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Autore: Darvo    17/12/2009    2 recensioni
Una storia sul tre. Odio le presentazioni, leggete e godetevelo. Spero vi piaccia. Purtroppo non riesco a caricare la storia tramite il modulo di upload, per cui ho dovuto inserirla in modo volgare come testo... non spaventatevi, solo solo 10 fogli di Word :)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNA STORIA SUL TRE


“Come ti chiami?” “Elena” (mi serve un nome). Così era iniziato tutto.

“Come si chiama?” “Giorgio” (mi serve un altro nome). Così era finito tutto. O quasi.

Sporcizia. Fango. Un fiore calpestato. Fango nell’anima e nel corpo, schifo ovunque. Uno schifo che nessun sapone potrà mai lavare via. Una chiesa violata, una tomba violata. Merda ovunque. Questo sente ora, mentre una leggera brezza gli accarezza le lacrime. Osserva il mondo giù che lavora e vive infaticabile. Come formiche, formiche di carne e vestiti, di soldi e occhiali, gli uomini di sotto si muovono. Freneticamente, spasmodicamente. Lavorano incessantemente per accumulare ricchezze e proprietà, per accumulare soldi e comprarsi le belle macchine che li uccidono, coi loro gas di scarico e i loro pezzi di ferro che si conficcano nelle carni di poveri sprovveduti la cui unica colpa è stata quella di essere passati nel momento sbagliato ad un incrocio. Accumulano. Accumulano soldi per comprarsi i loro vestiti firmati e le loro bottiglie di scotch o vino, per sballarsi la sera, scappando da un mondo che non li comprende. Accumulano soldi per lasciarsi morire. Accumulano cose che ritengono preziose come l’oro e come il diamante – e intanto perdono la cosa più preziosa che possano avere. Il tempo. Ma questa è un’altra storia. Il tempo è sempre un’altra storia. La storia di chi il tempo non ce l’ha vorrebbe averlo e quella di chi lo ha e lo butta come fosse spazzatura. Solo alla fine quel qualcuno si accorge della dannazione a cui è costretto dalle sue stesse azioni.
E lui è lassù. Mi serve un nome. Un terzo nome. Mi servono tre nomi per cominciare questa storia e due li ho trovati. D’altronde potrebbe funzionare perfettamente anche senza tre nomi, è una storia che può andare bene per qualunque nome si usi. Tre nomi vanno bene. Zero, il nulla. Uno, l’identità. Due, la vita che esplode. Tre, in questo caso, la morte che arriva. Quattro? Quattro non c’è, per ora. E lui è lassù. D è lassù. Non voglio un nome per lui. D va benissimo. Guarda giù, poi guarda su. Lassù fissa le nuvole in alto – preannunciano pioggia. Questo magnifico giorno splendente che volge al termine vede in lontananza dei cumuli di tenera ovatta minacciosa. Chissà se sarà un’informazione importante il fatto che pioverà fra un minuto o due o fra un’ora o due. Chissà dove sarà D fra un’ora o due. Chissà se sarà. Dunque, sopra le nuvole, sotto le formiche biascicanti. Si sforzano queste ultime, mentre le prime fanno tutto con calma. Loro il tempo lo hanno ed il loro compito non è così difficile. Far scendere dell’acqua, ogni tanto. Niente di particolarmente difficile. Niente di particolarmente eccezionale. Tra questi due estremi, il mondo e la sua vita. Tra nuvole e formiche umane, l’angusto spazio del vivente.
È così stretto questo mondo per chi non sa vivere. Non è un gran mondo in cui vivere in effetti. Stretto oltre ogni prospettiva. Prospettiva? Un solo scorcio esiste per chi non sa vivere. Lo scorcio della noia e dell’apatia. Lui è lassù. Ovunque guardi, vede palazzi. Palazzi grigi, palazzi gialli, palazzi multicolore – ma pur sempre scatole di cemento, gabbie dorate in cui le nostre esistenze si consumano tra un lavoro e una dormita. E sbomballamenti vari nel mezzo in effetti. Non dimentichiamoci gli sbomballamenti. Quando si è piccoli, si gioca sotto casa – e forse è l’unica vera libertà che abbiamo. Giocare sotto casa immaginando di essere nel deserto o nei pressi di un castello incantato. L’altalena è il ponte levatoio e dietro c’è il drago rosso fiammeggiante che vuole mangiare il principe, mentre la principessa urla a squarciagola il nome del suo amato. Si combatte per finta, si uccide per finta. Non si muore per davvero, come in guerra o dentro casa, quando, forse per mancanza di spazio o libertà, o per chissà quale frenesia o malattia mortale – o forse solo per noia – si uccide la propria madre, il proprio padre, il proprio figlio – si violano l’anima ed il corpo di una ragazza innocente. Cani. Anzi no. i cani meritano rispetto. Loro non uccidono senza motivo. Umani. Mi sembra quasi che possa essere considerata una parola offensiva. Prediletti da dio. Evidentemente da un dio malvagio che odia l’universo. Si annoiava, dice Nietzsche. Divertente questa. Andiamo avanti, dico annoiato anche io.
Da piccoli siamo liberi artisti vaganti e tremuli. Poi cresciamo, perdiamo l’innocenza e acquistiamo la ragione. Bello scambio. La ragione ha creato più guerre che opere d’arte, più morte che bellezza. Ma così è. È la vita, dicono. Io questa vita mica l’ho capita. Le sue regole intendo. Il capitalismo? La ricchezza? L’onore, la fama, la proprietà? Sono questi i valori per cui bisogna vivere? Ribadisco, io le regole di questo gioco non le ho capite. Un gioco di nome vita, che triste parodia. E neanche D l’ha capita tutta questa farsa. Non l’abbiamo capita. Da ragazzi, si perde la fantasia e si incorpora la noia. E nasce la necessità degli sbomballamenti, un’invenzione niente male per chi non sa vivere. Droga. Sesso primitivo, sesso dissennato, sesso senza fantasia, sesso senza amore. Sesso senza vita, sesso senza niente. Un idolo senza l’ideale. Un anello di plastica placcato d’oro. Un sesso inutile. O sesso futile, a scelta. Sesso di plastica. E musica di plastica. Cinema di plastica. Giochi di plastica. La plastica virtuale è quella che governa questo mondo, oggi. La musica di plastica è la cosa più orribile. In effetti un aggettivo materiale per designare qualcosa di immateriale e aulico come la musica suona veramente male. Omologazione. Pressurizzazione. Standardizzazione. Annientamento dell’io. Quanti sinonimi per delineare la morte dell’identità. A volte non si ha il coraggio di essere un io. Si vuole far finta di essere un noi. Noi vogliamo che tu sia così. Noi vogliamo che tu non esista. Annullati, inginocchiati, ammira la nostra potenza – di plastica. Che merda. E questa la chiamate vita? Ma abbiamo lasciato D lassù, a contemplare la sua vita dall’alto. La sua scelta è stata un attimo – perché questa è, ovviamente, la sua scelta – e queste le sue considerazioni mentre è lassù. Non le mie, ovviamente. O forse le mie, ovviamente. Dicevo della sua scelta. Un istante, davvero. Ore e ore passate… scusate, giorni e giorni passati sul letto a ripensare a quanto è accaduto ed ora – un istante ed è lassù. Il tempo di trovare le chiavi di casa e quelle del terrazzo. Ed è lassù. Scavalcare il muro non è un problema, ci riuscirebbe anche un neonato. Ed è lassù, ora. Sul parapetto del suo palazzo a fissare il mondo che si uccide in ogni istante e gioisce della sua stessa morte. Guarda ancora in basso. Le gambe tremano. Non si sente pronto a morire. Ma quando mai lo si è? Eppure, lo ripeto, ci si uccide ogni giorno. Ogni giorno si muore di niente, di inedia. Fra tutti i peccati capitali il peggiore è decisamente l’accidia. La pigrizia nel vivere. La ‘volontà di impotenza’. La voglia di non vivere. La voglia di non essere. La voglia di staccarsi da tutto quanto abbia un vero valore. (Trasvalutazione di tutti i valori?) Eccolo delineato il male dell’umanità. Questa fretta bastarda di correre verso il proprio creatore per poi scoprire che siamo uno e si diventa zero, alla fine. Nietzsche l’ha delineata bene questa fretta bastarda, ma parla solo di un tipo di accidia – quella cristiana. Mi perdonino i cristiani per quanto affermo. D’altronde quella non è l’unica via per morire ogni giorno. Forse è solo la più artistica e idolatrata. Qualcuno mi odierà. Molti mi odieranno. Qualcuno – pochi – capirà.
Ci sono vite che davvero non voglio essere vissute. Si trova ogni mezzo per fuggire da esse. Ci si droga. Ci si lascia andare tra un quiz televisivo ed un reality show – d’altronde guardare le vite degli altri è più semplice che vivere la propria. Ci si sposa. Si fanno figli che non si vogliono. Si obbligano i figli a seguire le proprie orme. Si fanno lavori scelti da altri. Si perdono le passioni. Si rinuncia alle passioni. In poche parole, ci si uccide e a volte si uccide – magari si pensa che uccidendo gli altri si muoia, chissà perché. Si segue la moda… ossia i gusti degli altri. Ce ne sono tanti di modi per morire o per lasciarsi morire. Perché tanto si pensa che la vita prosegua o che ci sia qualcosa dopo, che so una seconda possibilità. Ricordiamocelo, figli di nessuno: ‘uno’ è l’identità. Una la vita. E per ironia uno dei modi per morire è il suicidio. D ha scelto questo. Decisione drastica, davvero. Invece di lasciarsi andare, di continuare e crescere così, senza senso, decide di finirla qua. Invece di rischiare di diventare uno di quei vecchi che marciscono nelle cliniche a lunga degenza (lacrima), dimenticati da tutti, paralizzati, immobili, preferisce finirla qui. Guarda in basso, ancora. Le gambe tremano, ancora. Il corpo non vuole morire a quanto pare. Pensavo fosse l’anima quella attaccata alla vita. Così è sempre stato, secondo i filosofi. Ma l’anima troppo spesso vuole morire. È il corpo quello che resta attaccato ad un respiratore artificiale dopo un incidente mortale a base di alcool. E lui… lui ripensa a quel momento.
“Come si chiama?”
“Giorgio.”
“Lo conosco?”
“No… l’ho conosciuto qualche settimana fa ad una festa.”
“Una festa… quella a cui non sono venuto a casa di Chiara?”
“Sì, quella.”
“Se fossi venuto allora – ”
“Che sarebbe cambiato, D? Se è successo è perché c’è qualcosa che non va in noi, non perché non c’eri tu. Pensi che non sarebbe successo prima o poi? Pensi davvero che la tua presenza avrebbe cambiato qualcosa? Forse lo avrebbe solo ritardato…”, che delirio di parole fredde, eh? È l’amore a cambiare tutto. Il freddo diventa caldo, il brutto bello. Di solito le persone fanno schifo. L’amore le rende perfette. E buone. Così dicono. Ma chi ci crede più.
Il cuore in frantumi. Una storia di due anni in frantumi. Distrutta da un nome che non ha mai sentito. Un nome apparso dal nulla a spezzare ogni sogno. Un tizio mai visto e sentito, il primo stronzo capitato dalla prima festa del cazzo! Era davvero così fragile il loro castello? Quante domande avrebbe voluto farle – e mai il coraggio ha trovato. Per gentilezza? No, per paura. Paura di sapere più di quanto avrebbe voluto. Paura che la donna che amava, che aveva idealizzato, che aveva inventato – non esistesse. E non esisteva, in effetti. Lui aveva creato uno spirito che non c’era, mentre lei era di carne lì davanti a lui. Carne e invenzione. Un titolo appropriato. Solo una domanda voleva avere risposta. Una domanda che valeva tutto per lui. Perché magari si poteva rimediare, magari non era tutto perduto, magari il peccato commesso non era poi così grave. Certo, sarebbe bastato guardarla bene negli occhi, specchio di niente, per capire che era già tutto perduto. Ma quella domanda, quella, uscì spontanea.
“Ci hai scopato? O vi siete solo baciati?”
“Che ti cambierebbe saperlo?”, chiese lei, noncurante. Da questa fredda indifferenza avrebbe dovuto capire tutto. Anche la risposta a questa domanda. E a mille altre domande. Certo, se avesse voluto veramente ricominciare da zero, gli avrebbe chiesto scusa e si sarebbe inginocchiata in attesa del suo perdono che lui, come un Cristo redentore, con l’aureola intorno alla testa, le avrebbe concesso, cristianamente – debolmente. Ma non c’era segno di pentimento in tutto ciò. Né di volontà di perdono. Solo un’amara verità che, forse spinta dal ricordo dell’amore passato, sfiorito, spezzato – voluto – cercava di venire fuori. Gentilezza, niente più. Fredda gentilezza.
“Voglio solo la verità, Elena! Non chiedo molto! Anche il più bastardo dei cani merita di sapere la verità!”, fu infatti la sua risposta. “La verità è il bene più grande che ci sia, non puoi negarmelo! Non puoi negarmi questa verità!”
“Non ti piacerebbe saperlo, D… lascia stare. Ormai è finita, sono qui solo per dirti questo. Credo sia meglio non sentirsi più, per tutti e due.”
Un mondo che crolla, come un castello di carte. Che similitudine banale. Neanche le parole gli sono venute in mente in quel momento. Solo stupore, quel tenero stupore che segue la frase ‘non è possibile che stia accadendo a me’. Eppure così è. Accadeva a lui, in quel momento, in quel luogo, in quella fredda strada attraversata da loro, mano nella mano, decine, centinaia di volte, quando i loro sogni si intrecciavano come i loro cuori ardenti di amore l’uno per l’altra. Ed ora, niente sorrisi, niente smancerie, niente false promesse, niente illusioni, niente di tutto quanto erano stati. Tutto svanito, in un istante. La morte nel cuore e nell’anima. Eppure lui l’avrebbe perdonata se lei gliel’avesse chiesto, tanto il suo amore – o la sua follia – per lei. Ma Elena non gli ha lasciato alternative in quel momento. È volata via come un uccello dal nido. Verso un altro inizio, segnando la sua fine. E con lei è volata ogni speranza. Chissà se le peserà la coscienza quando sarò morto?, pensa D.
Lo troviamo ancora lì, ora, dopo venti minuti di indecisione. La morte ancora nell’anima che opprime. Un’anima infangata, violata, abbiamo detto. Tutta una purezza di altri tempi smantellata, strappata via a forza come un bambino dalle braccia della madre in uno di quei paesi del terzo mondo. Le gambe tremano ancora. Guarda giù, di nuovo. Il coraggio manca, in certe scelte. La voglia di morire non è mai abbastanza. Ci sono gli amici, c’è la famiglia sì, ma tutta una vita di progetti è saltata in aria come un camion su una mina. Una vita spezzata. Un fiore di campo strappato dalla mano volgare di una donna di mezza età. Le domande come sempre in questi casi si affollano per uscire. Dove ho sbagliato? Perché è successo? Di chi è la colpa? Come sarebbe andata se – se. La parola magica. La storia non si fa né coi se né coi ma, si dice. Le cose vanno così perché si è deciso di farle andare così. A conti fatti, col senno di poi, sembra sempre che le cose sarebbero dovute andare così. Ma non è vero. È nella nostra natura insoddisfatta di uomini cercare sempre di giustificare le azioni, la storia, gli eventi e cercare di trovare un senso, un fine in tutto quanto è accaduto, un telos aristotelico. Come se le cose avessero veramente un senso. Davvero lo crediamo? Si guarda indietro, al passato, a ciò che non torna, e si vuole trovare un nesso logico, un filo di Arianna, un qualcosa – qualunque cosa – che permetta di capire perché le cose sono andate così. Disperazione. Solo questo resta quando si capisce che le cose sono andate così perché… perché… perché così sono andate. Sembra tautologico, non è vero? Non c’è nessun dio che controlla tutto, nessun dio che giustifica le nostre azioni, nessun fato, nessuna provvidenza. Nessuna necessità. Solo probabilità. Probabilmente le cose sono andate così perché, date certe premesse – ossia la situazione in un certo istante – e certe decisioni, si sono prodotti certi fatti. Semplice e lineare. Come il fatto che il giorno segue la notte. Non per tutti, ovviamente, ma per noi mortali sì.
Allora davvero ha senso chiedersi se le cose sarebbero potute andare diversamente? No. Eppure D lo fa, vuole per forza spiegarsi tutto. Che errore. Ed è ancora lì, sul parapetto del suo palazzo.
D’un tratto raccoglie i suoi pensieri, volta le spalle al parapetto – e cade. Si libera del suo peso, vola giù, libero davvero da ogni pensiero, sorretto solo dalle leggi della fisica. Vede il cielo costante – cosa cambia un metro in più o in meno rispetto all’infinito? In un istante eterno, ripensa alla scelta che ha fatto – niente più sofferenza, niente più dolore, niente più paure, ansie, noie, paranoie, delusioni, illusioni, niente di tutto questo, niente fame, sete, voglia di gridare e fuggire ovunque ma in nessun luogo dove ripararsi scappare dove non si può cercare uno spiraglio di luce nella notte scappare dai fantasmi dalla vecchiaia dall’odiato amore tutto questo in un istante frenetico la sua vita passa veloce la morte è vicina ventiquattro metri di palazzo in meno di due o tre secondi niente più paura niente più felicità gioia sorrisi amato amore, niente più… niente più di tutto questo. Ripensa alla sua scelta – e se ne pente. È troppo tardi ormai. È giù, spiaccicato. No. Allora si risveglia da questo pensiero. È ancora su. Si vede spiaccicato sull’asfalto. Fine ingloriosa. No, davvero, non va così. La dannazione eterna non va bene per un attimo di lucidità. Tanto prima o poi saremo dannati comunque. Ma non ora. Non così. Che schifo, budella ovunque.
Fa un passo indietro rispetto al parapetto. Un passo. Un passo in meno verso la morte. Un solo passo e tutto cambia. Un istante. Un istante in più verso la vita. Un solo istante e tutto cambia. Tanto è bastato per cambiare la sua mentalità. Guarda giù poi guarda su. D’un tratto le cose cambiano forma. Sotto le formiche, in alto le nuvole nerastre che si avvicinano. Quanto è spazioso il mondo, quanto è immenso. Oltre i palazzi grigi e colorati, intravede delle montagne innevate – non ha mai visto la neve. E quante altre cose ancora non ha visto? E quante altre avrebbe rischiato di non vedere? Le strade brulicano di vita. Schifosa vita. Stupenda vita. Ma pur sempre vita. Pur sempre possibilità non accadute. Fintanto che si è vivi, si può fare. Pensare. Essere. E le cose possono avere colore, sapore. La Morte con la sua classica falce argentea è così lontana ed il mondo così immenso per chi vuole vivere. Bambini giocano nei parchi, giocano a nascondino. Uno conta, gli altri si nascondono. Ora li cerca. Ridono, felici e spensierati. Questi problemi non li toccano. La Morte non li tocca, con la sua falce orribile. Loro sono felici nella loro ignoranza. E lui, lui che ancora davanti a sé ha tutta la vita, lui fa un altro passo indietro dal parapetto. Si siede, accovacciando le gambe. I suoi pantaloni di pelle nera scricchiolano sotto il suo peso. Bel suono. Bellissimo. È un suono qualunque ma in quel momento è il più bello che abbia mai sentito. Il mondo è spazioso, è vero… ma lui è in grado di vivere questa vita? Ora guarda su. Nel cielo vola uno stormo di uccelli neri, gracchiando. Liberi anche loro, liberi di andare ovunque, liberi di superare gli ostacoli – liberi da pensieri assurdi sulla morte. La ragione, ancora, fallisce e oscura tutto. Si guarda intorno D, guarda gli altri palazzi. Nessuno pare essersi accorto di lui, tutti presi dalle loro convulse vite. Non c’è tempo di guardare, di osservare il mondo. Si guarda quel tanto che basta per vedere la strada davanti a sé, come se intorno fosse tutto buio e si avesse solo una lanterna per illuminare tre passi e non di più. Indifferenza, un’altra forma di accidia. La Morte ha diverse facce, abbiamo detto, no?
Un pensiero gli balena nella mente. La vita è bella, se si è capaci a viverla. Ne sono capace io? Coppie di amanti si baciano sulle panchine. Bambini giocano ancora a nascondino. Passa il furgoncino dei gelati, in quell’istante. Coppie di anziani si tengono ancora per mano, convinti che l’amore sia eterno. Forse loro non sanno la verità. No, non è Zarathustra a parlare, non è Zarathustra a chiedersi se il vecchio sappia o meno la verità, ossia che dio è morto. Io sono meno tragico. La verità è che nessun dio ci protegge. Un’altra verità, amara, è che l’amore non dura. Anzi, forse nessuno dei due esiste. Questa evidentemente è la verità. Ma la verità, la sacrosanta verità, la sempre ricercata verità non ha alcuna utilità. Si può vivere tutta la vita a cercare le cosiddette ‘verità’. Ma per far cosa? Per rendersi conto che tutto ciò che è bello – non è vero? Non nel senso che sia falso ma nel senso che prescinde magnificamente dal concetto di verità e falsità. La bellezza è superiore alla verità. Non ne ha bisogno. Non la vuole, la caccia, la fugge. Se ne frega che esista. E io rido di questo, mi beo di questa verità. Sì, l’unica verità che mi interessa è che non esiste verità che possa tener testa alla bellezza. Dostoevskij ha detto che la bellezza salverà il mondo. È vero. Confermo. E questo pensa D in questo stesso istante. La verità è dannosa in questo senso. Ho sempre ricercato la verità, convinto che fosse quanto di più alto ci fosse al mondo. Anche con Elena ho cercato la verità, la odiata verità, la sfottuta verità. Ora, prima di morire, voglio credere nell’illusione che queste due cose siano autentiche – non necessariamente vere: che dio esista e ci protegga e che l’amore duri per sempre. Questo pensa D in questo momento. E così dev’essere. Una scelta estetica. La bellezza non ha verità, non ha bisogno della verità. Questa è la verità.
Si avvicina un piccione. Uno di quelli che girano senza motivo da una parte e dall’altra, in cerca di ciò che potrà farli arrivare a domani.
“E tu che vuoi?”, gli chiede, come se il piccione possa rispondere. E quello lo guarda, così, senza vederlo. Gironzola per il terrazzo, in cerca di qualcosa da mangiare. D si fruga nella tasca e ne tira fuori il residuo di un panino con cui ha pranzato all’università. Gliene lancia un pezzo lontano. Il piccione trotterella di corsa per andarselo a prendere. Certo, queste sono le priorità di un animale senza ragione. Non ha bisogno di pensare alle cazzate, lui. Gli lancia un altro pezzo di panino, più vicino, poi un altro. Un gioco divertente. Una compagnia silenziosa. A volte è necessario un po’ di silenzio. E lui ha bisogno di silenzio per capire se accettare tranquillamente la morte, ora che sa la verità. Si guarda intorno, ammirando – forse per l’ultima volta – le nuvole nere sopra di sé. Pioverà, sicuramente. D’un tratto, qualcosa attira la sua attenzione. Qualcosa di cui prima non s’era accorto. Sul balcone del palazzo di fronte, qualcuno lo sta guardando. È una ragazza, pare. Sì, lo è. Lo fissa. Da quanto è lì? La saluta, distrattamente, come colpito da questa cosa. Il suo gesto non è passato inosservato. Per qualcuno ha contato evidentemente, se ora quel qualcuno sta perdendo il suo tempo a osservarlo. Lei ricambia il saluto. Ora sorride. Sorride perché? Ah, probabilmente per questo innocente gioco col piccione. È piccola, avrà sedici anni. Diciotto, al più. Quel sorriso innocente non lascia spazio a dubbio alcuno. È troppo piccola per aver conosciuto il dolore. I suoi lunghi ricci biondi la rendono un angelo alle luci del crepuscolo. Riflettono il rosso del cielo ed il nero delle nuvole.
Una goccia cade sulla sua giacca di pelle improvvisamente, poi un’altra. Cade acqua dal cielo, meravigliosa acqua dal cielo. Il piccione vola via. D’altronde il panino è finito, che senso aveva restare ancora lì? Ora la pioggia comincia a sentirsi. Cade dalle nuvole come fosse zucchero filato. La giacca di pelle si bagna e diventa tutta lucida, così i pantaloni. I capelli raccolti si inzuppano. Se li scioglie, lasciandoli liberi di respirare, come i serpenti di Medusa. D chiude gli occhi, per assaporare questo momento. Bello. Sono anni che non si becca un acquazzone come si deve. A bocca aperta, assapora la pioggia, fresca e scintillante come il bacio di una donna, sopra la sua lingua. Fresca come l’acqua di una sorgente montana, rievoca in lui atavici ricordi. Le scampagnate coi genitori o con gli amici. Un fiore in bocca sotto l’albero durante un’escursione, e il rumore – il dolce suono – del fiume che scorre lì vicino che si confonde con l’arpeggio della sua chitarra. Profumo di terra bagnata pervade i suoi sensi. Profumo di erba bagnata è ciò che ricorda, il romantico bacio, il suo primo bacio anni – secoli, giorni – prima. Erba bagnata, capelli bagnati, labbra bagnate. Labbra salate di mare, labbra di donna al mare, quando il tempo non faceva male. Quando l’amore era un gioco innocente e non spaccava l’anima. Lo scroscio della pioggia appanna tutti gli altri rumori e lui se ne bea, come ci si bea di un orgasmo durante il sesso. Orgasmico, tutto questo. Orgasmico il mondo intorno. Estatico ed estetico questo istante. Dai capelli l’acqua scorre sulla fronte, sulle guance, sul collo. Sulle mani, che ora sono spalancate. A braccia aperte sembra un Buddha. Tutti i sensi sono colpiti da questa pioggia, tranne la vista. A occhi chiusi, accetta ciò che il cielo ha da offrirgli. A occhi chiusi, immagina di essere ovunque tranne che lì. A occhi chiusi, dipinge il cielo con quella pioggia d’arte. È un dono divino. Misticismo ed essoterismo si confondono, si mischiano, la religione sembra acquistare un senso. Può un dio concepire tutto questo? No, questo è qualcosa che un dio non potrà mai capire. È troppo oltre l’umanità, è troppo oltre i sensi, dio. Umano, troppo umano, quello che sta provando. Siamo esseri privilegiati, noi che possiamo amare queste piccole cose. Siamo noi, uccelli del paradiso. Dio è lontano da questo mondo. Non sa cosa si perde. E –
Apre gli occhi d’improvviso, come trafitto da una freccia. Uno sguardo di freccia. La ragazza è ancora lì, anche lei coi capelli ricci fradici, ora più pesanti e lunghi. Le arrivano alla vita. Belli. Condivide con lui, in silenzio, la magia della pioggia. Condivide con lui, in silenzio, ciò che il silenzio ha da dire. I bambini sotto sono andati a casa, le strade sono deserte. È uno spettacolo surreale e magnifico. In questo mondo che cade insieme alla pioggia, solo lui e quella strana ragazza sono presenti. Guarda l’orologio. È sotto la pioggia da una buona mezz’ora ormai. Già passata mezz’ora? Ma quando? Mezz’ora vissuta pienamente, forse una delle poche veramente non sprecate. Tutti i propositi negativi sono scivolati via con l’acqua e finiti chissà dove. Sembra sia passata una vita da quando ha deciso di dare un taglio a tutto. E invece era meno di un’ora fa. Anzi, meno di mezz’ora fa. La ragazza è ancora lì.
D’un tratto, la ragazza si muove. Con la mano indica il numero tre, poi il numero quattro. Non capisce. Lei se ne accorge e con la mano fa un segno con il mignolo ed il pollice. Ah, sì, comprende ora. Il telefono. Gli sta dando il numero di telefono. Vuole sentire la sua voce. Poi riprende ad indicare i numeri con le mani. Tre, quattro… nove. D salva il numero. Con quale nome? Non sa il suo nome… A. Una lettera, la prima dell’alfabeto. Preme il tasto della chiamata. Una leggera agitazione lo pervade tutto. Chissà come sarà la sua voce, il suo modo di parlare. Il suo nome. Perché vorrà sentirlo? Si sente una suoneria che squilla provenire dal palazzo di fronte. Smoke on the water. Andiamo bene, pensa. Lei attende qualche secondo, poi risponde.
Una voce infantile ma calda al contempo. Una bella voce, si direbbe.
“Che ci fai lassù a prenderti l’acqua?”, esordisce A.
Confidenziale il tono, quasi giocoso.
“Che ci fai sul balcone a guardarmi prendere l’acqua?”, chiede lui in risposta.
“Volevo vedere qualcosa di strano oggi. E l’ho trovato. Un ragazzo che sta venti minuti in piedi sul parapetto di un terrazzo a fissare la gente di sotto e poi si siede per prendersi altri venti minuti buoni di acqua… non sei normale direi”.
Sorride. In effetti no, per chi non sa come stanno le cose. “In effetti no ma se sapessi come stanno le cose non mi diresti poi così strano. Magari sei troppo piccola per cap – “
“Volevi ammazzarti?”, chiede. Che tempismo. E che precisione.
“Come fai a capirlo?”, chiede D. ha sbagliato, voleva chiedere come facesse a pensare una cosa così folle. “Si sente dal tono della tua voce. Cos’è successo?” “Niente di cui voglia parlare.”
“Ti è morto il gatto? O tuo padre? Ti hanno licenziato?” Invadente la tipa. Un po’ troppo. Era meglio quando era silenziosa a fissare. Invadente anche lì, è vero. Ma almeno potevi distogliere lo sguardo. D è tentato di attaccarle il telefono in faccia.
“Non provare ad attaccarmi in faccia”, lo anticipa A.
“Non volevo attaccarti in faccia”, mente lui. Si sente benissimo che è una cazzata.
“Stai mentendo. Non sono così stupida. Avrò anche quindici anni ma non sono una sprovveduta”. Quindici. Avrei detto diciotto, pensa D. “Allora? Vuoi dirmi che è successo?” “La mia ragazza mi ha lasciato dopo avermi tradito con un tizio conosciuto ad una festa.”
“…”
“Bè, non parli? Era questo che volevi sapere no?”
“Sei un idiota”. Invadente e acida. Poteva andar peggio?
Le attacca il telefono in faccia. Lei dall’altra parte continua a parlare al telefono, non avendo compreso la situazione. Intanto D si alza e fa per andarsene. Mentre sta per scavalcare il muretto per tornare giù, squilla il telefono. Istintivamente risponde, senza pensare che sia lei.
“Che fai, mi attacchi in faccia? Sei maleducato lo sai?”. Ovviamente è lei. Si volta. Col dito indice lei fa un gesto come per dire ‘non si fa!’.
“Mi insulti e pretendi anche cortesia?”, chiede D, quasi innervosito.
“Certo che ti insulto. La tua ragazza ti molla e tu decidi di ammazzarti? Così le dai un’importanza che non si merita. Penso che tu valga un po’ di più di quanto lei creda no?”
“E tu che ne sai? Neanche mi conosci!”
“Uno che passa un’ora su un tetto a valutare quanto sia bella la vita… bè, credo che un minimo valga no?”
“…”
“Ora sei tu a non parlare. Cosa ho detto di male stavolta?”
“Neanche mi conosci… come fai a dire queste cose?”
“E falla finita! Sei monotono! Guarda in alto!”, così dicendo alza lo sguardo. Lui fa altrettanto, incuriosito.
Tra le nuvole nere che si diradano, sbuca una tiepida luce lunare. Ma quando ha smesso di piovere?, pensa D. È bella vero? Lo è, quasi piena. È lì, luminosa e maestosa. Romeo ha detto che la luna è l’ancella di Giulietta ma a vederla ora sembra che niente possa contrastare la sua regalità. È lì, padrona del cielo. Anche se un Galilei a suo tempo ha scoperto i suoi crateri e le ha tolto il grado di divinità e la sua purezza e perfezione, chi direbbe oggi che anch’essa, come il resto dell’universo, è destinata a perire? Sindrome di Stendhal a guardarla. Quante melodie dedicate a lei, quante opere d’arte composte sotto il suo regale vestito d’argento! Quanti amori consumati dinnanzi a lei! Quante cose deve aver visto e quante ne vedrà, eppure lei è discreta, silenziosa. Passano un minuto, così, in silenzio. Bellissimo questo minuto di tranquillità, senza rumori. Tutto tace intorno. Ora sono lui, lei e la luna. Tre. Questa volta il tre è il numero perfetto. Il sogno di una compagnia discreta.
“Come ti chiami?… ehi, ci sei ancora?… si è imbambolato”…
D’un tratto riprende conoscenza. È lei a parlare nel telefono attaccato al suo orecchio.
“Ah, sì scusami… mi chiamo D. E tu?”
“Anna”, un nome che comincia con la prima lettera dell’alfabeto.
“Piacere di conoscerti, Anna”, piacere davvero.
“Piacere mio di averti salvato la vita”, scherza lei.
Scherza pesante. Ma è vero. Ora sta per chiederle di scendere a prendersi qualcosa da bere insieme, giusto per fare due chiacchiere, mica per altro. Ventidue anni lui, quindici lei. Ma sì, chi se ne frega, una cioccolata calda non può far male. Ma lei lo anticipa. “Senti D, mi dispiace lasciarti solo ma devo scappare a cena, i miei rompono.”
Ci resta male. “Ma sono le sette e mezza!”, esclama.
“Eh, noi mangiamo presto. Freghiamo i preti a volte. Ehi, non è che ti butti di sotto se me ne vado? Mica voglio averti sulla coscienza.”
“No, stai tranquilla, Anna. Quell’attimo di follia è passato”. Sarà vero? Pare di sì.
“Meno male. Sai, non voglio sembrare scortese a dirti questo, ma se l’avessi fatto saresti stato solo una macchia nerastra sul marciapiede e un ammasso di schifezza, ora. Niente più. È brutto finire la propria vita così, vero? È una cosa ingloriosa”. Le stesse parole che ha usato lui qualche minuto prima. Che cinismo!
“Già…”
“Va bene io vado allora, il mio compito è concluso”.
Compito?, si chiede lui. Cos’è, un angelo custode?
“Ti va di vederci qualche volta?”, chiede d’impulso lui. Messa così sembra che le stia chiedendo un appuntamento amoroso.
“Mah, vedremo”, risponde lei. D ci resta un po’ male, chissà che si aspettava. Poi continua: “Direi che si può fare. Ma non ti montare la testa eh, sono già occupata io! Scappo, ciao ciao!” e attacca. D sbotta a ridere. Che ragazza assurdamente bella nella sua semplicità. Si volta verso il muretto, prende un respiro – e in un attimo è di là, dall’altra parte. È nella vita, di nuovo. Con coraggio, scende le scale, zuppo d’acqua. Quella stessa acqua lo fa scivolare. Mentre scivola, sbatte la testa al muro. Dolore. Fa male, pensa. Qualche blasfemia attraversa la sua mente ma poi si blocca, come morto. Dolore. Fa male. Sento dolore. Sento qualcosa. Sono vivo. E pensare che rischiavo di non sentire più niente per sempre. Il dolore mi ha ricordato cosa sono. Semplicemente un ragazzo che ha ancora la vita davanti a sé. Quanta? Non importa, davvero. So solo che c’è. Fosse un minuto o cento anni, essa c’è.
Mai fu più grato al dolore di quel momento. “Come mi chiamo? D!”
Così comincia tutto, di nuovo. E ride al pensiero di dover spiegare ai suoi perché è così bagnato e perché domani o dopodomani sarà al bar davanti ad una cioccolata calda con una perfetta sconosciuta.
  
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