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Autore: Darvo    20/12/2009    0 recensioni
Una presentazione a questa storia sarebbe un tradimento nei confronti del valore della storia stessa. Leggete e capirete perché.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SILENZIO


È notte. È sempre notte nei momenti estatici. La notte, con le sue paure nascoste, le sue ombre che celano misteri insospettati. La notte, gelida come la morte. La notte. La notte tutto ha un’altra forma. La notte i colori spesso non esistono – ci si chiede, a volte, a lezione di filosofia: i colori fanno parte degli oggetti? O sono solo ricreazioni della nostra mente? Ecco, questa ed altre domande di notte non hanno senso. Di notte non ci sono colori, soprattutto se non c’è luna ad illuminare. La notte è il momento delle illusioni. Le stelle ci ricordano che non siamo soli – un’altra domanda che mi viene, in questo momento: se un dio ha creato tutti gli esseri, e l’uomo a sua immagine, allora anche sugli altri pianeti ci saranno degli uomini come noi? E una risata porta via questa sciocca domanda. Una risata e una considerazione. Siamo davvero così superbi da pensare una cosa del genere? Prediletti da dio?
Ecco, di notte queste cose accadono. Queste e molte altre che potrei descrivere minutamente – ma non basterebbero mille pagine.
D’altronde, tutti sappiamo cosa accade di notte.
Di notte, in questa notte, troviamo due persone – è sempre due il numero perfetto. Uno, l’identità. Uno, il singolo. Uno, un passo oltre in nulla assoluto. Ma due, due è un’altra cosa. Due è un viaggio oltre sé stessi. Due è un mondo che cambia. Due, la vita. Due, l’amore. Due, l’arte. Due persone. Sono su una panchina. Due amanti. Teneri amanti imbambolati come bambini davanti ad un gioco nuovo. L’amore rende bambini. L’amore è un’arte che rende artisti. I bambini sono artisti, indubbiamente. Tutto lo scontato, l’insignificante – in altre parole, tutto ciò che viene considerato “semplice” – ecco che ora acquistano un senso. Già, un senso. Quello che manca in certi giorni. O in certi anni. O in certe vite. Il senso di vivere. Siamo formiche o esseri umani? Lavoriamo per necessità, viviamo per necessità? Chi decide cosa è importante in questo mondo? Io non lo so. So solo che quando amiamo, siamo umani. E queste due persone, ecco che trovano il senso dove normalmente c’è il vuoto – per noi anime dannate, per noi moderni, per noi perduti. Viziati. Morti. Loro parlano della serata – e non per riempire il vuoto del silenzio. Non è l’imbarazzo a farli parlare, per fortuna. Dei tanti tipi di silenzio, quello dovuto all’imbarazzo è il peggiore. Un argomento stupido del resto. Ma siamo tutti stupidi in certe occasioni.
“Che scemo quel tipo” dice lei (odio dare nomi alle persone).
“Chi?”, chiede lui, sottratto per un istante ai suoi pensieri. Pensa sempre lui. Da qualche parte ha letto che il non pensare è solo un istante di tregua tra due pensieri. O forse si riferiva alle parole questa cosa. Non ha importanza.
“L’amico tuo, quello che hai portato stasera. Era veramente simpatico ma sembrava uno scemo.”
“Perché?”
“Be, è stato tutto il tempo a dire cavolate, alcune veramente vomitevoli. Di una volgarità allucinante – e tuttavia era simpatico. Poi ecco, è arrivata la sua ragazza e puff – è cambiato come… oddio non mi viene un paragone.”
“Sì, comunque ho capito che vuoi dire” afferma lui. E lo fa con un sorriso. Quante volte ha sentito quelle affermazioni e quante discussioni si è trovato ad affrontare col suo amico per questa cosa. Dovresti essere te stesso davanti alla tua ragazza, di cosa hai paura?, gli chiedeva sempre. E la risposta era sempre la stessa: a lei danno fastidio gli idioti. O comunque quelli che si comportano così. Allora cerco di evitare in sua presenza. Capisci no, quello che voglio dire? Capiva. Era ovvio. A tutti danno fastidio gli idioti. Certo, se sei un idiota di natura, non puoi nasconderlo alla persona che ami – o dici di amare. Sorride ancora, mentre lei lo fissa in modo strano. Cerca di scrutare i suoi pensieri. Ma non c’è bisogno di farsi troppe domande, perché la risposta è già pronta: “Be, a tutti danno fastidio gli idioti”.
Lei lo guarda senza capire. “Eh?”, chiede. Afferma, anzi. Giustamente non può aver seguito il suo flusso di pensieri.
“Ah sì, scusami tesoro. Una considerazione personale. Intendevo che a Maria – la sua ragazza – danno fastidio le persone stupide. Anzi quelle che si comportano da stupidi. E dunque lui finge di non esserlo per non farsi lasciare. Questo è il succo insomma.”
“Ma è una cazzata! Lei dovrebbe sapere con chi sta!”
“Già… vaglielo a dire. Sai quante volte ci siamo scannati per questa cosa? Ma l’amore fa questo ed altro alle persone”, afferma con un sorriso innocente e quasi canzonatorio.
Il silenzio. La parola magica, che gira nella testa di lei da un po’, è stata detta. ‘Persone’? No, ovviamente. Ormai stiamo insieme da quanto? Un po’ direi. Certo, la storia era cominciata come una cosa semplice, non seria. Ci si frequenta. Si fa sesso. Niente di che. Ed ecco che mi trovo a sentire la sua mancanza quando non c’è. E la paura di questa mancanza quando c’è. Non so… dovrei dirglielo? Ma lui? Lui cosa sente? Veramente non gliene frega niente? Me l’avrebbe detto. E allora no, non posso espormi io per prima. Non posso farmi male ancora – ma nel frattempo il silenzio è calato. E stavolta è silenzio da imbarazzo. E si capisce quando lui le chiede “Che hai?”
“Niente.”
“Niente. Il vostro niente è sempre tutto. Dai, che hai?”
Attende – o meglio, esita. “Niente davvero”. Esita ancora. Ora si capisce palesemente perché d’un tratto esclama “Fa freddo vero?”. No, non fa freddo.
“No, non fa freddo. Soprattutto perché ti sei tolta la giacca due minuti fa. Cos’hai all’improvviso?”
“Niente. Non insistere! Che palle che sei!” e qui cala il gelo.

Passano cinque minuti di silenzio. Scena da film, manca solo la balla di fieno (e qui ci sarebbe un’altra storiella da raccontare sulle balle di fieno, sulla loro danza col vento – ma non è questo il caso). Sei minuti. Sette. Colpi di tosse. Guardano i palazzi davanti a loro. Otto minuti. Un aereo passa, sembra una stella che si muove.

“Sembra una stella che si muove”, esordisce lui. Tanto per dire qualcosa, per rompere il ghiaccio. Stanno insieme da quanto? Un anno? E ancora si deve rompere il ghiaccio a volte.
“Cosa?”
“L’aereo lassù.”
“Ah sì.”
“…”
“…”
“Ehi, dai, vuoi dirmi cosa – “
“Mi ami?”. Una freccia. Un colpo d’ascia. Una fucilata su un vetro. Diretta come un diretto di un campione di boxe. Inavvertita come una zanzara e diretta come un diretto di un campione di boxe. Una zanzara boxer. Che strana accoppiata.
“Ma come te ne esci?”, gli occhi sgranati di lui su quelli impauriti di lei. Imbarazzo. Un silenzio eloquente, pensa lei.
“Un silenzio eloquente, il tuo. Scusami, non dovevo chiedertelo.”
“No, non dovevi”, taglia corto lui. Diretto come un treno senza fermate. Diretto come un bicchiere lanciato con odio contro un muro.
“Scusami… volevo solo sentirmelo dire. Sono una stupida. È che io… io…” non è facile dirlo. Anzi non è facile ammetterlo a sé stessi. A volte è bello, in generale è una sensazione calda. Ma quand’è così, pensa, è meglio spararsi. Non mi ricambia. Mi lascerà prima o poi, perché si lascia sempre chi è noioso. E tutto è noioso, solo l’amore rende bella anche la noia. Allora è stato con me solo per passare del tempo. Io sono uguale ad un’altra. Io sono nessuno, posso chiamarmi Maria o Gisella o Carmela o con un nome qualunque, non cambierebbe niente. Meglio chiuderla qui questa storia, domani sarà tutto –
“Non sei come le altre, questo posso dirtelo tranquillamente”. Diretto come un… ho finito i termini di paragone seri. Diretto come un escremento di piccione sulla macchina appena lavata. Questa è carina. Da riciclare. Quante bestemmie dette sugli escrementi di piccione lanciati come granate di merda sulle macchine. Soprattutto quelle nere. Ma torniamo a loro. Sa leggere nel pensiero?, si chiede lei.
“Sai leggere nel pensiero?”, non può saper leggere nel pensiero, ma che pensi? Idiota che sei a volte.
“Ma che dici? Devo saper leggere nel pensiero per dirti quel che credo? Quel che sento?”
“E allora perché non me lo dici mai? E perché non rispondi a certe domande? Non lo fai mai e mi lasci lì con la bocca aperta e le orecchie attente a cogliere la tua risposta che non arriva. Sei malvagio certe volte, penso!”
“Perché alcune cose non vanno dette, semplicemente.”
“Non capisco” e non capisce veramente. Quale altra strana teoria tirerà fuori ora? Cos’è che non si può dire? E perché?
“Le parole mentono.”
“…”, uno sguardo interrogativo lo scruta ora, con attenzione e circospezione.
“Già. Ora mi prenderai per matto. Ma troppe volte le parole mentono. Le parole stesse sono vere falsità. Cercano di descrivere e delimitare ciò che è illimitato. Questo stesso mondo non ha limite. Sapresti dire dove comincia la Francia e finisce la Spagna? No, eppure questi due pezzi di terra hanno nomi diversi. E si categorizza tutto il categorizzabile. Le persone, gli schemi, le istituzioni, gli Stati, persino i sentimenti. E a causa di questa stupida cosa, il peso delle parole è spesso insostenibile. È curioso vero? Delle cose che non hanno neanche un peso, che sono così trasparenti e volatili, mere vibrazioni nell’aria, sono così massicce e possono gettarti a terra come – anzi più di un masso che piomba dal cielo. E ciò che portano con sé lo è ancora di più”. Lo dice sospirando. Riprende – non è facile da dire quel che deve dire. E qui lui stesso sente il peso delle parole che deve dire e di quelle che non vuole più sentire e di quelle che non può dire. Non si potrebbe tacere, ogni tanto? Giusto per non guastarsi la vita. “Le parole mentono, dicevo. Le parole si dimenticano. Fuggono in un attimo. Si perdono nel tempo, appena dette sono già svanite. Effimere, fugaci. False. Le parole sono spesso inappropriate. Certo, spesso sono importanti senza dubbio, molte cose vengono dette che hanno un valore. Ma certe cose non vanno dette, mentre altre non possono essere dette.”
Capisce, ora, lei. Forse. “Ti hanno mentito su cose importanti?”
“Su cose essenziali, direi. Si dicono cose essenziali con una leggerezza inaudita. Si svuotano le parole del loro significato. Ho detto ‘loro’? Come se gli appartenesse il significato. Convenzioni inutili per gente primitiva. Un esempio? Ne vuoi uno? Anzi, vuoi quell’esempio? Vuoi capire cosa non voglio più dire, su cosa hanno mentito?”, le chiede. Lei annuisce, curiosa e impaurita. “Ti amo. La parola che dovrebbe esprimere tutto, ora, vale come merda. Hai presente la facilità con cui vai al cesso?” – qui a lei scappa un sorriso. L’argomento è serio però lei si ricorda spesso dei momenti in cui non è facile andare al cesso. ‘Tante prugne’, diceva sempre sua nonna. Ma smette subito di ridere, vedendo l’espressione greve di lui che, per fortuna, raccolto nei suoi pensieri, non si è accorto della sua risatina. “Ecco”, continua, “troppe volte l’ho sentito dire. Troppe volte l’ho detto” qui il suo volto si contrae, in una smorfia di dolore. Lei, di riflesso – forse per compassione, forse per gelosia – fa lo stesso. “Sì, anche io sono stato così, ho abusato delle parole ed ora ciò che mi spetta è il silenzio! Il mio errore più grande è stato dire troppe volte ti amo e troppo poche ti voglio bene. Ai miei non l’ho mai detto e ora è tardi. Troppo tardi…” e il viso si corruga in una smorfia di puro dolore e… cos’altro? Malinconia? Angoscia? Non so descriverlo. Neanche lui.
“Quindi le parole non esprimono le cose essenziali? Quelle veramente importanti?”
“No, infatti. Per questo non te l’ho detto. Per questo non te lo dico, né te lo dirò. È nel mio silenzio che sentirai cantare la mia melodia per il tuo amore”. Bella questa frase. Le piace. I suoi occhi brillano,danzano di gioia. E lui prosegue, pronto a sferrare il colpo finale: “Non hai capito i miei silenzi finora? Non vedevi quanto erano pieni di tutto il mio amore per te, questi silenzi? Quel vuoto di parole, quella mancanza di senso… non comprendevi come era pieno di tutto il senso del mondo e allo stesso tempo fuggisse il senso di questo stesso mondo? Quel senso dato alle cose con così poco valore… quel – ”
“Sì che l’ho capito”, interrompe di scatto. È troppo ansiosa di dirle ciò che pensa per lasciarlo fine. “Sempre. Però… temevo di non capirlo veramente. Ora però è chiaro. Il tuo silenzio è oro per me. Con tutti devi parlare, con tutti devi dimostrare di essere te stesso, devi sforzarti di farti capire. Con tutto il mondo devi far valere la tua identità, in ogni tua parola ‘io sono me stesso, capitemi, accettatemi’ risuona come l’urlo di un animale in gabbia. Mi ricorda quella frase di Rousseau sulla libertà e sulle catene… com’era? Non me la ricordo. Vabbè, comunque hai capito quel che voglio dire”. Lui sorride. Ha sempre amato quel suo modo di dire le cose e la fretta di concludere un discorso quando le parole non le vengono. Nel farlo, arriccia il naso e scuote la testa in una simpatica smorfia che adora come nient’altro. “Con me puoi essere quel che sei veramente e questo lo sai. E se questo vuol dire il niente, allora sii nulla per questo mondo.”
“Sì. Ora che non parlo, che non c’è niente da dire… ora hai capito tutto.”
“Io sono diversa però. Voglio dirtelo” – pausa… la paura le fa battere il cuore ancora. Per lei è sempre come fosse la prima volta. Sospira. Coraggio, uscite da me, parole e andate in lui… coraggio! – “Ti amo.”
Lui non parla. L’abbraccia. In silenzio, l’abbraccia. In silenzio, le carezza i capelli. In silenzio, mentre il mondo fuori parla, lui l’ama. Il mondo che odia, il mondo che fa rumore e casino, il mondo col traffico, con la gente che sbraita e si incazza, il mondo che fa frastuono, con le sue luci ed i suoi sgradevoli odori, è fuori. Il silenzio mette via il mondo che ha in odio. E lei, lei che del mondo è fuori – lei è dentro. Dentro, il silenzio.
  
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