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Autore: Fiamma Drakon    22/12/2009    0 recensioni
[Seguito di "Senza futuro"]
Quando non sai più cosa fare, inizi a gridare.
Invochi la pietà del tuo aguzzino, anche sapendo che non lo dissuaderai dal suo intento.
Quello era ciò che avevano fatto loro: gridare e gridare, accusarmi d’essere un’assassina, una traditrice del mio stesso sangue, della nostra razza.
Io le avevo guardate in viso, tutte quante, fissando nella memoria le loro espressioni cariche di odio, sofferenza e rancore verso di me, l’aguzzina che avrebbe posto fine alle loro esistenze.
Colei che si apprestava a lasciar calare il sipario sulle loro vite e sulla nostra razza.

[Personaggi: Lucy, Nana]
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Nightmare's Ending'
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Oblio rosso sangue Quando non sai più cosa fare, inizi a gridare.
Invochi la pietà del tuo aguzzino, anche sapendo che non lo dissuaderai dal suo intento.
Quello era ciò che avevano fatto loro: gridare e gridare, accusarmi d’essere un’assassina, una traditrice del mio stesso sangue, della nostra razza.
Io le avevo guardate in viso, tutte quante, fissando nella memoria le loro espressioni cariche di odio, sofferenza e rancore verso di me, l’aguzzina che avrebbe posto fine alle loro esistenze.
Colei che si apprestava a lasciar calare il sipario sulle loro vite e sulla nostra razza.
Diclonius dopo Diclonius, la nostra fine sopraggiungeva.
Vagavo per le città, a caccia delle mie simili, assassine acquattate nell’oscurità in attesa di vittime da uccidere per godere di quella follia omicida che anch’io avevo goduto negli anni passati: la gioia d’essere giudice della vita altrui, di poterla stroncare in qualsiasi momento, con una facilità inquietante.
Ora, il mio compito non era più sterminare gli umani, come la mia voce interiore continuava a suggerirmi, incessantemente, ma sterminare le altre Diclonius.
Mi ero rassegnata all’idea che noi tutte dovevamo scomparire: il genere umano aveva vinto ancora una volta la competizione universale per la sopravvivenza.
Noi avevamo perso, nonostante le nostre superiori capacità.
E, anche se avessimo continuato ad esistere, non avremmo mai potuto condurre un’esistenza pacifica.
Questo era il nostro destino: soccombere.
Ed io ero il messo celeste che avrebbe portato a compimento l’Apocalisse dei Diclonius, perché sentivo che era mio dovere.
Come con me aveva avuto inizio tutto quanto, così avrebbe avuto fine: la causa ne sarebbe stata anche la fine.
Era giusto.
Più vittime mi lasciavo alle spalle, più mi avvicinavo a quella finale, la vittima che avevo designato come ultima, prima di me.
Cercavo di rimandare quel pensiero, di essere fredda, come lo ero stata con tutte le altre cadute per mano mia, ma con lei non ce la facevo: avevo vissuto con lei sotto lo stesso tetto per anni.
L’altra me l’aveva presa in simpatia, l’aveva trattata come un’amica, tanto che anche la vera me, questa me, quella che doveva compiere il massacro, ne era stata contagiata.
E vacillavo, pensando di doverla uccidere, ma dovevo farlo: era il mio obiettivo finale.
L’ultimo.
Le sterminavo, una ad una, le scovavo anche nei posti più impensati.
Più procedevo nella mia ricerca, più mi accorgevo che eravamo una razza emarginata: nessuna delle Diclonius che trovavo viveva in condizioni dignitose.
Alcune avevano sul corpo segni di stupro, altre erano state destabilizzate psicologicamente da traumi di diverse entità, altre ancora mutilate di un arto o una parte di esso e poi quelle che, pur non avendone il coraggio, ambivano la morte per poter definitivamente porre fine al loro dolore.
Provavo pena per loro, per quello che l’essere Diclonius le aveva fatte diventare, per ciò di cui le aveva private.
Ciononostante, il mio compito doveva essere assolto.
Infine, dopo tante morti così atroci, dopo tante scene deplorevoli sotto più punti di vista, quel momento che avevo tanto temuto arrivò...

- Lucy... che cosa ci fai qui? - chiese lei, fissandomi severa, gli occhi carichi d’odio.
Sentivo la tensione di quel momento: l’avevo seguita fin da quando si era allontanata dalla casa dove viveva con Kouta.
Avevo sentito Mayu raccomandarsi di fare attenzione e tornare presto.
Non sapeva che non sarebbe più tornata: Nana era l’ultima sopravvissuta, oltre me.
Perché tutto fosse compiuto a dovere, lei doveva soccombere.
Dopo, sarebbe stato il mio turno: i miei vettori, le mie armi, sarebbero stati gli artefici della mia agognata fine.
Della fine delle Diclonius.
- Sono qui perché... per noi non c’è posto qui - replicai, seria, pacata.
- Che cosa vuoi fare? -
- Portare la fine della nostra razza. Sei l’ultima sopravvissuta oltre a me. Devi morire -.
La vidi indietreggiare di alcuni passi, in viso dipinta un’espressione terrorizzata.
Era quello il terrore che si provava quando stavi per essere ucciso?
Era lo stesso terrore che avevo visto in viso alle altre, ma non lo avevo ancora sperimentato e mai l’avrei fatto, perché mi sarei offerta volontariamente alla morte.
- Addio... Nana... -.
Protrassi i miei vettori verso di lei, rapidi: una morte veloce sarebbe stata indolore, sia per lei che per me.
Incontrai la resistenza dei suoi vettori, protratti verso di me in modo da respingere i miei.
Digrignai i denti: perché opponeva resistenza?
Contro di me non c’erano possibilità per lei.
- Arrenditi, Nana... - mormorai, forzando la sua difesa, riuscendo ad avvicinare i miei vettori a lei di una considerevole distanza.
Tuttavia, resisteva ancora: futili tentativi dinanzi all’ineluttabilità del nostro fato.
Saremmo morte tutte e due: perché continuare a lottare?
- No. Io... ho trovato una famiglia! Anche tu! Perché morire, lasciarli così? -
- Io non ho una famiglia né una casa -
- E Kouta?! Pensa Lucy! Pensa ai momenti trascorsi insieme, in pace! Pensa a cosa proverebbero gli altri se tu mi uccidessi! È davvero necessario morire? -.
Allentai la presa dei miei vettori: era necessario morire?
Quella frase continuò a riecheggiarmi nella testa, sempre più ovattata, in dissolvenza, lasciandomi dentro qualcosa che non seppi descrivere.
Era necessario?
Nana proseguì: - Hai trovato il modo di convivere pacificamente con gli umani. Perché vuoi morire? Perché vuoi uccidermi?! -.
Erano cose senza senso, dimenticate in qualche buio angolo della mia coscienza: la sopravvivenza, per me, era ormai una mera illusione.
E non solo per me, ma per tutte e due: destinate a soccombere, o per mano altrui, o per cause naturali.
Ma morire... prima o poi saremmo morte comunque.
Perché infettare ancora il genere umano?
Perché non finirla lì?
Attendere era forse necessario?
Sarebbe servito a qualcosa?
Allentai ancora un poco la presa dei miei vettori: stavo cedendo.
Stavo ritirando la mia decisione, mi stavo sciogliendo dal debito che mi ero imposta verso l’umanità.
Ritirai i miei vettori definitivamente, crollai a terra.
- Perché?!? Noi... dobbiamo morire! Noi non siamo umani! Noi dobbiamo lasciare spazio alla razza superiore, perché noi... noi... siamo inferiori... -.
- Non ci considerano minacce effettive... almeno, chi non sa. Possiamo ancora vivere una vita vera, normale, da umani. Lucy... andiamo? -.
Mi porse la mano per rialzarmi.
La fissai: nei suoi occhi c’era una speranza di redenzione.
Afferrai la sua mano, mi rialzai.
- Andiamo... -
- No... non posso -.
Mi fermai, attirando la sua attenzione.
- Lucy... -.
Quella speranza che avevo visto nei suoi occhi, sapevo che non era per me, ma per lei: dopo tutti gli umani e i Diclonius che avevo ucciso, non avevo più speranza di perdono.
Sorrisi, triste.
- Non posso essere salvata e dimenticare tutto quanto, perché una parte di me rimarrà per sempre un pericolo... per me, non c’è speranza di salvezza... -
- C-che stai dicendo? - domandò Nana.
Scossi il capo: a volte, era così stupida.
Continuai a fissarla e ciò le fece comprendere tutto, a giudicare dall’espressione costernata che le si dipinse in viso.
- No... non puoi... - esordì, spaventata.
Sorrisi di nuovo.
- Nana... - mormorai, protendendo di nuovo i miei vettori - ... addio... -.
- NO! LUCY NON FARLOOO!! - gridò, correndomi incontro.
Si lanciò contro di me, le braccia protese come per afferrarmi.
L’ultima cosa che vidi furono le lacrime che si affacciavano ai suoi occhi stravolti dal terrore.
Poi, sangue.
Dolore.
Infine, il vuoto.
   
 
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