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Autore: Fiamma Drakon    21/12/2009    1 recensioni
Pioggia.
Gocce fredde e insensibili piovevano dal cielo, simili a schegge di ghiaccio gli colpivano il viso, i vestiti, i capelli.
Ogni luce e speranza era fuggita dai suoi occhi d'oro liquido, rivolti verso l'alto, fissi sul nero manto di nubi che avevano oscurato le stelle da alcune ore.
Seduto lì, addossato contro una parete della villa, sporco di fango e foglie, osservava impassibile la pioggia che continuava a cadere, come aveva fatto per tutta la sera, fino ad allora.
Non si era mai mosso da quella postazione, neanche quando qualche domestico era uscito a cercarlo in giardino, chiamandolo invano più e più volte.
Non voleva vedere né sentire nessuno: voleva rimanere da solo con se stesso e con quella sensazione d'inutilità che lo stava divorando pezzo dopo pezzo, scavandogli una voragine nell'anima.
Forse credeva che quell'acqua potesse lavar via la commiserazione che provava verso di sé, essere senza apparente utilità nella vita.
- Ma io... cosa ci faccio ancora qui...? - pensò tra sé, socchiudendo gli occhi, vuoti.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gilbert Nightray, Xerxes Break
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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{Under the rain} Pioggia.
Gocce fredde e insensibili piovevano dal cielo, simili a schegge di ghiaccio gli colpivano il viso, i vestiti, i capelli.
Ogni luce e speranza era fuggita dai suoi occhi d'oro liquido, rivolti verso l'alto, fissi sul nero manto di nubi che avevano oscurato le stelle da alcune ore.
Seduto lì, addossato contro una parete della villa, sporco di fango e foglie, osservava impassibile la pioggia che continuava a cadere, come aveva fatto per tutta la sera, fino ad allora.
Non si era mai mosso da quella postazione, neanche quando qualche domestico era uscito a cercarlo in giardino, chiamandolo invano più e più volte.
Non voleva vedere né sentire nessuno: voleva rimanere da solo con se stesso e con quella sensazione d'inutilità che lo stava divorando pezzo dopo pezzo, scavandogli una voragine nell'anima.
Forse credeva che quell'acqua potesse lavar via la commiserazione che provava verso di sé, essere senza apparente utilità nella vita.
- Ma io... cosa ci faccio ancora qui...? - pensò tra sé, socchiudendo gli occhi, vuoti.
Una goccia di pioggia gli cadde vicino all'occhio, scivolando giù lungo la sua guancia assieme alle invisibili lacrime di dolore che rassegnazione che scendevano silenziose da essi.
In un baleno rivisse tutto: lo scoccare dell'orologio, l'aggressione al suo padrone, la pugnalata che gli aveva inferto senza alcun ritegno, il sapore del suo sangue.
Il suo signore era nell'Abisso.
Lui aveva contribuito a spedircelo.
Era un servo inutile: cosa aveva fatto per salvare il suo padrone?
Niente.
L'imponenza di quell'unica parola lo investì come un'onda di maremoto, colpendolo con ferocia inaudita, allargando ancora di più la voragine nel suo petto.
Niente: era quello che lui aveva fatto per Oz, per colui che si era preso la briga di proteggerlo durante la sua infanzia, che lo aveva aiutato tanto a lungo.
E lui come l'aveva ripagato? Pugnalandolo e gettandolo nell'Abisso.
Gli bruciava terribilmente, lo dilaniava, pensare d'essere stato l'artefice della sciagura del suo padrone.
Dopo quella maledetta Cerimonia della Maggiore Età, i sensi di colpa non avevano fatto altro che susseguirsi ininterrottamente, scandendo ogni istante di quelle giornate vuote e tristi.
Aveva sofferto tanto, nella tremenda certezza di quello che era accaduto, nel ricordo di cosa aveva visto e passato, eppure non gli sembrava abbastanza, se paragonato a quello che doveva aver provato il suo padrone.
E ancora soffriva e cercava il dolore, quel dolore che, forse, lo avrebbe aiutato ad espiare quella colpa imperdonabile di cui si era macchiato anni addietro, per merito della sua inutilità.
Se avesse potuto, avrebbe volentieri ceduto se stesso,  avrebbe accolto a braccia aperte la morte, si sarebbe gettato nell'Abisso in quell'istante, se fosse servito a far tornare il suo signore.
Ma era inutile, come lui: Oz non sarebbe tornato.
Sospirò, chiudendo gli occhi: perché non farla finita?
Perché non finirla lì, evitare di prolungare ancora quell'attesa che non avrebbe mai avuto fine?
Il suo signore non sarebbe tornato.
Break gli aveva dato la sua fiducia, gli aveva detto che poteva farcela, ma lui non ci credeva: che cos'era cambiato, in fin dei conti, da allora?
Forse il fatto che ora era più grande, che non aveva più scrupoli morali a maneggiare armi da fuoco, ad uccidere, lo rendevano capace di farcela?
No.
Aveva fallito quella volta: chi gli assicurava che non avrebbe fallito una seconda?
Era tutto vano: lui era solo un essere inutile.
Non c'era speranza di cambiare quella realtà.
E allora... che cos'era che gli impediva di farla finita?
In fondo, sarebbe stato così semplice, talmente semplice da essere inquietante: bastava estrarre la pistola, puntarsela alle tempie e premere il grilletto, come aveva fatto tante altre volte.
Eppure qualcosa, in fondo alla sua anima, glielo proibiva.
Doveva continuare a soffrire in quel modo? Continuare a straziarsi, cercare di cambiare l'inevitabile certezza della sua vita?
Doveva provare a se stesso che in effetti non era inutile?
No.
Comprese infine che quel qualcosa che rassomigliava tanto ad uno "scrupolo morale" altro non era che la determinazione di vivere, continuare ad aspettare Oz, nonostante la piena coscienza d'essere inutile.
Ma lui non voleva più soffrire, non voleva più vivere quella vita di costante disperazione, quella vita inutile.
- Oh... eccoti qui!! -.
Una voce lo raggiunse, allegra, familiare.
Era la voce di Break.
Aprì gli occhi, quel tanto che gli bastò a focalizzare lo sguardo su di lui: lo fissava dall'alto, in viso stampato il suo consueto, sereno sorriso.
Gilbert non rispose: che bisogno ce n'era?
Non aveva più bisogno di niente, solo di silenzio e del coraggio per morire: voleva farla finita, una volta per tutte.
Break lo fissò per alcuni istanti: seduto a terra, bagnato fradicio, gli occhi spenti rivolti verso il cielo, i vestiti sporchi di fango e ciuffi d'erba.
Era chiaro che ci fosse qualcosa che non andava, ma quando mai qualcosa andava con quel ragazzo?
Da quando il giovane Oz Bezarius era caduto nell'Abisso, non aveva fatto altro che cercare la solitudine, assolvendo passivamente ai compiti che gli venivano assegnati.
Gilbert Nightray era un ragazzo strano, a dir poco, ma anche inquietantemente interessante.
Si chinò vicino a lui.
- Che cos'hai, Gilbert? - domandò.
Il suo tono era premuroso, ma una parte di lui sapeva che era tutta una finzione: quando mai Xerxes Break si era veramente preoccupato per lui?
In verità, lui l'aveva sfruttato per ottenere informazioni sui Nightray.
Perché, tutt'un tratto, doveva cambiare atteggiamento?
Era finto, com'era sempre stato.
Eppure, nonostante fosse pienamente conscio di quella verità, non riuscì a non chiedere: - Break... perché la mia vita è così inutile...? -.
Voltò appena il capo verso di lui, fissandolo con occhi vacui, attendendo risposta.
Break tacque alcuni istanti.
- La tua vita non è inutile... - replicò dopo pochi istanti - ... non per me, almeno... -.
- Ho lasciato il mio signore nell'Abisso... -
- Sto lavorando per tirarlo fuori... e con il tuo aiuto ci riusciremo senz'altro -
- No, non è vero... -.
Si ostinava a negare ogni speranza di sfuggire a quella realtà che era riuscito ad imporsi con anni di auto-condizionamento: lui e la sua vita erano inutili.
Nient'altro da discutere.
Eppure, Break continuava ad insistere per fargli vedere la luce, in quel tunnel oscuro in cui si era costretto a entrare.
Xerxes si piegò su di lui, sfiorandogli con le dita le guance umide, fissandolo dritto negli occhi, sorridendo.
- Gilbert smettila di autocommiserarti: l'autocommiserazione non ti porterà da nessuna parte. Tu... - Break s'interruppe un istante, istante in cui il suo sguardo assunse un cipiglio inquietante - ... non sei inutile -.
Ma l'altro ancora non si convinceva.
- Chi mi assicura che andrà bene? Chi mi dice che non succederà come l'ultima volta, che lo perderò per sempre? -.
- Se te lo dico io... ti fidi? - gli sussurrò all'orecchio Break.
A quel punto, Gilbert scattò in piedi.
- No! Tu non sai come andranno le cose! Tu non lo sai cosa successe otto anni fa!!! Tu non...! -.
S'interruppe: Break gli aveva assestato uno schiaffo e ora lo fissava, serio.
- Se non ti fidi di me, su chi potrai contare per riavere indietro il tuo caro padrone? Chi altri sa di questa storia? Tuo fratello Vincent? I tuoi servi? Senza di me, tu non puoi fare niente per salvare Oz e lo sai. Perciò smettila di ripetere e ripetere di essere inutile e di piangerti addosso, perché così non concluderai mai niente e Oz rimarrà chiuso nell'Abisso fino alla fine dei suoi giorni -.
Quelle parole lo lasciarono perplesso, scioccato, tanto che le ginocchia cedettero, e lui si ritrovò in ginocchio a terra, il viso rivolto verso il basso.
Break aveva ragione: se non si fosse fidato di lui, il suo signore sarebbe rimasto confinato nell'Abisso per sempre.
E allora sarebbe stata la fine anche per lui: sapeva che non avrebbe potuto reggere a lungo i sensi di colpa, in quel caso.
Si sarebbe inevitabilmente suicidato.
Quelle dure parole avevano aperto un'esigua breccia nel suo inconscio, una feritoia dalla quale entrava, sottile, un fil di luce, quella luce che rappresentava la speranza che aveva tenuto volontariamente chiusa fuori fino ad allora, per rimanere immerso nei suoi sensi di colpa e nei suoi complessi.
Tutto gli apparve d'improvviso ribaltato, squassato da quella nuova certezza: sì, poteva farcela.
Poteva salvare il suo padrone dall'Abisso, perché era quello che voleva, era ciò per cui ancora viveva.
Si rialzò, fissò Break negli occhi.
In essi, quest'ultimo scorse finalmente un barlume di speranza.
Sorrise.
- Bene! Sei tutto fradicio e la servitù ti sta cercando da ore. Perché non rientriamo a prenderci una tazza di thé caldo? - propose, felice, avviandosi sotto l'acquazzone.
Gilbert lo seguì, in silenzio, ma rianimato da quella luce che si stava lentamente facendo spazio nel buio del suo inconscio, mentre la pioggia cessava e le nubi, diradatesi, lasciavano spazio alla volta celeste trapunta di stelle, metafora di quella nuova speranza.
   
 
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