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Autore: Miyan    25/06/2005    2 recensioni
Un legame che non necessita di nomi... Siate indulgenti... è la mia prima fanfiction...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era tardo pomeriggio di fine Settembre, l’aria era ancora calda e il sole non era ancora calato

  • SOTTILE PAURA -

 

Era un tardo pomeriggio di fine Settembre, l’aria era ancora calda e il sole non era ancora calato all’orizzonte. Uscivo dall’università alle sei e mezza passate, come ogni mercoledì, e dopo più di due ore di lezione non aspettavo altro che tornarmene a casa e dormire, sì andare a dormire… mi ero alzata alle sei quella mattina ed ero veramente stanca. Zainetto in spalla, mani nelle tasche dei pantaloni scuri, troppo lunghi e troppo larghi, salutai alcuni compagni di corso che avrei rivisto l’indomani e mi incamminai verso la fermata della corriera che mi avrebbe portata fuori città, diretta a casa.

Vittoria e Sara, le mie amiche e compagne di facoltà, erano uscite prima quel pomeriggio. Non avevano più voglia di seguire e così se n’erano andate un quarto d’ora prima del previsto, mentre io, sempre diligente e fin troppo scrupolosa, ero rimasta in classe… tanto la sera era ancora chiara… e al pensiero che avrei dovuto copiare gli appunti un’altra volta la mia pigrizia ebbe il sopravvento.

Con un gesto della mano mi sistemai gli occhiali da vista e mi passai un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, per poi rimettere la mano in tasca. Camminavo da sola nel centro città, le strade erano poco affollate a quell’ora, molti uffici erano già chiusi da tempo. Guardavo distrattamente le poche persone che mi passavano accanto quando un ragazzo mi colpì particolarmente. Con passo deciso veniva verso di me, aveva degli occhi… degli occhi verdi e tempestosi, lo sguardo era molto serio, la pelle era chiara, forse più chiara della mia, e le labbra erano di poco più rosee come se fossero senza vita, mentre i capelli erano neri come se avessero risucchiato tutti i colori dal resto del suo corpo. Quando mi passò accanto mi voltai a guardarlo. Si era fermato a parlare con altri quattro uomini molto diversi da lui… e pochi secondi dopo… pochi secondi dopo vidi una scena che quasi non riuscivo a comprendere. Un uomo uscì da quello che sembrava un ufficio, giacca e cravatta, una ventiquattrore sotto braccio e un mazzo di chiavi in una mano; il ragazzo e gli altri gli intimarono di farli entrare… lo sospinsero dentro e due di loro lo seguirono ma… ma il ragazzo mi vide… ero immobile, non riuscivo a ordinare alle mie gambe di spostarsi… si avvicinava a me e non riuscivo a muovermi, con forza mi prese per un braccio e mi sospinse verso quella dannata porta, la lama di un coltello a serramanico premuta contro la mia gola "Zitta, non urlare…" disse a voce bassa, ma non sarei mai riuscita a gridare, la voce mi si era bloccata in gola… Prima di entrare da quella porta riuscii a guardarmi in giro in cerca di qualcuno, in cerca di aiuto… e vidi un giovane, incontrai i suoi occhi ma poco dopo ero nell’edificio. Lo sentii che domandava "Che diavolo sta accadendo?" e poco dopo anche lui era in quella stanza, la porta chiusa dietro di noi…

"E questi due che ci fanno qui?" quello che sembrava il capo guardò con noncuranza me e l’altro malcapitato per poi rivolgersi verso i suoi compagni…"Ci avevano visto, non potevamo lasciarli qui fuori…avrebbero avvertito la polizia" rispose un uomo sui trent’anni molto robusto, uno dei due che avevano preso l’altro ragazzo. "Ora non ho tempo di pensare a loro, chiudeteli da qualche parte". Un uomo sui quarant’anni, piccolo e magro aprì la porta di una stanza…"Qui può andare", si fece consegnare i nostri cellulari e poco dopo mi ritrovai con l’altro ragazzo chiusa in una stanza senza finestre, solo un piccolo lucernario, con scatoloni ammassati che la occupavano per la maggior parte e nient’altro. "A presto…" il coltello aveva abbandonato il mio collo, la sua presa lasciò libero il mio braccio e fui libera e prigioniera allo stesso tempo.

Ero seduta su uno scatolone e cercavo di capire cosa fosse successo, il mio zainetto appoggiato lì accanto, il silenzio come conforto. "Stai bene?", aprii gli occhi e mi voltai verso la fonte di quella voce, quel ragazzo, mi ero completamente scordata di lui. Era in piedi poco distante da me che mi fissava con quegli occhi scuri e con un fare assolutamente scocciato. "Sì credo… no… boh, non riesco a capirlo" risposi in modo confuso. Prese un pacchetto di sigarette dal suo zaino, ne accese una…"Vuoi?" mi domandò porgendomi il pacchetto…"No, non fumo", sorrise con la sigaretta tra le labbra mentre riponeva l’accendino. Lo osservavo mentre se ne stava appoggiato al muro mentre fumava, mentre espirava il fumo e faceva cadere la cenere a terra. Era alto, molto alto, forse un metro e novanta, la pelle abbronzata era in contrasto con i pantaloni e la maglietta chiari, i capelli castani sembravano schiariti dal sole, un paio di occhiali da vista dalla montatura di metallo completavano la sua figura.

Finita la sigaretta buttò il mozzicone a terra schiacciandolo con la scarpa e poi si voltò di nuovo verso di me. "Ci siamo cacciati nei guai, ma non preoccuparti, al massimo ci lasceranno qui dentro e prima o poi qualcuno verrà a prenderci", si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni sempre rimanendo appoggiato al muro. Forse voleva rassicurarmi ma le sue parole ebbero l’effetto contrario… non volevo rimanere in quel buco a morire di fame. Alzai lo sguardo verso di lui ma non sapevo che dire. "Meno sappiamo meglio è per noi…" continuò lui, "Non c’è problema, io non so proprio niente, non so nemmeno in che posto siamo finiti" affermai. "Nemmeno io, spero solo che trovino ciò che vogliono e se ne vadano alla svelta. Potremmo già essere a casa per l’ora di cena." Io non ne ero molto convinta. Cinsi le mie gambe con le braccia e appoggia la fronte alle ginocchia. Ero stanca. Non so quanto rimasi in quella posizione, rialzai il volto solo quando sentii la chiave girare nella serratura. Il ragazzo dagli occhi verdi entrò e richiuse la porta dietro di sé. "Pensavo ve ne foste già andati", disse il mio compagno di prigionia. "Non ancora, state buoni e tranquilli e non ci saranno problemi. Vi ho portato qualcosa da mangiare", appoggiò due merendine confezionate sullo scatolone accanto a me, nello spostarsi alzò il mio volto con una mano "Brava, vedo che non hai pianto" e si diresse verso l’uscita. Il mio cuore aveva perso un colpo quando la sua mano gelida aveva sfiorato la mia pelle. Lo fissai mentre se ne andava, mentre richiudeva la porta dietro di sé.

La risata fragorosa del mio compagno di prigionia ruppe il silenzio. Lo guardai incuriosita. "Che c’è di tanto divertente?" domandai confusa. "Bambina, non è il tipo che fa per te!" fu la sua risposta. "Cosa?" "Quel tipo non va bene per un angioletto come te, bambina." Arrossii, era tanto evidente che quel ragazzo mi affascinava? Lui rise di nuovo. "Vedi, sei diventata tutta rossa… ma scommetto che se lui ti tentasse cambieresti idea…" sembrava mi conoscesse, sembrava capisse ogni mio pensiero mentre se ne stava seduto in un angolo e cercava qualcosa nel suo zaino.

"Tieni" mi lanciò un pacchetto di patatine. "E che me ne faccio?" che domanda idiota! "Ma mangiale bambina. Le merendine le terremo per domattina. Credo che rimarremo qui stanotte." Ne mangiai due o tre per assecondarlo, ma poi lasciai il resto con le merendine accanto a me. Ormai dal lucernario non entrava più luce e il ragazzo aveva acceso l’unica fonte di luce di quella stanza una applique che però non illuminava molto.

Stava fumando un’altra sigaretta quando io gli rivolsi la parola. "Forse,… forse domani quando verranno in ufficio e lo troveranno chiuso chiameranno la polizia e si risolverà tutto." Si volse a guardarmi. "Oh, potrebbe essere, come non potrebbe accadere… ma ha poca importanza. Se quelli qui fuori non troveranno ciò che vogliono non se ne andranno." Mi sedetti a terra, con la schiena contro lo scatolone su cui ero seduta poco prima. "Spegni la luce per favore, voglio cercare di dormire un po’" gli dissi e lui fece come chiesto.

Mi svegliai di soprassalto, mi voltai a destra in cerca della luce confortevole della mia radiosveglia ma non la trovai. Allora mi ricordai di dove fossi. Tremavo, avevo freddo anche se l’autunno era appena cominciato. Gli occhi mi si riempirono di lacrime che piano traboccarono riversandosi sulle mie guance… mi sentivo un’idiota, volevo essere forte, dovevo esserlo ma alla fine mi rivelavo per quello che ero: una debole. Sentii qualcosa muoversi e accostarsi a me, con un braccio mi cinse le spalle e mi fece appoggiare il capo contro il suo petto. "Ehy… su non fare così"…odiavo farmi vedere in quel modo da una persona sconosciuta, "Non è niente" dissi mentre cercavo di scostarmi, ma lui mi teneva saldamente. "Bambina, non c’è niente di male sai a piangere ogni tanto", non poteva sapere che per me piangere era quasi un disonore. Ero imbarazzata, uno sconosciuto cercava di consolarmi… volevo solo essere a casa mia… volevo solo che fosse un brutto sogno.

Mi tenne stretta per molto senza che nessuno dei due dicesse una sola parola, con il silenzio che troneggiava sulla stanza ma anche su quella adiacente da dove non si sentiva provenire alcun rumore. Mi addormentai ma il sonno fu agitato e un sogno confuso e incoerente mi tenne compagnia. Quando riaprii gli occhi lui stava ancora dormendo e osservai il suo viso pensando "Mentre dorme sembra meno antipatico e presuntuoso". Mi liberai dalla sua stretta e mi alzai dirigendomi verso le merendine. "Ciao. Volevi mangiarti anche la mia?", mi voltai verso di lui, aveva gli occhi ancora assonnati e il solito sorriso beffardo sulle labbra. "No, prendi pure" gli lancia una merendina che lui prese al volo, poi gli voltai nuovamente le spalle. "Grazie per stanotte", volevo morire in quel momento… "Oh, niente bambina". Per fortuna che non aveva detto niente permettendomi di sorvolare sulla questione. Mi sedetti sullo scatolone che ormai era diventato la mia sedia abituale e lo guardai mentre cercava l’accendino per accendere la sigaretta che pendeva mollemente tra le sue labbra. "Forse sarebbe meglio che tu non fumassi" dissi fissandolo. Voltò il viso verso di me e mi guardò negli occhi "Oh, ormai non posso cambiare. Ma tu, bambina, è meglio che non prenda questo vizio".

Bambina… una volta, due, ma alla terza non riuscii più a sopportare quella parola. "Puoi smettere di chiamarmi bambina? Non lo sono." "Ehy è solo un modo di dire" rispose il ragazzo fissandomi sorpreso. "Non devi prendertela. È che sei così ingenua…" sbuffai spazientita "Smettila, non dire altro. Sono già nervosa…". Il silenzio cadde sulla stanza. Sbocconcellavo la merendina quando sentimmo nuovamente la chiave girare nella serratura. Era sempre il ragazzo dagli occhi verdi, era il nostro carceriere. "Vedo che tutto sommato state bene." Affermò guardandoci. "Potremmo stare meglio" fu la risposta del mio compagno. Intimorita mi rivolsi al nuovo giunto "Dovrei andare in bagno…" mi guardò e fece un sorriso, o almeno qualcosa che assomigliava ad un sorriso. "Pure tu?" chiese rivolto al ragazzo che rispose con un cenno del capo. "Ok, andiamo".

Provai una strana sensazione nell’attraversare quella porta, come se lasciassi una vita per entrare in un’altra. L’unica cosa che mi veniva in mente era osservare ogni minimo particolare delle cose che mi circondavano. Non vidi gli altri e preoccupata mi domandai dove fossero. Un brivido mi passò sulla schiena. Entrammo nel bagno, il lavandino in bella mostra e una porta accanto ad esso. "Lasciamo entrare la ragazza prima…" il ragazzo con gli occhi verdi pareva essere gentile in qualche modo.

Quando uscii e l’altro ragazzo entrò nel bagno, mi diressi al lavandino e lasciai scorrere l’acqua. Il mio sguardo si fissò sullo specchio di fronte a me, attraverso di esso riuscivo a scorgere il ragazzo dietro di me. Alzò lo sguardo anche lui e ci guardammo negli occhi per una frazione di secondi che per me era un secolo, il cuore che mi batteva all’impazzata e il rossore che mi saliva in volto. Lo sentii avvicinarsi a me provando un certo compiacimento, ma allo stesso tempo con la paura che mi bloccava il respiro in gola. Mi posò una mano sulla spalla, ma in quel momento l’altro ragazzo uscì dal bagno e lui si scostò da me.

Ci riaccompagnò nella nostra stanza, nella nostra prigione. Mi sedetti al mio solito posto in silenzio, il ragazzo con la schiena appoggiata al muro nella sua posizione usuale. Non so per quanto tempo rimanemmo senza dire una parola, senza fare il minimo rumore. Lui fumava una sigaretta dietro l’altra, io alzavo lo sguardo ogni tanto e scorgevo il suo volto tranquillo e rilassato e mi chiedevo come facesse… sembrava che la situazione non fosse importante, gli scivolava addosso, come se vivesse in un mondo tutto suo, un mondo senza tempo e luogo… non capivo ma lo ammiravo in qualche modo.

Mi domandai che ore fossero, guardai il mio orologio da polso… erano le due del pomeriggio ed avevo effettivamente fame. Non riuscivo proprio a stare ferma e senza saperlo attirai la sua attenzione. "Che hai bambina?" mi domandò fissandomi serio. "Ehm… avrei un po’ fame…" sorrisi imbarazzata. Era seduto con la schiena contro il muro, spense il mozzicone schiacciandolo per terra e si alzò passandosi le mani sui pantaloni. Senza dirmi una parola si diresse verso la porta ed incominciò a dare dei pugni con una mano per attirare l’attenzione dei nostri carcerieri. Ripeté la cosa alcune volte ma non ottenne mai risposta.

Mi alzai anche io dal mio posto confortevole e mi avvicinai a lui. Se ne stava fermo guardando intensamente la porta come per ordinarle di aprirsi, ed io ero lì accanto a lui, scrutando il suo viso. Lo tirai per una manica due o tre volte e allora sembrò accorgersi di me. "Se ne sono andati…" l’unica frase che mi rivolse. Un brivido mi percosse il corpo "Rimarremo qui a morire di fame?" domandai preoccupata. Mi appoggiò il palmo della mano sul capo, come si fa per rincuorare i bambini piccoli, e mi disse "Non preoccuparti, tra qualche ora la polizia entrerà e verrà a prenderci. Dobbiamo solo avere un po’ di pazienza." Riuscii soltanto a fargli un sorriso tirato e i suoi occhi sembrarono rispondere al mio sorriso, ma solo per poco. Subito dopo era ritornato il solito, freddo e menefreghista, e andò a sedersi per terra al suo solito posto.

Ed era giunta anche la notte… dal lucernario riuscivo ad intravedere il cielo ormai cupo, qualche stella screziava di luce quel manto scuro, ma era tutto così fermo, così immobile ed io non riuscivo a sopportarlo. La luce era spenta ormai da ore ma io non riuscivo a chiudere gli occhi, ero troppo ansiosa come al solito. Pensavo ai miei genitori, ai miei parenti e ai miei amici, e mi domandavo chi fra questi ultimi era realmente preoccupato per me. Col mio solito pessimismo mi rispondevo che nessuno di loro avrebbe sentito realmente la mia mancanza… ma forse non era così…ma mi sentivo tanto sola.

"Non dovresti essere così agitata"… la sua voce risuonò nel silenzio facendomi sobbalzare, il cuore aveva preso un ritmo accelerato e mi voltai verso il punto dove alla luce avrei scorto il suo volto, punto che ormai conoscevo anche nell’oscurità. "Sono fatta così, non riesco a calmarmi" risposi con un pizzico di rabbia nel tono della voce. Lui non poteva permettersi di dirmi quello che dovevo fare e soprattutto come dovevo sentirmi. "Te l’ho detto, al massimo domani sera verranno a prenderci"… la sua voce mi giungeva calma a pochi metri da me, ed invece che calmarmi pareva avere l’effetto contrario. Sbuffai. "Senti, smettila di ripetermi la solita frase… mi stai irritando" mi sentivo le guance incendiarsi dalla rabbia. La sua risata sommessa non fece altro che alimentare il mio maledetto orgoglio. "Sei un idiota, forse la persona peggiore con cui avrei potuto dividere quest’esperienza. Non ti sopporto! Sei un insensibile, un ignorante, un… un…" la sua risata si alzò impetuosa e io ero più avvilita che mai.

Lo sentii alzarsi e poco dopo si sedette poco accanto a me. Voleva sforzarsi a parlare ma le sue risa parevano ricominciare. Feci per alzarmi ma mi prese per un polso. "Siediti per piacere. Tanto non puoi andare molto lontano e ti seguirei comunque fino a che non ti stancassi." Rimasi in piedi ponderando la forza con cui mi teneva per decidere se valeva la pena ribellarsi o starlo a sentire. Dopo pochi minuti mi risedetti. "Su, smettiamola. Non c’è bisogno di litigare. Prova ad avere un minimo di fiducia in me. Davvero, dovrai sopportarmi ancora per poco e dopo non mi rivedrai più." Era strano sentirlo parlare… aveva lo stesso tono di voce di chi volesse ammansire un bambino cocciuto e forse io lo ero. Non risposi, forse ero ancora adirata o forse non lo ero più, ma non avevo voglia di rispondere. "Mi spiacerebbe non rivederti, in fondo abbiamo passato qualcosa insieme…" non lo feci concludere. "Se ci rivedessimo ripenseremmo a questi giorni di prigionia, alla paura e all’angoscia, e non mi va". Lo sentii irrigidirsi, la sua spalla contro alla mia. "Non mi piace essere portatore di brutti ricordi… se vuoi così per me va bene. Ma mi ricorderò sempre di una ragazzina, di una giovane dal cuore puro". Nessuno mi aveva mai definito così, forse dentro di me lo pensavo, ma nessuno lo aveva realmente letto dentro di me. Per alcuni versi ero troppo grande, adulta e per altri ero proprio una bambina.

Quando riaprii gli occhi il mattino, la luce entrava prepotentemente dal lucernario. Mi aveva fatto appoggiare il capo sul suo zainetto. Mi appoggiai ai gomiti e lo osservai. Era sdraiato sulla schiena con le braccia incrociate dietro alla testa e pareva che stesse guardando il cielo immaginandolo al posto del soffitto. "Ciao" gli dissi, lui come destatosi si voltò verso di me con sulle labbra qualcosa che si poteva paragonare ad un sorriso. "Hai dormito bene?" domandai confidenzialmente. "Veramente sei tu quella che ha dormito tanto! Io sono sveglio da un po’." Sorrisi e capii che anche se non eravamo sempre d’accordo ormai qualcosa ci accomunava, lui conosceva me ed io conoscevo lui. Mi sedetti e sciolsi i capelli, passai le dita tra le ciocche cercando di pettinarmi in qualche modo e poi li legai di nuovo in una coda alta. "Ah, avrei proprio bisogno di una doccia!" affermai ad alta voce. "Anche io…" rispose di rimando il ragazzo. Lui si era alzato e si era appoggiato alla porta come in ascolto. Poi si accese la perenne sigaretta il cui fumo di prima mattina mi nauseava. "Ma non hai ancora finito quel dannato pacchetto di sigarette?" domandai indispettita. Mentre riponeva l’accendino nella tasca dei suoi pantaloni mi guardò di sottecchi. "Per tua grande gioia è l’ultima…" mi rispose con il suo solito tono menefreghista. "Oh meglio…" affermai mentre mi avvicinavo agli scatoloni in cerca di qualcosa da mangiare. Vidi una merendina confezionata che era caduta finendo nascosta da uno scatolone. La raccolsi e gli domandai "Vuoi mangiare qualcosa?" mentre gli mostravo vittoriosa la mia scoperta. "No, non ho fame" fu la sua risposta. Anche lui, come me, non toccava cibo dalla mattina precedente e sicuramente aveva fame. Mi diressi verso di lui che se ne stava appoggiato al muro con la sigaretta ormai consumata tra le dita. Aprii la confezione e porsi metà del contenuto al ragazzo. "Davvero, non ho fame. Mangiala tu." Disse vedendo i miei gesti. "Dai, per piacere, mangiane un po’ altrimenti mi sento in colpa" gli sfoderai il mio sorriso più gentile. Di malavoglia prese il cibo dalla mia mano e lo mangiammo.

Sentimmo dei rumori provenire dalla stanza adiacente. Non avemmo nemmeno il tempo di alzarci che la porta venne sfondata ed alcuni agenti entrarono nella stanza. "State bene?"… non riuscii a capire da quale persona fosse giunta quella domanda, due secondi dopo avevo perso conoscenza.

Mi risvegliai in una stanza d’ospedale. Ero da sola e l’altro letto della stanza aveva lenzuola e coperte perfettamente fatte. Mi avevano messa in una stanza isolata… quale onore! Facendo pressione con le mani cercai di sedermi ma l’ago della flebo che avevo nel braccio mi fece male. Rimasi ferma per qualche minuto fissando il soffitto poi decisi di cercare il campanello e di suonarlo. Poco dopo un’infermiera sulla quarantina entrò nella stanza.

"Ciao. Finalmente ti sei svegliata!". Aveva proprio un bel sorriso. Le sorrisi di rimando e affermai "Spero di non essere qui da tanto!", mentre mi controllava la flebo chiacchieravamo. "Oh, da ieri mattina." "Così tanto?" domandai sorpresa. "Eri molto stanca, la tensione ti aveva spossata. Ma ora va tutto bene. Dopo che il dottore ti avrà visto credo che ti dimetterà". Mi domandavo che fine avesse fatto il mio compagno. A meno che non gli avessero fatto fare degli accertamenti di routine pensavo lo avessero fatto subito andare a casa.

La donna uscì dalla stanza salutando, io rimasi da sola fissando il soffitto. "Posso?" sentii una voce provenire dal corridoio. Mi voltai ma fino a quando non fu accanto al mio letto non mi fu possibile riconoscerlo. "Ciao. Vedo che adesso stai bene." Non sembrava per niente a suo agio, ma era stato carino a venire a trovarmi. "Ciao. Non c’era bisogno che ti disturbassi. Anche tu avrai bisogno di riposo." Passandosi una mano tra i capelli, con quel gesto tipico di quando era in imbarazzo, mi rispose "Ho pensato di passare a fare un giro stamattina e sono stato fortunato, visto che ti sei appena svegliata." Mi misi a ridere. So che non è educato ridere in faccia alla gente ma non potei resistere. "Forse è meglio che adesso me ne vada. Sono venuto solo per un saluto."

"Aspetta, non volevo farti scappare. Sei stato gentile a passare. Non so se ci rivedremo presto, ma comunque scordati le sciocchezze che ti ho detto quella sera. Mi farebbe piacere rincontrarti." Mi giustificavo, come al solito. Lui sorrise e mi salutò con un cenno della mano, poi lasciò la mia stanza.

Nel tardo pomeriggio ero già a casa mia. Finalmente a casa. Mia madre aveva voluto a tutti i costi farmi mettere a letto, ma io dopo dieci minuti mi ero alzata ed ero andata in salotto a guardare la televisione. Mentre mangiucchiavo una mela Vittoria e Sara vennero a trovarmi. Sara mi corse subito incontro e mi abbracciò. "Mi farai morire di crepacuore. Ma come hai fatto a cacciarti in questo guaio?", aveva il viso tirato dalla preoccupazione. "Non so, ci sono cascata dentro… e che ne so io il perché. Mi sono imbattuta nel posto sbagliato nel momento sbagliato."

Vittoria intanto si era seduta accanto a me. "Quando mi ha telefonato Sara dicendomi che non eri ancora tornata ho pensato al peggio."

Mi fecero compagnia per qualche ora. Prima di andarsene dissi che il lunedì sarei andata in università e le pregai di portarmi gli appunti delle lezioni che avevo perso. "Ma la smetti di pensare alle lezioni e riposati. Se non erano per gli appunti, mercoledì saresti tornata con noi!" mi sgridò Sara. "Hai ragione, ma io sono così. Allora me li porti gli appunti?" chiesi con aria supplichevole. La mia amica scoppiò a ridere e disse che avevo vinto io.

Il giorno dopo era domenica, avevo un appuntamento in commissariato per le dieci per una deposizione. Nell’entrare nel corridoio dove c’era l’ufficio che dovevo raggiungere, scorsi il mio compagno di sventura che se ne stava andando dalla parte opposta senza vedermi. Allungai il passo sperando di raggiungerlo ma un poliziotto mi fermò indicandomi la porta. Mi ricordo solo che rimasi chiusa due ore in quell’ufficio cercando di ricordarmi tutti i particolari che mi venivano in mente. Mi chiesero se sapessi il movente dei malviventi, ma ero stata a contatto con loro solo per pochi minuti e non si erano fatti sfuggire niente di importante. Provai a ricordarmi i loro volti per poterne fare una descrizione… avevo solo pochi frammenti, come il colore degli occhi dell’uno o la voce dell’altro. L’unico che seppi descrivere era il ragazzo dagli occhi verdi. Mi domandai dove fosse finito… forse in cuor mio speravo che non c’entrasse nel misfatto, che fosse solo una pedina del capo, che se lo avessero preso gli dessero il minimo della pena. Che sciocca che ero.

La mia vita quotidiana riprese poco a poco ad essere quella di prima. I giornalisti non mi cercarono più dopo l’unica intervista che diedi per un giornale locale. All’università tutto proseguiva come al solito, le lezioni e lo studio assorbivano tutto il mio tempo.

Dopo la prima sessione di esami, alla fine di Ottobre, uscii con i compagni dell’università. Avevamo deciso di andare sul lago a mangiare una pizza e poi da qualche parte. La compagnia era come al solito divertente, e ridemmo tutto il tempo della cena. Dopo, raggiungemmo un pub. Era molto affollato e sperai di andarmene alla svelta… trovammo un tavolo a cui sederci grazie alla fortuna. Ordinammo qualcosa da bere e fu in quel momento che lo vidi passare. Mi mancò un battito. Non ero sicura che fosse lui, eppure lo avevo riconosciuto. Nel giro di pochi secondi i ricordi di quei giorni invasero la mia mente, la paura che avevo provato nel momento che mi avevano presa, l’interesse per il ragazzo dagli occhi verdi, e la compagnia forzata con lui.

Vittoria richiamò la mia attenzione "Ehy, che ti prende? Hai visto un fantasma?". "Più o meno" fu la risposta che diedi, ma nel vedere i volti preoccupati dei miei amici mi corressi subito… "Sto scherzando. Niente di che. Mi stavo solo guardando in giro." "Qualche tipo carino?" domandò Sara. "Uno o due". "C’è un tipo che ti sta fissando…" disse Sara. Alzai lo sguardo e non ebbi dubbi era lui, quegli occhi scuri e sempre imbronciati dietro agli occhiali dalla montatura di metallo, il modo di camminare lento e tranquillo…

"Ciao" mi disse quando mi fu vicino. "Ciao" risposi con voce tremante. "Ti disturbo?" domandò mentre passava lo guardo sui miei amici. "No. È da un po’ che non ci vediamo" che frase scontata!!! "Dal giorno dell’ospedale. Possiamo fare quattro chiacchiere?" mi domandò fissandomi negli occhi. "Certo. Vuoi sederti con noi?" chiesi gentilmente. Intanto i miei compagni osservavano la scena e dalle occhiate delle ragazze capii che lo trovavano attraente. "No, è meglio cercare un posto meno caotico. Avrei bisogno di fumare una sigaretta. Vieni con me?" guardai Sara "Vai pure, noi ti aspettiamo" e allora lo seguii.

Ci facemmo largo nella ressa e pigiata tra ragazzi ubriachi e ballerini lo seguii verso una porta che dava ad un giardino da dove due ragazze stavano rientrando. Eravamo da soli. "Non potevi fumare dentro? C’era il portacenere e i miei amici mica ti mangiavano!" avevo cominciato come al solito. "Volevo fare due chiacchiere senza che nessuno ci interrompesse, e poi con quel caos avrei dovuto urlare." Mentre parlava prese una sigaretta e l’accese. "Ok. Come stai?" chiesi appoggiandomi al muro dell’edificio. "Bene. E tu? Tutto a posto?" ancora quegli occhi freddi fissi nei miei. Abbassai lo sguardo e fissai le punte delle mie scarpe mentre rispondevo "Sì, tutto ok. Solo un po’ tanto da studiare e un esame che non è andato come avrei voluto." Vidi il fumo azzurrognolo passarmi davanti. "Hai saputo qualcosa dei tipi?" mi domandò. "No, sono spariti nel nulla", "Spero che li trovino e li sbattano dentro per un po’!" "No." Negai alzano lo sguardo verso di lui. "Non dirmi che pensi ancora a quel tipo?" non risposi, tornando a fissare le mie scarpe. "Vuoi smetterla di vivere nei tuoi sogni!" la frase mi aveva presa alla sprovvista. "I sogni, sono l’unica cosa che ho". "E allora vivi nel tuo mondo di sogni e lasciati sfuggire le occasioni che ti da la vita reale." La sua voce era calma, forse solo un po’ irritata, ma non aveva urlato come avrei invece fatto io. "Meglio che vada dai miei amici. Ci vediamo!" mi aveva ferita e volevo solo andarmene il più lontano possibile. Era capace di mettermi di fronte ai miei sbagli e di farmi sbattere la testa nella speranza di farmeli affrontare. Con una mano mi bloccò al muro dove ero appoggiata… "Smettila di scappare e stammi a sentire anche se le cose che dico non ti piacciono." Mi guardò negli occhi e io per sfida non abbassai i miei. "Smettila di piangerti addosso, la vita può essere crudele ma con te non lo è stata. Impara a prenderti la responsabilità delle tue azioni e non aver paura di metterti in gioco." Mi scese una lacrima… "Non posso"… feci per andarmene ma lui mi baciò, cercavo di scansarmi ma lui mi impediva di fuggire e allora gli morsi le labbra nella speranza di allontanarlo, ma ciò non successe e il suo sangue mi bagnò le labbra. Inerme mi appoggiai al muro piangendo. Quando si scostò da me si pulì le labbra con un gesto della mano. "La prossima volta che ci vediamo spero che tu abbia imparato ad affrontare le tue paure, bambina." Mi lanciò un fazzoletto e rientrò.

Bambina. Aveva ripreso a chiamarmi così. Con il fazzoletto mi pulii le labbra e mi asciugai gli occhi. Raggiunsi il bagno ad occhi abbassati e davanti allo specchio sistemai il trucco che si era sciolto. Mi piaceva… mi piaceva la sua forza e il volermi far reagire, ma lo odiavo per come mi trattava. Quando fui un po’ più sicura di me tornai al tavolo dei miei amici. Vittoria mi si avvicinò subito "Dov’è andato?" domandò riferendosi a lui. "Oh non so. Spero sia sparito per un po’." Sara mi guardava di sottecchi "Si può sapere chi è? Non mi hai mai parlato di lui…" feci un respiro profondo "Era imprigionato con me quando mi hanno presa in ostaggio." Vittoria affermò "Bel tipo. Come si chiama?" e a quella domanda mi accorsi di non saperlo. "Non lo so" risposi.

Non importavano i nostri nomi quando eravamo chiusi in quella stanza, non importavano nemmeno in quel momento… io e lui ci conoscevamo per quello che eravamo, senza nomi, esperienze o titoli di studio. Eravamo legati, forse era un bene o forse un male, ma mi sarei per sempre ricordata di lui.


Ciao a tutti... so bene che non si ha mai voglia di recensire una storia... ma mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate. Commenti e critiche sono ben accetti! Criticate per favore!!!!
A presto!

  
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