi soccorse. Delle mani possenti mi avevano afferrata, portandomi su
una lastra di legno.
Schiusi
gli occhi.
–Rose.– qualcuno sussurrava il mio nome,–
Rose, mi senti?–
–Jack?–
sul suo volto ricomparve quel ghigno da figlio di puttana. Aveva vinto la morte
ed era soddisfatto.
–Grazie
a Dio,– mi baciò compiaciuto.
–Vieni,
– gli feci posto accanto a me,– congelerai nell’acqua.–
Jack
mi guardò per un po’, si convinse ridendo come solo lui sapeva e girò attorno
alla tavola per venire accanto a me. Le persone gridavano, ma era come se tutto
attorno a noi si fosse annullato, sino a che…»
S’interruppe singhiozzando.
«Nonna, se non vuoi, non fa nulla»
mi mossi nella sua direzione ma mi scacciò con una mano. Voleva finire ciò che
aveva cominciato. Tipico.
«…La nave sprofondò del tutto, sollevando un’onda gigantesca
che ci lanciò lontano, separandoci.
–Cazzo!–
nuotai con il legno sotto di me, portandolo verso di lui, ma non ci fu tempo.
Jack fu colpito in testa da una carcassa volata via dal ponte, forse una pezzo
di panchina, uno di ringhiera, qualsiasi cosa fosse gli fece perdere i sensi, e
lui fu divorato dall’acqua.
Accelerai
la nuotata, ma oramai Jack era morto.
La
morte lo aveva fregato.
Furono
mandate scialuppe per soccorrere i superstiti, ma io ed un’altra ragazza
soltanto riuscimmo a passare la notte. Attorno a noi galleggiava un cimitero.
Mi
sedetti, e mi offrirono un mantello che mi arrotolai attorno, affondando il
viso rigato dalle lacrime. Con un’ultima occhiata scrutai l’acqua e le onde
ormai dissolte. Provai a respirare, ma era divenuto difficile.
–è
sola signorina?–
Deglutii,
regolando la voce.
–S-si.– balbettai incerta, come se mi
aspettassi che lui sarebbe sbucato fuori all’improvviso, come al solito, che
avesse sconfitto l’ostacolo con il suo sorriso e la voglia di vivere. Ma non fu
così. Jack aveva perso, e per sempre.
La
ragazza di fronte a me tremava avvolta nello stesso lenzuolo, singhiozzava
terrorizzata, e per tutto il viaggio di ritorno non spiccicò una parola. Io
invece dicevo addio all’amore mentre con un dito sfioravo l’acqua gelida
prendersi gioco di me, di tanto in tanto incontravamo vestiti, oggetti,
persone, tutti ghiacciati. I resti del Titanic, la nave dei sogni
inaffondabile.
La
nave del mio primo vero amore.
La
notte del 14 aprile 1912 il mio cuore cessò di battere assieme a quello di Jack
e si inabissò col Titanic, sommerso per sempre.»
Non seppi trattenere le lacrime.
Tuttavia capivo finalmente il perché del suo rifiuto costante di vedere quel
film. Lei l’aveva vissuta quell’esperienza, e forse troppo intensamente per
riviverla attraverso uno schermo.
Trasse un profondo respiro.
« Mi dispiace.»
«Sai, Abbey, in fin dei conti non ho
mai smesso di amare Jack perché non volevo voltare pagina. Tuo nonno però mi
aiutò, guidandomi giorno per giorno. E l’ho amato. Non alla stessa maniera, ma
l’ho amato.»
Sorrise incerta, slegando la
catenina che portava al collo. Me la tese ed io lessi i nomi incisi sopra.
«Jack e Rose» la studiai bene, in
ogni sua rifinitura.
«Volevamo avere una vita nostra. Ma
non ci siamo mai riusciti. Non ne abbiamo mai avuto la possibilità. E semmai
avessi dovuto scegliere, io avrei scelto lui. Fra mille, io avrei visto solo
lui.»
«Vorresti mai poterlo rivedere?»
«Ogni notte, nei miei sogni. È il
motivo per il quale so che lui vive ancora»fece una breve pausa« è tua Abbey,
fanne buon uso» uscì dalla porta, lasciandomi sola con le mie riflessioni.
Mi lasciai cadere all’indietro, con
la catenina dunque al collo. Guardai il soffitto.
***
Mia nonna morì qualche settimana più
tardi, da tempo ormai soffriva di cuore ed in parte mi sentivo colpevole della
sua scomparsa. Mi aveva lasciata col sorriso sulle labbra, e sapevo che non dovevo
essere triste né piangere, perché lei in quel momento, mentre io le donavo un
giglio bianco, stava sicuramente passeggiando da qualche parte lassù nel cielo,
mano nella mano con Jack. Probabilmente
erano lì che ridevano e scherzavano in ricordo di quei giorni.
«Andiamo Abbey» Lucas mi strinse la
mano forte, vicino a me. Chinai il viso malinconica.
Avevo capito cosa volesse dire mia
nonna, che col suo sorriso, la sua voglia di vivere ed i suoi racconti mi aveva
cresciuta, guidandomi in ogni fase importante della mia vita; ma ora era tempo
di fare da sola, di crescere a modo mio, con un'altra persona al mio fianco,
com’era giusto.
Se n’era andata mia nonna, all’età
di novantasette anni, portando via con
sé il dolce ed amaro segreto di un amore
sommerso.
Per sempre.